Appena confermato presidente del Partito liberal democratico LDP, Abe Shinzo potrà conservare la poltrona di primo ministro fino al settembre 2021, regalando al Giappone un periodo di stabilità politica – quasi nove anni – senza precedenti. Non gli sarà facile però trasformare la stabilità in una strategia di lungo periodo sul piano interno e internazionale. La sua stessa leadership all’interno del LDP – partito destinato a restare per parecchio tempo ancora arbitro della scena politica giapponese – non è salda come la larga vittoria nelle elezioni interne del 20i settembre, il 70% dei consensi, sembrerebbe indicare.
Abe aveva un solo antagonista, l’ex ministro della difesa Ishiba Shigeru, e puntava a sbaragliarlo con almeno l’80% di voti a favore tra i 405 parlamentari e gli altrettanti “grandi elettori”, rappresentanti dei 643mila membri del partito: ha vinto chiaramente, ma ha raggiunto la percentuale sperata solo nel primo gruppo. Se ne deduce che ha il pieno appoggio dei vertici del partito, il quale vive dello scontro – e in questo caso delle convergenze – tra le varie correnti. La base degli iscrtti invece è tutt’altro che compatta al suo fianco: il 45% gli ha voltato le spalle, dimostrando che Ishiba ha un buon seguito lontano da Nagatacho, il distretto di Tokyo dove ha sede la Dieta, e che una sorta di alternativa “populista” si agita sotto traccia nel Giappone profondo ed arretrato. E’ in nome dell’”onestà”, infatti, che Ishiba è sceso in campo contro Abe: lo ha fatto puntando sulla lotta a corruzione e nepotismo, oltre che sulla critica dei superguadagni delle grandi corporation a fronte della stagnazione di redditi e consumi delle classi subalterne (specie quelle della provincia) che vivono di agricoltura e temono di essere travolte dalla globalizzazione e dai nuovi trattati commerciali.
Insomma la contestazione interna appare tutt’altro che sconfitta e getta ombre sull’immediato futuro. Incombono due scadenze elettorali – a primavera le elezioni amministrative e in estate il rinnovo di metà del Senato – e in tale occasione Ishiba potrebbe cercare di mettere in difficoltà Abe.
Abe si preoccupa soprattutto delle elezioni per il Senato, perché condizionano la decisione che dovrebbe costituire il suo “lascito” politico alle generazioni future: il cambiamento della Costituzione. Da sempre Abe è paladino di un emendamento dell’articolo 9, quello che fa della Costituzione giapponese una garanzia unica al mondo di pacifismo. La sua opinione, ribadita in questi giorni, è che non serve cancellare né l’idea-base della “rinuncia alla guerra come mezzo per risolvere le controversie” né il secondo paragrafo, quello che proibisce al Giappone di avere “forze di terra, di mare e dell’aria o qualsiasi altro potenziale bellico”, ma è sufficiente aggiungerne uno in cui si riconosce esplicitamente la legalità delle Forze di autodifesa SDF.
Si tratta di una formula di compromesso presentata come un sistema per non scontentare i pacifisti né prestarsi all’accusa di nostalgie militariste, e nel contempo dotarsi di forze armate atte ad ogni operazione. Ma è esposta all’accusa, condivisa da Ishiba, di essere una mossa inutile (e controproducente nella sua ambiguità) poiché da quando Abe è tornato alla guida del Paese, nel 2012, sono state adottate misure che hanno sdoganato le SDF e hanno consentito al Giappone di impostare una strategia di sicurezza che va al di là della meccanica difesa dei confini, trasformandolo di fatto in una potenza regionale: libertà di esportare armamenti, leggi cha ampliano il concetto di sicurezza, e interpretazione della Costituzione tale da consentire l’autodifesa collettiva, ovvero il diritto/obbligo di soccorrere un alleato aggredito.
Per approvare un cambiamento alla Costituzione serve il voto favorevole di due terzi sia della Camera sia del Senato (oltre a un referendum popolare). Grazie ai successi alle elezioni al Senato del 2016 e a quelle alla Camera del 2017 Abe potrebbe raggiungere tale quota se ai suoi si sommassero i parlamentari del junior partner di governo, il Komeito, e del fiancheggiatore Partito dell’Innovazione. Ma occorre che i risultati del 2016 vengano bissati l’anno prossimo e ciò non è scontato. Ishiba potrebbe mettergli i bastoni tra le ruote sia perché vuole la cancellazione dell’intero secondo paragrafo, sia perché ritiene prioritari altri cambiamenti della Costituzione. Inoltre l’opposizione di sinistra – frammentata in vari gruppi il maggiore dei quali, il Partito costituzionale democratico, è accreditato del 5% dei consensi – potrebbe fare fronte unito contro il LDP, evitando il disastro elettorale del 2016.
