Su un totale di 100.000-120.000 serbi che abitano in Kosovo, circa 50.000 risiedono nel territorio delle quattro municipalità del nord: Mitrovica Nord, Leposavic, Zvecan e Zubin Potok, dove i serbi rappresentano il 90% della popolazione. Il Kosovo del Nord vive dal 1999, anno della Operation Allied Force della NATO contro la Repubblica Federale di Jugoslavia, in un limbo. Formalmente è parte della Repubblica del Kosovo (proclamatasi indipendente nel febbraio 2008), la quale però non riesce a esercitarvi appieno sovranità ed effettività di governo. Di fatto è ancora legato a Belgrado, la quale vi sostiene anche finanziariamente strutture parallele. Il partito di maggioranza dei serbi del Kosovo, la Srpska Lista, è diretta emanazione del Partito Serbo del Progresso, la formazione politica guidata dal presidente serbo Aleksandar Vucic.
Il 29 maggio a Zvecan, sobborgo a nord di Mitrovica vicino alla sede di tutte le istituzioni rappresentative della comunità serba, ci sono stati scontri tra manifestanti serbi e le forze del contingente NATO della KFOR (la “Kosovo Force” operativa ininterrottamente dal giugno 1999).
Gli incidenti sono l’ultima fase di un’escalation iniziata con la «crisi delle targhe» dell’estate scorsa quando il Primo Ministro kosovaro, Albin Kurti, emanò un provvedimento che obbligava i residenti a sostituire le targhe con sigla KM (Kosovska Mitrovica) rilasciate da Belgrado con targhe con sigla RKS (Repubblica del Kosovo). La reazione dei serbi del Nord Kosovo era stata di violente proteste, il blocco delle frontiere con la Serbia e le dimissioni in massa dei circa 3.000 funzionari di etnia serba tra sindaci, magistrati, poliziotti e altri dipendenti delle istituzioni dell’ex-provincia. Le elezioni municipali svoltesi il 23 aprile scorso per l’elezione di nuovi consigli nel Nord Kosovo hanno visto l’ennesimo braccio di ferro tra Belgrado, che ha imposto ai serbo-kosovari di boicottare le elezioni, e Pristina, che è riuscita a far eleggere sindaci di etnia albanese nonostante l’affluenza sia stata solo del 3,47%.
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Verso la fine di maggio i quattro neo-sindaci si sono insediati nei rispettivi municipi grazie alla scorta delle unità speciali di polizia di Pristina. Mentre l’insediamento nel municipio di Mitrovica Nord è avvenuto senza incidenti di rilievo, quelli negli altri tre municipi hanno scatenato le proteste dei serbo-kosovari e di Belgrado. Le manifestazioni contro l’insediamento dei sindaci di Leposavic, Zubin Potok e Zvecan hanno preso la forma di presidi davanti alle sedi municipali. A Zvecan il presidio è sfociato in scontri. I militari della KFOR si sono frapposti a protezione del municipio, ad evitare il contatto tra i dimostranti e le forze di Pristina. Non è chiaro se siano stati solo i serbi a lanciare bombe incendiarie e oggetti contundenti oppure se anche le forze kosovaro-albanesi abbiano responsabilità negli scontri. Comunque, risultano 34 i militari feriti, tra cui 14 italiani. Sono 52 i feriti da parte serba. Il clima si è surriscaldato ulteriormente con la reazione di Vucic, che ha accusato la KFOR di «non aver fatto il proprio lavoro per fermare le azioni brutali» contro i serbi del Kosovo e ha posto l’esercito in stato di piena prontezza operativa al confine con l’ex provincia. La NATO ha aumentato il contingente KFOR di 700 unità portandolo a quasi 4500 soldati. I presidi dei serbi sono continuati tra misure di sicurezza rafforzate.
