Il Giappone e le ambizioni cinesi, tra accordi commerciali e nuova amministrazione USA

La nascita, il 15 novembre, della Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), con l’etichetta di più grande area di libero scambio al mondo (include ben 15 Paesi, tra cui il maggiore promotore, la Cina), lancia un messaggio chiaro a Joe Biden. L’Asia “multipolare” con la quale dovrà confrontarsi nei prossimi quattro anni non è la stessa che ha lasciato quando è scaduto il suo mandato di Vicepresidente degli Stati Uniti nel 2016.

In particolare gli alleati di Washington e più genericamente i Paesi amici sono stati indotti dal pur non lunghissimo periodo della Amministrazione Trump a organizzarsi in modo autonomo, sia pure limitatamente a scelte di natura economico/commerciale. Si è avventurato in questa direzione perfino il Giappone, che contribuisce in modo decisivo a dare alla neonata associazione quella apparente apoliticità cui Pechino non si stanca di appellarsi ogniqualvolta cerca di allargare la sua influenza.

Gli aderenti alla RCEP. I diversi colori indicano le diverse parti negoziatrici

 

Back to Asia?

In realtà il governo di Tokyo, agendo nel nome della continuità con quelli precedenti malgrado siano cambiati a settembre il Primo Ministro (ora Suga Yoshihide) e i principali ministri, ha oggi come suo prioritario, esplicito obiettivo di politica estera riportare gli Stati Uniti a svolgere un ruolo di guida e di sostegno – in sintonia con gli alleati e non procedendo in modo confuso e contraddittorio come spesso avvenuto nel recente passato – nello sforzo di tenere sotto controllo l’espansione a tutto campo della Cina.

Il ministro degli esteri Motegi Toshimitsu è stato chiaro: il Giappone resta legato alla strategia del “Free and open Indo-Pacific” che significa libertà di commercio, ma anche libertà di navigazione e rule of Law. Dunque un nuovo secco no all‘azione cinese nel Mar Cinese Meridionale, con riferimento non solo alla costruzione di isole artificiali e alle rivendicazioni territoriali, ma anche al tentativo di imporre un “codice di condotta” cucito sulle aspirazioni di Pechino; e un no ad ogni tentativo di impostare un “nuovo ordine”, anche soltanto nel campo economico.

La vera sfida per il Giappone – ha affermato Motegi – è convincere Biden che la sicurezza nel settore Indo-Pacifico deve essere considerata una priorità, non certo meno importante del dialogo globale con la Cina sul clima, il Covid e quant’altro. Lo strumento c’è già, la partnership quadrilatera (QUAD) tra Stati Uniti, Giappone, Australia e India. Occorre rafforzarla. Parole alle quali hanno fatto subito seguito i fatti con il raggiungimento (17 novembre) di nuove intese con Canberra durante la visita a Tokyo del premier australiano Scott Morrison. Il patto che è stato raggiunto – definito Accordo di accesso reciproco – rappresenta un approfondimento della già intensa cooperazione militare tra i due Paesi. Consente la presenza di truppe australiane sul territorio giapponese, prerogativa finora consentita, in base al trattato del 1960, solo agli Stati Uniti.

Scott Morrison e Suga Yoshihide

 

Sotto traccia c’è preoccupazione in Giappone. Lo stesso risultato delle elezioni americane del 5 novembre indica che il trumpismo è tutt’altro che morto. Se esso non gestisce più direttamente il potere in America, continuerà a influenzare ogni decisione obbligando la nuova Amministrazione a confrontarsi con quell’isolazionismo ad ampio spettro che deriva dalla preoccupazione – manifestata anche da Biden – di preservare ed anzi accrescere i posti di lavoro entro i confini nazionali.  E’ per questo che Tokyo, pur chiedendo alla superpotenza amica di svolgere un ruolo chiave per quanto riguarda la politica di sicurezza, si è vista costretta come gran parte delle capitali dell’Asia orientale a impostare nuovi equilibri e tracciare nuove strade commerciali.

Biden sembra avere digerito la necessità per i Paesi dell’Asia orientale di accrescere l’integrazione economico/commerciale: è un trend che non si può bloccare. Ma nel suo programma ha ben specificato che le regole non possono essere cambiate: il quadriennio trumpiano non va inteso come il primo passo verso quella deregulation che la Cina auspica.

 

Vuoti di influenza in Asia orientale

Il Giappone sarebbe pienamente d’accordo, ma il varo della RCEP, che dà vita a una grande area di libero scambio che copre il 30 % del PIL e della popolazione mondiale, crea qualche problema. Ipotizzata sette anni fa dalla Cina proprio in alternativa ai piani americani e inizialmente un po’ snobbata da tutti, in un certo senso perfino da Pechino che preferiva puntare su iniziative come la Via della seta o la Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (AIIB), si configura come un’iniziativa a guida cinese. Pur limitata nei campi di azione (la stessa abolizione delle tariffe doganali è molto parziale) e frutto di compromessi, va oltre la liberalizzazione dello scambio di beni ponendo anche le basi per regolare investimenti, servizi, e-commerce, uso di manodopera temporanea straniera e sfruttamento della proprietà intellettuale. Prefigura dunque alternative importanti seppure confuse.

