Il legame americano

Articolo pubblicato sul numero 100 di Aspenia

Così scriveva il neosegretario di Stato americano, Dean Acheson, a inizio 1949: “L’Italia non si trova fisicamente sull’oceano nordatlantico e la sua inclusione [nella futura alleanza] estende gl’impegni dei partecipanti” verso il “Mediterraneo, la cui sicurezza sarebbe meglio gestire attraverso un accordo […] separato” e specifico. “Le clausole del Trattato di Pace limitano severamente le dimensioni della struttura militare e quindi la sua capacità di contribuire […] alla sicurezza collettiva dello spazio nordatlantico”. La difesa dell’Italia rischia di assorbire una parte delle “risorse e forze limitate di cui dispongono gli altri partecipanti. […] Nelle due guerre mondiali, l’Italia si è dimostrata alleato inefficace e indifendibile, avendo in entrambe le occasioni cambiato campo” e, nel 1940, “pugnalato alla schiena la Francia e il Regno Unito”. E però l’Italia era anche un “membro naturale della comunità europea-occidentale per razza, tradizione e arida civiltà (arid civilization)”. Il governo francese aveva fatto chiaro che sarebbe stato molto difficile “firmare o far ratificare il patto” in caso di mancata inclusione italiana. Gli Stati Uniti si erano già molto spesi per aiutare il governo italiano e “indebolire la minaccia comunista”.

L’ambasciatore americano a Roma, James Dunn, riteneva che rigettarne la richiesta di partecipazione “annullerebbe sostanzialmente tutto ciò che è stato guadagnato in Italia nell’ultimo anno e indurrebbe il governo italiano ad adottare una posizione di neutralità attraverso la quale tenterebbe di mettere l’Occidente contro l’Oriente. Un rifiuto aumenterebbe” inoltre “l’influenza comunista in Italia e screditerebbe l’attuale governo e le sue politiche filoccidentali”[1].

Così dunque Acheson caratterizzava l’Italia e spiegava perché, a dispetto di tutto, fosse necessario includerla nella costituenda alleanza nordatlantica – il trattato che sarebbe stato firmato a Washington il 4 aprile 1949. Acheson parlava a un presidente, Harry Truman, scettico e istintivamente contrario; a un mondo politico, inclusi tutti i principali membri della Commissione Esteri del Senato, in larga parte ostile all’idea; a un’opinione pubblica che assecondava con fatica l’estensione degli oneri internazionali degli USA e i vincoli che un’alleanza come quella che si stava negoziando avrebbero imposto alla libertà d’azione e alla stessa sovranità statunitense. Era stata in fondo quella la grande sfida della politica estera statunitense dei tre anni precedenti: convincere gli americani ad accettare i costi e le incombenze di una presenza internazionale ben maggiore di quanto non si credesse alla fine della Seconda guerra mondiale. Il tutto nel mezzo di una complessa transizione dall’economia di guerra a quella di pace, con migliaia di soldati che protestavano e si ammutinavano – da Manila a Berlino – per i tempi dilatati del loro ritorno a casa, e un mondo politico dove persistenti (e rafforzate dal voto di midterm del 1946) erano le voci di chi si opponeva alla linea internazionalista dell’amministrazione.

L’Italia e gli altri Paesi firmatari del Trattato nordatlantico nel 1949

 

I MOTIVI DI INCERTEZZA SULL’ITALIA – E SULL’EUROPA. Le ragioni di questa contrarietà ad accogliere l’Italia nel nucleo di paesi firmatari del Patto nordatlantico erano plurime. L’Italia era un paese debole e sconfitto, escluso dalle Nazioni Unite, punito con un trattato di pace non draconiano, ma che ne limitava di molto le capacità di potenza future. Come ricordava Acheson, e ribadivano tante narrazioni stereotipate sull’atteggiamento italiano nelle due guerre, l’Italia era un partner inaffidabile e politicamente volubile. Appariva, e per tanti aspetti costituiva, un fardello più che una risorsa: un peso di cui farsi carico più che un capitale da portare in dote all’alleanza. Un’inaffidabilità, questa, confermata dallo stesso quadro politico interno italiano.

