Nelle giornate terse d’inverno, quando la tramontana spazza decisa il Canale di Sicilia, dal trapanese si intravedono le propaggini più orientali dell’Atlante tunisino. In effetti, sono soltanto 78 miglia nautiche, pari a circa 145 Km, a separare l’Italia da Capo Bon, la propaggine più a nord-est del più piccolo degli Stati maghrebini, stretto tra l’Algeria e la Libia. Ancora minore è la distanza con Pantelleria: poco più di 39 miglia nautiche. Eppure, della Tunisia si parla soltanto in relazione all’aumento vertiginoso delle partenze di migranti dalle sue coste che, nelle ultime settimane, toglie il sonno a Roma e Bruxelles. Servirebbe invece una riflessione più ampia e approfondita sulle cause di tale fenomeno nonché sulla crisi politica, economica e sociale che soffoca il Paese – un Paese strategico per gli interessi italiani ed europei, collocato al centro dei delicati equilibri mediterranei e delle partite geopolitiche in corso in questo quadrante.
Le speranze deluse di una rivoluzione fallita
Quando, nell’ormai lontano dicembre del 2010, il disperato suicidio di Muhammad Bouazizi, stanco delle continue vessazioni della polizia, suscitò le proteste destinate a rovesciare il ventennale regime di Zine el Abdine ben Ali, un vento di novità attraversò la Tunisia. La struttura di potere e corruzione che sembrava immutabile crollò in poche settimane. I commentatori occidentali cominciarono a parlare di “rivoluzione dei gelsomini”, traendo ispirazione dal fiore profumato che adorna molti cortili delle case locali, come apripista degli sconvolgimenti destinati a scuotere sia il Nord Africa che il Medio Oriente e noti come “primavere arabe”. Mai forse delle espressioni giornalistiche hanno avuto un destino così infelice. Quei mesi di speranza di dodici anni fa sono stati seguiti dalla dura realtà della restaurazione autoritaria, come in Egitto, oppure dal dramma di lunghissime guerre civili, come nei casi siriano, yemenita e libico. Solo la Tunisia appariva avviata verso una transizione democratica, seppur fragile e carica di incognite.
La costituzione rivoluzionaria, adottata nel 2014 dopo un lungo e sofferto confronto tra i partiti, garantiva diritti civili e politici ampi per gli standard della regione. Ma non ha assicurato quella stabilità che l’opinione pubblica chiedeva come base per la realizzazione delle riforme indispensabili a modernizzare l’economia e a migliorare le condizioni di vita. La litigiosità delle forze politiche e i casi di corruzione che ne avevano delegittimato l’operato hanno alimentato la sfiducia dei cittadini nei confronti della capacità della nuova classe dirigente di affrontare i problemi del Paese.
Dal 2011, si sono succeduti dieci primi ministri, alla guida di governi caratterizzati da una vorticosa alternanza di politici e indipendenti a capo dei dicasteri. Il panorama politico si è progressivamente cristallizzato intorno ai due partiti principali di Nidaa Tounes, di ispirazione laica e progressista, ed Ennahda, espressione locale dell’Islam politico, che trova nel Qatar e nella Turchia di Erdoğan i suoi riferimenti internazionali. Le altre forze parlamentari hanno partecipato da posizioni più deboli alla spartizione del potere e all’occupazione delle posizioni chiave nell’amministrazione statale e nelle società pubbliche. Non a caso, alle elezioni presidenziali del 2019, sono stati soprattutto i giovani a sostenere la candidatura dell’outsider, poi vincitore, Kais Saied, perché considerato estraneo ai giochi di un sistema partitico divenuto inefficace e autoreferenziale. Il nuovo capo dello Stato portava in dote anche il suo passato di professore di diritto costituzionale come garanzia di rispetto dell’architettura istituzionale definita dalla carta fondamentale.
La svolta arrivò nel luglio del 2021 quando, dopo mesi di tensione tra Cartagine, sede della presidenza della Repubblica, e il Bardo, dove si riuniva il parlamento monocamerale tunisino, Saied decise di rimuovere il primo ministro Hichem Mechichi e di sospendere i lavori dell’assemblea legislativa. La scelta fu giustificata con la necessità di dare una risposta immediata alle difficoltà del tessuto sociale, devastato dagli effetti della pandemia da Covid-19, e di sradicare la corruzione dal sistema politico e dall’amministrazione pubblica. Seguirono la sospensione della costituzione e lo scioglimento definitivo del parlamento a marzo del 2022, fino al referendum di luglio dell’anno scorso per l’approvazione della nuova carta fondamentale.