Difficile dire cosa sarebbe stato della RCEP se Trump avesse proseguito lungo la linea di Barack Obama e della sua strategia basata sul Pivot to Asia, che attraverso la Trans Pacific Partnership (TPP) aveva anche una fortissima, innovativa consistenza economica. Ma Trump, in odio al multilateralismo, è uscito nel 2017 dalla TPP, facendo deragliare l’intero meccanismo. Ne era derivata nel 2018, per volontà in primo luogo dei giapponesi, la creazione della Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), che manteneva nella sostanza l’impostazione voluta da Obama, ma era deideologizzata.

RCEP e CPTPP tendono a confondersi non fosse altro perché Giappone, Australia/Nuova Zelanda e blocco ASEAN appartengono ad entrambe. Nel contempo però mantengono la loro diversità. La seconda è molto più esaustiva della prima sia per quanto riguarda la soppressione delle barriere doganali e i tempi di tale soppressione, sia per i campi di pertinenza (la CPTPP si occupa anche di tutela del lavoro e dell’ambiente).

Soprattutto la RCEP ha una valenza puramente commerciale. Dunque esclude sottintesi di altra natura, con soddisfazione di tutti i partner ma con opposte motivazioni. La Cina non ha interesse a spaventare chi già deve confrontarsi con la sua assertività nel Mar cinese meridionale (e nel Mar cinese orientale limitatamente al Giappone). A Tokyo, Canberra, Hanoi e nelle altre capitali del blocco Asean nessuno vuole irritare gli Stati Uniti autorizzando ad ipotizzare un loro avvicinamento strategico a Pechino.

La RCEP, di cui fa parte la Corea del Sud, tende anche a sovrapporsi all’area di libero scambio trilaterale che da anni, inutilmente, Pechino Seul e Tokyo cercano di negoziare, con l’ultima delle tre capitali forse animata da meno interesse delle altre. Le ricadute politiche di un simile sviluppo sono di difficile individuazione attualmente, ma aprono uno spiraglio ad un appeasement tra Corea del Sud e Giappone se non proprio ad una rimozione delle beghe politiche bilaterali. E ciò è di certo ben visto da Washington che da sempre, perfino sotto Trump, chiedeva maggiore coesione ai due più fidati alleati degli Stati Uniti nell’area.

 

Punto per la Cina, punto per il Giappone

Dunque, se la Cina segna un indubitabile punto a sua favore non fosse altro perché allarga la sua sfera di relazioni se non di influenza, anche il Giappone può dirsi soddisfatto, perché come mai in passato si mette al centro di un disegno mirante alla stabilità regionale che lo eleva al rango di grande potenza. Questa almeno è la speranza di molti a Tokyo, dove si è convinti che solo il Giappone ha la forza economica e per molti versi anche militare di riempire i vuoti che le disattenzioni degli americani hanno creato e potrebbero creare in futuro.

Intanto Suga Yoshihide fa segnare un punto a suo favore. Nella prima conversazione telefonica con Biden (12 novembre), ha ottenuto assicurazioni circa l’impegno degli Stati Uniti ad attenersi all’articolo 5 del Trattato di mutua sicurezza nella sua interpretazione più ampia. E’ l’articolo che impone agli americani di intervenire militarmente se il Giappone viene attaccato e che oggi, con sempre in atto la crisi delle Isole Senkaku (il cui controllo è nel mirino della Cina), richiede la non secondaria precisazione che ogni territorio “amministrato” dal Giappone è parte del Giappone stesso.

Il valore strategico delle Isole Senkaku/Diaoyu

 

E’ un primo segno di continuità che tuttavia non significa un puro e semplice ritorno al Pivot to Asia, impossibile da ricucire, bensì una nuova condivisione di responsabilità con gli Stati Uniti. E’ per questo che in Giappone si punta a diminuire la dipendenza dall’ombrello americano per la propria sicurezza. Tema che oggi riporta alla costruzione di un sistema antimissile, l’Aegis, deterrente utile tanto di fronte alla Corea del Nord quanto alla Cina. Il problema è che l’Aegis collocato a terra costituisce un pericolo più per la popolazione locale che per l’ipotetico nemico.  Si vuole pertanto sostituirlo con un sistema off-shore, ma questo ha il difetto di avere costi molto maggiori.

Con Biden poi bisognerà cercare di risolvere in modo ragionevole la questione – condivisa peraltro dalla Corea del Sud – della suddivisione delle spese per il mantenimento della presenza sul territorio giapponese dei contingenti americani (55mila uomini circa). Attualmente costano all’erario nipponico 1,8 miliardi di dollari l’anno. Trump pretendeva di quadruplicare la cifra minacciando in caso di rifiuto il ritiro dei soldati. Con Biden si troverà un’intesa, ma costerà lacrime e sangue anche perché a Okinawa, dove è stanziato il grosso delle forze americane, la loro presenza continua a creare non poco malcontento.

Nessuno dubita che Biden voglia impostare un rapporto costruttivo con Tokyo e le altre capitali asiatiche amiche. Ma ci si rende conto che dovrà agire con molta cautela, anche perché al Senato i repubblicani hanno forza sufficiente per bloccare le sue iniziative. Si dà per certo, in particolare, che passerà parecchio tempo prima che gli Stati Uniti chiedano di entrare nella CPTPP. Inoltre – e questo potrebbe essere il maggiore elemento di novità innescato dalla RCEP – il futuro rapporto tra gli Stati Uniti e i Paesi asiatici amici dovrà essere rivisto tenendo conto che oggi è più forte di quattro anni fa la logica multipolare “ad usum delphini” (ovvero accomodata secondo i propri interessi) che la Cina va pazientemente costruendo.

 

 

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