Le elezioni dell’aprile 1948 avevano fatto tirare un sospiro di sollievo a Washington. Ma avevano prodotto un equilibrio tra le diverse forze di governo che non era certo quello auspicato dagli Stati Uniti. I quali molto avevano puntato sulla capacità delle forze laiche, repubblicane e socialdemocratiche su tutte, di temperare il conservatorismo e il clericalismo di ampi settori della Democrazia Cristiana e di promuovere quelle ricette riformatrici e “newdealiste” che l’amministrazione Truman riteneva indispensabili per la democratizzazione e la modernizzazione dell’Italia.

Dentro la galassia democristiana albergavano poi forze che, da destra come da sinistra, pensavano fosse ancora possibile sottrarsi alle tenaglie del bipolarismo della guerra fredda, evitando una scelta di campo che si stava facendo in realtà inderogabile. Alla persistenza di un pacifismo di matrice cristiana dalle radici nobili e profonde facevano da controcanto le illusioni terzo-forziste di chi vagheggiava ancora la possibilità di dare vita a blocchi cattolici sudeuropei, magari assieme alla Spagna di Franco. La variabile politica che più preoccupava gli Stati Uniti era però quella degli attori filosovietici: un partito comunista più forte e popolare di quello che stava diventando il blocco guidato dagli Stati Uniti; e un partito socialista, lacerato sì da scontri e scissioni, ma solido e legato a un’alleanza politica e sindacale con il PCI che gli USA per anni avrebbero poi cercato di incrinare. La domanda che molti a Washington si ponevano era se si potesse armare e integrare militarmente un paese che sarebbe potuto cadere “legalmente” (ovvero per via elettorale) in campo nemico; dove dall’amministrazione pubblica alle forze armate dai media alle imprese, fortissima era la possibilità che quinte colonne sabotassero l’alleanza.

Influivano, infine, le gerarchie geopolitiche e la conseguente definizione delle priorità strategiche dell’amministrazione. Il cuore dell’incipiente competizione bipolare con l’URSS rimaneva la Germania. L’Italia non costituiva teatro marginale, ma nemmeno prioritario. La svolta in parte globalista della politica estera statunitense sarebbe arrivata solo nei mesi e negli anni successivi: in Asia con la conquista comunista della Cina nell’ottobre 1949 e lo scoppio del conflitto coreano nel giugno 1950, e nel resto del mondo con l’ultima fase della decolonizzazione, il neutralismo transnazionale lanciato a Bandung nel 1955 e l’attivismo globale dell’URSS post-staliniana.

Tutto il dibattito politico e strategico statunitense del 1947-49 fu centrato sulla necessità di correlare mezzi e fini, di definire priorità e distinguere tra le aree che erano strategicamente vitali e quelle che non lo erano. Un dibattito, questo, dominato non di rado da considerazioni di bilancio e dal conservatorismo fiscale del Presidente Truman, a lungo contrario a finanziare a deficit la sicurezza e capace di portare in poco tempo, tra il 1945 e il 1948, la spesa militare dal 38 al 3.5% del pil.

Poche figure sintetizzarono questa linea meglio di George Kennan, il diplomatico che da Mosca aveva invitato a promuovere una politica di fermo contenimento di quello che considerava essere l’intrinseco espansionismo dell’URSS e che nel maggio 1947 Truman aveva messo a guidare il neonato “Policy Planning Staff” del dipartimento di Stato. Il containment di Kennan sarebbe stato quasi subito attaccato come una “non politica” dal leggendario intellettuale e commentatore Walter Lippmann, e il diplomatico avrebbe fatto precipitosamente retromarcia, denunciando la cattiva applicazione delle sue indicazioni e l’adozione di un globalismo tanto ideologico quanto rigido, che a suo dire congelava e procrastinava la guerra fredda invece di risolverla. Il dissenso di Kennan si manifestò con forza crescente soprattutto nel corso del 1950, con la sua presa di distanza da un documento chiave come l’NSC-68 (allora segreto), che non solo giustificava strategicamente l’adozione d’impegni ben più ampi e globali da parte degli Stati Uniti, ma ne rivendicava anche le positive ricadute economiche attraverso l’adozione di un esplicito keynesismo militare. Truman approvò il documento dopo molte resistenze nel settembre di quell’anno, in conseguenza dello scoppio della guerra di Corea. Ma le perplessità di Kennan, per quanto spesso sottaciute, erano emerse già rispetto all’ipotesi di dare vita a un’alleanza nordatlantica, come quella poi ratificata nell’aprile del 1949.