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Tra dicembre e gennaio hanno infine avuto luogo i due turni delle elezioni legislative per la formazione del parlamento, dai poteri molto ridimensionati proprio dalla costituzione di Saied, a vantaggio di un sistema iper-presidenziale, con il capo del governo, Najla Bouden Ramadan, prima donna alla guida del governo di un Paese arabo, come mero esecutore delle direttive di Cartagine.
Questa breve cronologia dell’ultimo biennio di politica tunisina evidenzia la deriva autoritaria che ha deluso chi sperava nel successo della transizione democratica tunisina. La compressione delle libertà civili e politiche trova conferma nella continua limitazione delle attività dei partiti contrari al disegno di Saied e riuniti nel Fronte di Salvezza Nazionale. Non mancano intimidazioni e arresti di politici e amministratori pubblici, soprattutto a livello locale, con accuse generiche di corruzione e sostegno a formazioni estremiste. Ad aprile tale sorte è toccata a Rashid Ghannouchi, leader storico del partito islamista moderato di Ennahda, fermato insieme ad altri dirigenti per cospirazione contro la sicurezza dello Stato, in base agli articoli 68 e 72 del codice penale. Ciononostante, l’indice di gradimento nei confronti di Saied rimane piuttosto alto e il suo operato, secondo un recente sondaggio condotto da Emrhod Consulting, è ancora approvato dalla maggioranza dei cittadini.
Questi hanno salutato con favore le scelte fatte negli ultimi due anni, tanto che la sua popolarità ha raggiunto il massimo a settembre del 2021, in corrispondenza dell’assunzione dei pieni poteri da parte del presidente. Tale sostegno non è certo la conseguenza della simpatia dei tunisini verso i sistemi politici autoritari, quanto la manifestazione della disperazione di un Paese che, nell’ultimo decennio, ha conosciuto un generale peggioramento delle sue condizioni di vita. Oltre all’endemica corruzione che caratterizza la pubblica amministrazione, i cittadini hanno riconosciuto nella lentezza decisionale e nell’instabilità governativa tipiche della forma di governo parlamentare dei responsabili della crisi economica in corso, che la pandemia e l’aggressione russa ai danni dell’Ucraina hanno ulteriormente aggravato.
Un quadro economico preoccupante
Da mesi la Tunisia sta negoziando con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) un prestito di 1,9 miliardi di dollari, necessario a evitare la bancarotta. Un accordo di massima era stato raggiunto già a ottobre 2022, ma l’erogazione delle risorse è stata bloccata come reazione alle politiche repressive del presidente. Inoltre, Tunisi rifiuta di realizzare le riforme chieste in cambio dei fondi. Le autorità finanziarie internazionali subordinano quasi sempre i loro prestiti all’implementazione di provvedimenti basati sul taglio del numero dei dipendenti pubblici e dei loro stipendi nonché sull’introduzione di misure per favorire la concorrenza. Tali riforme trovano concreta realizzazione, ad esempio, nella rimozione dei sussidi ai prezzi dei carburanti e ai generi alimentari, due interventi pubblici molto diffusi in tutti i Paesi arabi. Ed è proprio questa la ragione principale della situazione di stallo. Saied non è disposto ad assumersi la responsabilità di un ulteriore peggioramento del quadro economico. E tutto il mondo politico si attesta su posizioni simili. La paura è che la richiesta di nuovi sacrifici alla popolazione sfoci in fiammate di rabbia capaci di destabilizzare la Tunisia.
L’economia sta attraversando infatti una lunga stagione di difficoltà determinate da debolezze strutturali e da un contesto internazionale che pesa su un sistema già in affanno. I problemi sono più evidenti nelle aree interne, affette da una grave carenza di infrastrutture che limita lo sviluppo di regioni naturalmente votate all’agricoltura. La presenza di terreni fertili e la disponibilità di risorse idriche tra le montagne dell’Atlante fanno della Tunisia centro-settentrionale un luogo ideale per la produzione cerealicola e olearia. Ciononostante, la mancanza di capitali locali rende impossibili gli investimenti necessari a modernizzare il settore. E gli investitori stranieri sono scoraggiati dall’incertezza burocratica e dai numerosi vincoli all’avvio di nuove imprese. Tali carenze espongono il Paese anche a fenomeni di land grabbing di cui sono spesso protagoniste imprese cinesi. La rete idrica è obsoleta e, risalendo in molti casi al periodo del protettorato francese, determina sprechi e inefficienze, che si affiancano alla corruzione nella gestione della risorsa. Un altro paradosso riguarda i fosfati, necessari alla produzione di fertilizzanti: pur disponendo delle riserve più importanti di tutto il Nord Africa dopo il Marocco, la Tunisia esporta quasi tutto il materiale estratto per mancanza degli impianti industriali di lavorazione.