Il 1° giugno un centinaio di kosovaro-albanesi si sono radunati sul lato Sud del ponte sul fiume Ibar, che separa la zona a maggioranza albanese della città di Mitrovica dalla zona Nord, a maggioranza serba. Scopo del raduno, in cui sono state esibite bandiere della Grande Albania e dell’UCK (il partito/milizia kosovaro, sorto come organizzazione paramilitare), era manifestare sostegno alla linea intransigente del premier Kurti e «marciare a Nord (Mitrovica)»: la cosa non è stata permessa dai militari della KFOR, che hanno allestito un cordone attorno ai manifestanti.
L’intransigenza di Kurti a trovare un compromesso lo ha posto in una posizione di isolamento. Lo dimostrano le dichiarazioni di diversi leader occidentali, tra cui Giorgia Meloni, contro l’irremovibilità di Kurti sulla decisione di imporre con la forza sindaci che non godono di rappresentatività democratica e la sua dilazione nel concedere l’autogoverno alle municipalità serbe. Secondo la portavoce del Parlamento Europeo per il Kosovo, Viola von Cramon, in missione in Kosovo subito dopo lo scoppio della crisi, il fatto che «i sindaci siano stati eletti legalmente non significa che hanno la legittimità (politica) per entrare negli edifici municipali. Nessuno può governare col 2% dei voti». Sulla stessa lunghezza d’onda gli ambasciatori USA e UE, i quali hanno invitato i sindaci della quattro municipalità ad un incontro per comunicare loro che «è importante che pubblici ufficiali entrino negli uffici senza fare uso della forza».
I sindaci di Zvecan e Zubin Potok, del Partito Democratico del Kosovo, di opposizione, si sono recati all’incontro ed hanno aderito ad una delle due richieste occidentali per stemperare la tensione, cioè il trasferimento degli uffici in altre sedi. I sindaci di Mitrovica Nord e Leposavic, del Movimento per l’Auto-Determinazione di Kurti, invece si sono eclissati. Anche alla seconda richiesta, cioè il ritiro delle forze speciali dalle sedi dei municipi, avanzata dall’ambasciatore americano, Kurti ha risposto negativamente, compromettendo ulteriormente i propri difficili rapporti con la comunità internazionale. Anche a Gracanica, comune a maggioranza serba vicino a Pristina dove si trova uno dei quattro monasteri serbo-ortodossi del Kosovo che sono patrimonio UNESCO, i serbi hanno dato vita a una manifestazione di protesta.
In quest’ultima crisi i serbi sollevano tre questioni principali.
Primo, un problema di rappresentatività democratica dei neo-sindaci, dovuto alla irrisoria partecipazione al voto alle elezioni di aprile. Secondo, essi contestano la legittimità della presenza di forze di polizia inviate da Pristina. Infatti, le ROSU (Regional Operations Support Unit) sono delle unità speciali delle forze di polizia del Kosovo – di fatto delle forze para-militari – il cui intervento in alcuna delle 10 municipalità a maggioranza serba del Kosovo sarebbe, secondo i serbi, in violazione dell’accordo di Bruxelles del 2013. Tali accordi, mediati dall’UE e dagli USA, disciplinano cinque aree per la cooperazione tra Belgrado e Pristina, una delle quali riguarda la Polizia della Repubblica del Kosovo. Essa deve essere unica in tutto il territorio kosovaro ma dotata di un Comando Regionale nelle quattro municipalità del Nord del Kosovo, Comando Regionale che deve essere guidato da un serbo. L’invio di poliziotti da parte di Pristina sarebbe quindi, secondo i serbi, un abuso, mentre secondo Kurti è un modo per affermare la sovranità di Pristina. Inoltre, sempre secondo i serbi, le caratteristiche para-militari delle ROSU determinerebbero una violazione della Risoluzione 1244/1999 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la quale stabilendo i principi per il governo provvisorio del Kosovo in attesa di una soluzione politica definitiva dà applicazione agli Accordi di Rambouillet (rifiutati dalla Repubblica Federale di Jugoslavia prima dell’intervento Nato del 1999, poi imposti alla stessa attraverso la Risoluzione 1244/1999, che conferisce efficacia legale agli Accordi di Rambouillet). Tali Accordi stabiliscono che «la Repubblica Federale di Jugoslavia ha competenza in Kosovo nelle sfere che riguardano (tra le varie materie) la difesa».