Il diplomatico obiettava all’idea di perimetro largo dell’alleanza, che ne avrebbe attenuato il carattere naturale e organico, sovraestendendone compiti e oneri. Un’alleanza di nazioni “affini” (like-minded), sostenne, era di gran lunga preferibile: una coalizione che avrebbe incluso gli USA, la Gran Bretagna, il Canada e magari il Portogallo di Salazar, dove Kennan aveva lavorato tra il 1942 e il 1944, e di cui apprezzava il sobrio e disciplinato reazionarismo. Da una simile prospettiva, l’adesione italiana non era in alcun modo contemplabile. Al dato banalmente geografico si aggiungeva quello politico-culturale: la “non atlanticità” italiana si manifestava anche nella fragilità di una nazione che, nel forte pregiudizio di Kennan verso paesi latini in Europa come nelle Americhe, non poteva avere nulla a che fare con il suo gruppo di like-minded nations.

George Kennan all’aeroporto di Berlino Tempelhof nel 1953

 

L’IMPORTANZA DELLA PENISOLA. Il segretario di Stato Acheson, come abbiamo visto, capovolgeva questa logica. Evocava razza, religione e civiltà – come del resto Kennan – per tracciare un campo occidentale (e quindi atlantico) ben più ampio entro il quale l’Italia trovava invece naturale collocazione. Lo faceva per vincere appunto le resistenze all’inclusione di Roma nell’alleanza. E lo faceva per una serie di ragioni che stavano inducendo pezzi dell’amministrazione Truman, a partire dal Dipartimento di Stato, a rivedere la linea originaria. Ve ne era una ovvia e generale: l’accelerato deterioramento dei rapporti con Mosca e il convincimento che gli USA dovessero assumere responsabilità nuove, istituzionalizzando la costituzione di un blocco euro-statunitense federato dalla garanzia securitaria degli Stati Uniti e dalla formalizzazione del loro impegno a proteggere e difendere i partner europei.

E vi erano poi una serie di ragioni legate specificamente al caso italiano. Al neonato Dipartimento della Difesa, i capi di Stato maggiore (Joint Chiefs of Staff) sottolineavano con enfasi crescente la valenza strategica del fianco sud e l’importanza delle basi che l’Italia avrebbe potuto garantire agli Stati Uniti, a partire dalle isole. Nei lunghi negoziati sulla alleanza nordatlantica iniziati nel luglio 1948 (i Washington Talks), la Francia si era schierata a favore dell’inclusione italiana con l’obiettivo di spostare a sud il baricentro del blocco e ridurre il rischio di un dominio anglo-americano, e con l’auspicio che le garanzie dell’alleanza potessero essere poi estese anche ai suoi territori nordafricani.

 

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Vi era infine il contesto politico italiano, probabilmente la variabile più importante nell’influenzare gli USA. In termini generali, pesavano più considerazioni politiche e psicologiche che strettamente militari. L’alleanza serviva per rassicurare gli alleati, indurli a collaborare tra di loro e contribuire alla difesa comune. E serviva per rafforzare i soggetti politicamente più fragili: quelli che maggiormente avevano bisogno di quel binomio strettamente interdipendente di democratizzazione e modernizzazione che gli Stati Uniti volevano promuovere, anche perché nella lettura molto liberal e progressista ancora egemone si considerava quel binomio come il miglior antidoto alla diffusione di radicalismi autoritari di cui il comunismo rappresentava l’ultima, estrema incarnazione.

Da questa prospettiva, lasciare l’Italia fuori dal Patto nordatlantico avrebbe indebolito e delegittimato De Gasperi, il suo governo e i partiti che lo sostenevano. L’alleanza e il Piano Marshall erano insomma due facce della stessa medaglia: strumenti d’integrazione – securitaria ed economica – dell’Italia entro uno spazio atlantico che si estendeva ben oltre i suoi confini geografici; e mezzi di un grand design modernizzatore, democratizzatore e anticomunista.