Il risultato è che i governatorati delle aree interne stanno conoscendo una continua emorragia di abitanti, soprattutto giovani, che scappano dalla prospettiva di una disoccupazione perenne e di una vita senza futuro. Molti sperano di poter lasciare il Paese per trasferirsi in Europa, magari per ricongiungersi ai familiari già emigrati. Altri si spostano verso le città della costa, attirati dalle migliori possibilità di impiego, soprattutto nel turismo. Questo settore contribuiva al 20% della ricchezza nazionale prima della rivoluzione del 2011. La caduta del regime sembrò aprire la strada a opportunità nuove, dopo tanti anni di monopolio de facto delle attività turistiche da parte del clan di Leila Trabelsi, moglie di Ben Ali. Nel 2015 però arrivò un’inaspettata battuta d’arresto. La Tunisia fu vittima di sanguinosi attentati di matrice islamista, che presero di mira proprio i visitatori stranieri con l’obiettivo di destabilizzare il fragile processo democratico, esportando il caos dalla vicina Libia, in preda alle convulsioni della guerra civile. Alla violenza terroristica si è aggiunta poi la pandemia, danneggiando ulteriormente l’economia turistica nazionale.
Dall’anno scorso si registrano segnali di ripresa dei flussi di viaggiatori e i dati relativi al primo quadrimestre del 2023, forniti a inizio maggio dalla Banca centrale tunisina, sono incoraggianti. Le entrate finanziarie derivanti dal turismo sono aumentate del 59% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, passando da 250 a 406 milioni di euro. Nel 2022, la Tunisia ha registrato quasi 6,5 milioni di ingressi turistici, con un incremento del 160% rispetto al 2021 e del 69% rispetto al 2019. Quest’anno si prevedono almeno 7,5 milioni di visitatori, con grande beneficio per l’economia locale. Ciononostante, ci vorranno ancora due trimestri affinché le ricadute sul sistema economico siano evidenti.
Inoltre, permangono le difficoltà che il Paese affronta come conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina. La guerra in Europa orientale ha infatti determinato un aumento considerevole dei prezzi delle materie prime, in modo particolare dei generi alimentari, trainati dal prezzo dei cereali. La Tunisia copriva grazie alle importazioni dall’Ucraina l’85% del fabbisogno di grano tenero e il 50% di grano duro e orzo. A questo si aggiungeva un ulteriore 4% di acquisti dalla Russia. Nei primi mesi del conflitto, il blocco dei porti sul Mar Nero voluto da Mosca ha azzerato gli arrivi, tanto da lasciare scorte solo per poche settimane. Durante il Ramadan del 2022, quando tradizionalmente i consumi alimentari raggiungono il loro picco in tutti i Paesi arabi, in diverse città tunisine lunghe code di persone in attesa davanti ai forni hanno fatto temere alle autorità disordini e manifestazioni di protesta. Gli scontri con le forze dell’ordine non sono mancati, ma la ripresa delle esportazioni dall’Ucraina, grazie all’accordo tra i belligeranti mediato dalle Nazioni Unite con il sostegno della Turchia, ha attenuato le preoccupazioni di non trovare il pane nei negozi. Ma restano i timori legati all’aumento dei prezzi. Il tasso di inflazione di aprile è del 10,3% e la disoccupazione resta stabile al 16%, senza contare il numero degli sfiduciati, che hanno smesso di cercare un lavoro. La crescita del PIL per quest’anno è prevista all’1,6%, a fronte del 2,2% del 2022.
L’Europa e l’Italia dinanzi alla crisi tunisina
Il quadro economico resta dunque carico di incognite e il clima politico si allontana sempre di più dalle speranze di un decennio fa. Non sorprende quindi che sia in aumento il numero dei tunisini disposti ad affrontare i rischi di attraversare il Mediterraneo per raggiungere le coste italiane. Secondo i dati aggiornati forniti dal Viminale, sono 3266 i migranti di nazionalità tunisina arrivati in Sicilia nel 2023, più del doppio rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. A questi si aggiungono i cittadini di numerosi Paesi dell’Africa subsahariana, con i risultato che la Tunisia ha superato la Libia per numero di partenze in questo primo scorcio dell’anno. La situazione è resa più difficile dal clima di ostilità verso le poche migliaia di cittadini di altri Stati africani, soprattutto del Sahel e dell’area del Golfo di Guinea, residenti nel Paese maghrebino. A febbraio, il presidente Saied ha denunciato un piano criminale, ideato da entità non meglio specificate, per diluire il carattere arabo-islamico della Tunisia attraverso la sostituzione demografica. Molti cittadini stranieri si sono trovati improvvisamente senza casa né lavoro e hanno preferito abbandonare il Paese.
