Di fronte agli scossoni economici e politici provenienti dall’esterno – il referendum sulla Brexit, l’emergere di Donald Trump nelle presidenziali americane – i giapponesi hanno risposto con un voto “conservativo”, che ha premiato il primo ministro Abe Shinzo e la sua consolidata politica.
Questa si basa su due pilastri: da un lato il rafforzamento della alleanza con gli USA come chiave della sicurezza nazionale, in favore di quella stabilità regionale che oggi più che mai porta a congiungere gli interessi strategici nipponici a quelli dei Paesi del Sud Est asiatico. Dall’altro una visione dello sviluppo basata sulle esportazioni, quindi su accordi internazionali che favoriscano il libero mercato in nome della globalizzazione.
Molte delle maggiori imprese giapponesi hanno scelto il Regno Unito come hub per le loro operazioni in Europa. Sono 1380 le società interessate, il 40% delle quali manifatturiere. In testa alla lista ci sono i giganti dell’automobile – Toyota, Nissan e Honda – che esportano nel resto dell’UE gran parte dei veicoli (peraltro assemblati con materiali importati da altri Paesi europei). Nel frattempo, è facile prevedere un rallentamento dei negoziati commerciali tra Bruxelles e Tokyo, di cui si auspicava la chiusura entro l’anno. Il 16 luglio, al vertice Asem di Ulan Bator, Abe ha sollecitato Jean-Claude Juncker e Donald Tusk, presidenti della Commissione e del Consiglio europeo, ma sarà molto difficile svincolarsi dalle contemporanee lunghe trattative con Londra.
Malgrado ciò, Abe non sente la necessità di cambiare rotta. Si limita a qualche aggiustamento: già si prevede una manovra economica integrativa – pensata comunque prima della Brexit – che ha il suo fulcro in un pacchetto di misure da circa 100 miliardi di dollari. La guerra alla deflazione è infatti tutt’altro che vinta: secondo le stime, nell’anno fiscale 2016 i prezzi cresceranno solo dello 0,4% contro il previsto 1,2%, mentre il pil solo dello 0,9% e non del previsto 1,7%. Insomma, l’Abenomics rischia di andare fuori strada: non bastano gli interessi zero dei bond con cui lo Stato continua a finanziarsi, per risolvere l’enigma di come aiutare le imprese e mantenere gli alti livelli di welfare in un contesto contrassegnato da un debito pubblico oltre il 200% del pil e dall’invecchiamento rapido della popolazione.
Abe sperava di uscire da questo vortice di dubbi con il TPP (Trans Pacific Partnership), pur sapendo che l’adesione all’accordo commerciale con gli Stati Uniti e altri dieci Paesi dell’area Asia-Pacifico comporterà una dolorosa ristrutturazione del settore agricolo, per prepararlo alla concorrenza internazionale. La ratifica del TPP da parte giapponese è attesa in effetti a breve, ma potrebbe essere inutile. Il ciclone Trump, comunque vadano le elezioni negli Usa a novembre, ha ridato fiato ai nemici dell’accordo firmato dai Dodici a febbraio. Donald Trump, affermando che esso costerà milioni di posti di lavoro agli americani, ha spinto Hillary Clinton, che pur da Segretario di Stato ne era stata promotrice, a rivedere la sua posizione. Dunque il Congresso di Washington, vanificando speranze e strategia dell’amministrazione Obama, probabilmente non ratificherà l’accordo, o chiederà nuovi negoziati.
Abe, incontrando nei giorni scorsi le organizzazioni imprenditoriali giapponesi, ha ribadito che “il TPP è uno dei pilastri della strategia di crescita del Paese”, condividendo l’idea che un impasse sulla sua entrata in vigore non è solo il segno della pericolosità delle tentazioni protezionistiche. Tale eventualità rappresenta anche un guadagno netto per la Cina, che intanto sta dando concretezza, se non alle progettate aree di libero scambio proposte in contrapposizione al TPP, quanto meno alla AIIB (Banca asiatica per infrastrutture e investimenti).
Della AIIB, in qualità di membro fondatore al decimo posto nella classifica dei finanziatori, fa parte anche il Regno Unito – insieme agli altri principali paesi europei. Ciò basta per alimentare a Tokyo i timori che la già cospicua partnership tra Londra e Pechino cresca ulteriormente, con ricadute che investirebbero anche la politica estera, se Clinton venisse sconfitta a novembre. Non per nulla a Pechino si fa il tifo per Trump, e perfino a Pyongyang – dove si dice che col miliardario al potere l’unificazione delle due Coree sarebbe più vicina.
Abe, di contro, spera in Clinton, anche perché la diffidenza mostrata da Trump nei confronti del Sol Levante non può essere derubricata a puro folklore. Da un lato questo atteggiamento si accompagna a una riponderazione degli interessi strategici statunitensi in Asia (come del resto verso l’Europa e il Medio oriente). Dall’altro affonda le radici in un radicato sentimento antigiapponese, notevole negli Usa soprattutto negli anni’80.
Motivi per preoccuparsi non mancano, visto che Trump ha messo insieme tendenze isolazionistiche e sfumature razziste anti-asiatiche. Da ciò sono derivate la ri-definizione del Giappone come “free rider” (“approfittatore”) e la conseguente richiesta a Tokyo di pagare il conto della protezione militare che riceve e costa al contribuente americano 5/6 miliardi di dollari all’anno (su un totale di spese per le basi all’estero di 19/20 miliardi in un bilancio per la difesa di 580 miliardi). In caso contrario Trump ha “minacciato” un ritiro totale delle truppe, tanto epocale quanto improbabile. Ha anche auspicato che Giappone e Corea del Sud si dotino di proprie armi nucleari, in spregio al principio – al centro della politica obamiana – della non proliferazione.
Abe punta all’esatto opposto. Intende approfondire l’alleanza con gli USA, indispensabile per garantire la sicurezza nazionale contro Cina e Corea del Nord. Infatti nei giorni scorsi ha salutato con favore l’intesa tra Washington e Seul per l’installazione in Corea del Sud di uno scudo antimissile (THAAD) che serve a garantire anche il Giappone e dunque rilancia la sbiadita partnership a tre USA-Giappone-Corea del Sud. Resta inoltre fedele ai tre tradizionali principi anti-nucleari (no a produzione, possesso e installazione).
Le maggiori responsabilità strategiche che il Premier vuole attribuire al Paese sono supportate e giustificate proprio dall’alleanza con gli USA. La proclamazione del diritto all’autodifesa collettiva, sancito con una “interpretazione autentica” della attuale Costituzione, è funzionale a questa impostazione e per molti versi sufficiente, come dimostrano le leggi sulla sicurezza ad essa connesse. La revisione dell’art. 9, che impone tuttora un pacifismo integrale, non è pertanto una priorità, sebbene figuri nei programmi del Partito Liberal democratico fin dal 2012.
Le riforme a cui Abe punta con la sua nuova maggioranza sono orientate soprattutto ad accrescere i poteri dell’esecutivo in caso di “emergenze”: terremoti in primo luogo, ma non solo – tanto che le opposizioni già parlano di involuzione autoritaria. Fondata o meno, è un’accusa che riflette il clima di grande preoccupazione che si respira in Giappone e per molti versi nell’intera regione.