Terzo e più importante punto, i serbi contestano a Pristina la mancata costituzione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba del Kosovo, come previsto dall’Accordo di Bruxelles del 2013 e ribadito dall’Accordo di Bruxelles per la normalizzazione del febbraio scorso, in base al quale «la Serbia non si opporrà all’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni internazionali» (articolo 4) e «il Kosovo concederà un adeguato livello di auto-gestione alla comunità serba» (articolo 7). Allo stesso modo il Kosovo reclama il rispetto da parte della Serbia «dell’eguaglianza sovrana di tutti gli Stati e il rispetto della loro indipendenza» (articolo 2), il che equivale al riconoscimento dell’indipendenza dell’ex-provincia da parte di Belgrado.
Lo stallo è causato anche da una disposizione dell’Allegato di attuazione, concordato verbalmente ma non firmato lo scorso marzo a Ohrid, secondo la quale «tutti gli articoli saranno attuati indipendentemente l’uno dall’altro». Ciò permette a Belgrado di condizionare il riconoscimento dell’indipendenza kosovara alla costituzione dell’Associazione delle municipalità serbe, e a Pristina di bloccare la creazione dell’Associazione fino a quando Belgrado non ne avrà riconosciuto l’indipendenza. Gli albanesi sono restii a creare tale Associazione in quanto temono che essa sarebbe la base legale di partenza dalla quale i serbi reclameranno la secessione da Pristina, così come la Republika Srpska di Bosnia sta facendo nei confronti di Sarajevo.
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Alcune conclusioni possono già trarsi da questa ultima crisi.
Nell’immediato, una de-escalation non può prescindere dalla ripresa dei colloqui tra Kurti e Vucic, come chiesto dal comunicato del Dipartimento di Stato americano del 30 maggio. Invito che è stato accolto da Kurti e presumibilmente lo sarà anche da Vucic. Inoltre, una de-escalation non sembra possibile senza l’indizione di nuove elezioni municipali con la partecipazione dei serbo-kosovari. L’incontro del 1° giugno a Chisinau, a margine del vertice della Comunità Politica Europea, tra Vucic, la Presidente kosovara Vjosa Osmani, l’Alto Rappresentante per gli Afffari Esteri dell’UE Josep Borrell, alla presenza del Presidente francese Emmanuel Macron e del cancelliere tedesco Olaf Scholz, è servito a formalizzare tre richieste dell’EU ai leader di Serbia e Kosovo: nuove elezioni nelle quattro municipalità il prima possibile, partecipazione dei serbi al voto, formazione dell’Associazione delle municipalità a maggioranza serba.
Secondo, occorre fare attenzione alle possibili provocazioni e strumentalizzazioni. E’ molto probabile che tra i manifestanti serbo-kosovari ci fossero anche agitatori mandati da Belgrado. Esponenti della Srpska Lista sono i rappresentanti della comunità serba che hanno interloquito con i militari della KFOR nei luoghi in cui sono in corso i presidi.
Così come non possono essere escluse interferenze russe per agitare gli animi e creare problemi alle truppe NATO. Significative sono le «Z» scritte con gli spray da alcuni manifestanti serbi sui blindati della KFOR, che ricordano le Z con cui i soldati russi hanno marcato i propri carri armati diretti in Ucraina, a testimoniare la simpatia dei serbi per la Russia, meritevole ai loro occhi di sostenere la causa serba in Kosovo. Effettivamente dichiarazioni di supporto ai serbi sono state rilasciate dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, secondo il quale la Russia sostiene «incondizionatamente» la Serbia, e «tutti i legittimi interessi dei serbi del Kosovo devono essere rispettati e non ci deve essere posto per azioni provocatorie che violino i loro diritti». Così come la portavoce del ministero degli Affari Esteri, Maria Zakharova, ha accusato la NATO di essere «un fattore di escalation», e ha dichiarato che l’Occidente dimostra un «approccio selettivo nei confronti delle disposizioni della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza», delle quali solamente la presenza militare nella provincia è «presa sul serio».