Per non correre rischi Abe, dopo anni di pigra attesa, sembra tentato di bruciare le tappe: l’articolo 9 passerà al vaglio della sessione straordinaria della Dieta a fine ottobre. Ma perché la mossa abbia un senso occorre l’adesione del Komeito che, essendo buddhista e pacifista, oppone resistenza.
Quindi anche questo fast track potrebbe fallire e Abe costretto a rinviare il tanto desiderato emendamento della Costituzione. Non c’è dubbio, d’altra parte, che abbia problemi più urgenti da risolvere. L’economia non va male: la disoccupazione è tornata a livelli molto bassi, le grandi aziende investono e guadagnano come nei tempi migliori. Ma la famosa ”Abenomics” lanciata 2012 ora ha bisogno di essere resettata. Il programma di stimolo monetario contro la deflazione va rivisto. La piccola e media impresa, come chiede Ishiba, va sostenuta meglio. Bisogna trovare il modo di fare ingoiare all’opinione pubblica alcuni “rospi”, primo tra tutti l’aumento dell’IVA al 10% nell’autunno 2019, indispensabile per coprire le crescenti spese per la sicurezza sociale imposte dall’invecchiamento della popolazione. Occorre alzare l’età pensionabile (oltre i 70 anni) e trovare soluzioni alla mancanza di manodopera specializzata aprendo le porte ai lavoratori stranieri. Soprattutto c’è da trovare una soluzione al grande dilemma dei rapporti con gli USA nel momento in cui questi cercano di imporre i loro Diktat commerciali ad avversari e amici.
Questo è per Abe il fronte più complesso, perché gli aspetti commerciali dei rapporti con Washington si incrociano con quelli strategici. E’ anche il più urgente, come indica il fatto che, nei giorni immediatamente successivi alle elezioni interne del LDP, Abe abbia incontrato a New York il presidente americano, proprio mentre si apriva a Washington il secondo round di colloqui USA-Giappone con l’obiettivo di creare una zona di libero scambio (FTA). Abe considera un’ancora di salvezza irrinunciabile intrattenere ottimi rapporti personali con Donald Trump (così come li aveva con Barack Obama). Nondimeno nel suo discorso all’ONU (25 settembre) si è proclamato alfiere del libero mercato globale, entrando (implicitamente) in conflitto con gli ostici assiomi dell’America first e lanciando un avvertimento agli americani, tanto più significativo in quanto pronunciato il giorno dopo la firma di un accordo di libero scambio tra USA e Corea del Sud.
Tokyo non sarà malleabile come è stata Seul. Non accetterà senza combattere l’imposizione di alti dazi sulle sue esportazioni automobilistiche né l’apertura del proprio mercato ai prodotti alimentari americani. Tanto è vero che Abe, proprio dopo l’incontro con Trump del 26 settembre, ha sbandierato un doppio successo tattico: scorporo dal negoziato sulla FTA della discussione sui prodotti agricoli inseriti in un accordo ad hoc (un modo per arginare le critiche di Ishiba), e impegno americano a non introdurre dazi sui prodotti giapponesi durante il negoziato sulla FTA.
D’altra parte Abe non intende piegarsi al bilateralismo richiesto da Trump. E’ riuscito a tenere in vita la Trans Pacific Partnership malgrado il tradimento americano e guarda alla Cina con crescente interesse (è alle porta il vertice tra Abe e Xi Jinping), non solo perché è il suo principale partner commerciale ma anche perché Pechino è promotrice di importanti iniziative multilaterali come la Regional Comprehensive Economic Partnership.
Insomma l’alleanza con Washington non è più un rapporto di sottomissione. Abe ammette che il riequilibrio della bilancia commerciale sia un giusto obiettivo, ma va perseguito con ragionevolezza, non con frustate demagogiche: ad esempio attraverso un aumento delle importazioni giapponesi dagli USA di gas naturale o armamenti (i dati di agosto indicano una crescita dell’import giapponese di tali prodotti); o attraverso la disponibilità di Tokyo a “pagare”, anche per conto degli USA, il prezzo della pace con la Corea del Nord. E per tale via, con o senza emendamenti costituzionali, si pongono le basi per un crescente peso del Giappone nell’area dell’Indo-Pacifico, consentendo a Washington risparmi (sulle spese militari e non solo) come auspicato da Trump.