Tale situazione ha generato apprensione sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, soprattutto in Italia. Il governo di Roma teme che la destabilizzazione della Tunisia apra le porte a massicce ondate di sbarchi, che getterebbero nel caos il già fragile sistema di accoglienza dei migranti. Ecco perché sono aumentate le pressioni sul FMI affinché rimuova i vincoli alla concessione del prestito di 1,9 miliardi di dollari per dare una boccata di ossigeno all’economia tunisina. Preoccupazioni simili sono condivise da Bruxelles, tanto che il Commissario europeo agli Affari economici e monetari, Paolo Gentiloni, è volato a Tunisi a fine marzo, dicendosi pronto a considerare nuovi progetti di assistenza finanziaria da parte dell’Unione Europea. Emerge con chiarezza che l’obiettivo principale sia di evitare una situazione simile a quella del 2011-12. In quel periodo, la costa tra Hammamet e Sfax si trasformò nel principale teatro di operazioni delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.
Arginare i flussi migratori dalla Tunisia è fondamentale soprattutto per il governo italiano, che altrimenti dovrebbe fronteggiare pesanti critiche da parte dell’opinione pubblica e un calo nei consensi. Ma tale approccio, condiviso con Bruxelles e con altri Paesi rivieraschi come la Francia, tiene conto soltanto di questioni contingenti. Servirebbe invece un approccio di più lungo periodo, capace di considerare anche gli aspetti geopolitici della crisi tunisina e le opportunità derivanti da un miglioramento del quadro economico-politico locale. Il piccolo Paese maghrebino occupa una posizione strategica nel Mediterraneo. Tunisi controlla infatti il versante meridionale dello Stretto di Sicilia, che si configura come il principale collo di bottiglia o choke point del Mediterraneo, a sua volta snodo imprescindibile del commercio internazionale e principale collegamento, via Gibilterra-Suez-Bal el Mandeb, tra Atlantico e Indo-Pacifico.
Chi mette piede in Tunisia riesce a far sentire la propria voce anche su questo braccio di mare così importante. Non a caso, prima dell’elezione di Saied, la Turchia aveva cercato di rafforzare la sua influenza, sfruttando i buoni legami tra il partito Ennahdha e il presidente Erdoğan. Il tentativo di Ankara aveva trovato espressione nella “diplomazia delle moschee”, cioè nel finanziamento della costruzione di luoghi di culto in varie parti della Tunisia. I turchi hanno fatto ricorso a questa politica di soft power perché impegnati da anni nel rafforzamento della loro proiezione marittima, avendo compreso il valore strategico della Tunisia. Solo il cambio di regime ha smontato le ambizioni di Ankara, che ora guarda con maggiore interesse alla vicina Tripolitania.
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Tutto questo denota che mentre la nostra società sempre più anziana e impaurita pensa solo a chiudere porte e sprangare finestre, altri agiscono con scaltrezza a difesa dei loro interessi. E, in un quadro internazionale dominato dalle tensioni con la Russia e dalla competizione con la Cina, per il momento ancora limitata alle questioni economiche, non possiamo permetterci il lusso di dimenticarci di una Paese tanto piccolo quanto fondamentale per la tutela della nostra sicurezza e degli interessi nazionali.
Non perdere di vista la Tunisia è un vantaggio anche sul piano economico. I protagonisti della rivoluzione del 2011 furono i giovani diplomati e laureati, che il mercato del lavoro locale non riusciva ad assorbire. Quella manodopera qualificata è ancora lì. E tanti sarebbero i vantaggi per le imprese europee, anche in termini di costo del lavoro, nel momento storico attuale caratterizzato dal progressivo accorciamento delle catene del valore e dalla ricollocazione di molti impianti in mercati con minori rischi geopolitici (friendshoring).
Tali opportunità, associate a politiche di progressiva riduzione delle barriere alla libertà degli stranieri di fare impresa in Tunisia e ad atteggiamenti non predatori da parte delle aziende, creerebbero un gioco a somma positiva con beneficio per il tessuto economico-sociale locale e per gli imprenditori europei. Continuare a guardare alla Tunisia con occhio miope sarebbe invece un grave errore, che lascerebbe l’Italia e gli altri Paesi europei esposti a minacce imprevedibili e i tunisini continuamente sull’orlo del baratro. Abbiamo di fronte uno scenario che ci interroga sulla validità di una approccio di breve periodo che rivela tutti i suoi limiti.