 

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Il containment dell’Unione Sovietica passava pertanto anche attraverso l’ammissione dell’Italia nell’Alleanza nordatlantica. Nell’apporre la firma italiana, Il 4 aprile 1949, il ministro degli Esteri Carlo Sforza espresse parole alte e non di circostanza. Siglare quell’accordo sul solo statunitense, dichiarò, “aiuta tutti a rendersi conto che gli oceani stanno diventando piccoli laghi e che anche le formazioni storiche più diverse non rappresentano altro che una varietà di folklore di fronte alla necessità di unirci, tutti, per salvare il nostro patrimonio comune più caro: la pace e la democrazia”. “Il Patto nordatlantico”, chiosò Sforza, “costituirà uno degli eventi più nobili e generosi della storia dell’umanità se tutti i suoi membri dimostreranno – all’interno e all’esterno del Patto – che la malinconica storia dell’Europa ha insegnato loro questa suprema lezione: che nessuna nazione al mondo può sentirsi sicura della propria prosperità e della propria pace se tutti i suoi vicini non stanno marciando con la stessa sicurezza verso gli obiettivi condivisi di prosperità e sicurezza”[2].

Il parlamento italiano ratificò rapidamente l’accordo, anche se non mancarono dissensi e discussioni all’interno della DC. Nasceva allora un’alleanza asimmetrica e diseguale, subito strutturata in una propria organizzazione, la NATO. Il soggetto egemone e federatore, gli Stati Uniti, si faceva carico della sicurezza dei paesi europei, ottenendo in cambio privilegi semi-imperiali, su tutti il mantenimento della propria giurisdizione sui militari statunitensi presenti in Europa (una extraterritorialità, questa, di cui avrebbero ad esempio beneficiato i piloti statunitensi responsabili per la strage del Cermis nel 1998).

 

L’ITALIA NELLA NATO E LE SUE AMBIGUITÀ. Dentro questa asimmetria di fondo, la dialettica rimaneva però intensa e destinata a marcare la storia delle relazioni italo-statunitensi. Come e più che agli altri membri della NATO, le diverse amministrazioni statunitensi chiedevano all’Italia di contribuire maggiormente, e in modo meno ambiguo, alla difesa comune e alle politiche NATO. Aumentando le spese militari, soprattutto dopo lo scoppio della guerra di Corea; coordinando le politiche di sicurezza; assumendo una linea più ferma contro le forze politiche e sindacali filosovietiche, se necessario dichiarandole illegali come chiese, ad esempio, l’amministrazione Eisenhower. Richieste, queste, che il partner italiano spesso rigettò, mosso da velleitarismi politici – rispetto alla presunta autonomia di cui l’Italia avrebbe potuto godere nello spazio mediterraneo – ovvero da una sensibilità costituzionale che preveniva quelle derive autoritarie talora sollecitate da Washington, come nel periodo in cui Clare Boothe Luce fu ambasciatrice a Roma (1953-56) o nei primi anni dell’amministrazione Nixon (1969-1972).

Una sede del PCI all’inizio degli anni ’50

 

Se gli Stati Uniti considerarono spesso l’Italia come un partner atlantico ambiguo e mai pienamente affidabile, Roma non di rado lamentò l’attitudine binaria e impetuosa della diplomazia statunitense (poche settimane dopo l’inizio del conflitto coreano il presidente del Consiglio De Gasperi auspicò che l’Europa, “più saggia ed esperta” dei “fanciulloni americani” riuscisse a dire una “ferma parola di pace”). Agiva, e avrebbe agito durante gran parte della guerra fredda, una tensione di fondo tra le due lealtà entro cui era chiamato a operare chi guidava l’Italia: quella internazionale a un’alleanza in cui il collante fondamentale era l’anticomunismo e il fine ultimo il contenimento dell’URSS; e quella a una costituzione antifascista a cui avevano contribuito forze filosovietiche, che peraltro governavano importanti città (e, in futuro, regioni) e partecipavano attivamente al gioco parlamentare, contribuendo spesso all’iter legislativo.

Una tensione, questa, che sarebbe stata superata solo col tempo, con l’affievolirsi delle matrici originarie dell’alleanza, la trasformazione prima del PSI e poi del PCI e la fine della guerra fredda.

 

 


Note:

[1] Dean Acheson, “Memorandum of the discussion with the President”, 2 marzo 1949, Foreign Relations of the United States, vol. iv: Western Europe, us Government Printing Office, 1974.

[2] Dichiarazione del ministro degli Esteri italiano Carlo Sforza in occasione della ratifica del Trattato nordatlantico, 4 aprile 1949.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 100 di Aspenia

 

 

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