Ma è anche vero che Mosca ha lasciato intendere più volte che potrebbe abbandonare i serbi al loro destino qualora l’Occidente riconoscesse l’annessione russa della Crimea, giustificata sulla base del principio di nazionalità e autodeterminazione dei popoli allo stesso modo della secessione del Kosovo dalla Serbia. Dal canto suo la Cina, attraverso l’ambasciatore a Belgrado, non ha fatto mancare l’appoggio alla Serbia rinnovando il proprio supporto «agli sforzi della Serbia di salvaguardare la sua sovranità e l’integrità territoriale».
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In ultima analisi, una soluzione di lungo termine non può prescindere dalla realtà sul terreno e dalla volontà degli abitanti della regione. I serbi che vivono nel Kosovo centrale e del Sud sembrano aver accettato la realtà che la sovranità di Belgrado sul Kosovo non tornerà più. Anche Belgrado lo ha nei fatti accettato, nonostante le dichiarazioni ufficiali. Alle sei municipalità a maggioranza serba del Kosovo centrale e del Sud (in cui vivono tra 50.000 e 70.000 serbi) dovrebbero essere garantite le tutele di autonomia già previste dall’Accordo di Bruxelles. Allo stesso modo i monasteri serbo-ortodossi devono poter godere di uno status internazionale, come peraltro previsto dall’articolo 7 dell’Accordo per la normalizzazione.
Ma per quanto riguarda il Nord del Kosovo, occorre riconoscere che esso è un corpus separatum, di fatto legato alla Serbia per volontà dei propri abitanti. Così come la maggioranza dei kosovaro-albanesi che popolano il resto del Kosovo si sentono sentimentalmente e culturalmente legati all’Albania. Un referendum dovrebbe permettere agli abitanti del Kosovo di decidere del proprio futuro. Il ritorno del Kosovo del Nord con Belgrado e una qualche forma di unione, federale o confederale, tra il resto del Kosovo e la Repubblica di Albania dovrebbero essere tra le opzioni sul tavolo: gli abitanti del Kosovo dovrebbero essere chiamati a scegliere.
La situazione geopolitica attuale rende però per il momento inattuabile un tale referendum e l’eventuale ritorno del Kosovo del Nord sotto la sovranità di Belgrado. Infatti, un ricongiungimento del Nord del Kosovo a Belgrado avrebbe come effetto diretto l’ingrandimento di uno Stato ufficialmente neutrale, la Repubblica di Serbia, ma come possibile effetto indiretto l’avanzamento della Russia, dati i legami tra serbi e russi. Tale ultimo esito sarebbe inaccettabile per Washington e i suoi alleati.
Un tale indesiderato successo russo potrebbe essere disinnescato mediante un preventivo accordo con la Serbia, in base al quale in caso di volontà dei kosovari delle quattro province a maggioranza serba del Nord Kosovo di tornare con Belgrado espressa in un libero referendum, Belgrado potrebbe annettere il Kosovo del Nord dopo aver adempiuto a tre condizioni: adesione alla NATO, ingresso nell’UE, sottoscrizione di un impegno al rispetto dell’integrità territoriale degli Stati della regione ed in particolare dello Stato successore del Kosovo, della Bosnia-Erzegovina e del Montenegro.
Ma i tempi in cui vi era coincidenza di vedute tra Washington e Bruxelles, grazie all’intesa tra l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Federica Mogherini, e il Consigliere per la Sicurezza della Casa Bianca, John Bolton, per una soluzione che preveda un aggiustamento dei confini sembrano essere superati.