Il futuro nebuloso del TTIP

Pare davvero che i negoziati del partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti, aperti nel 2013, abbiano raggiunto un definitivo punto di stallo. Già il 28 agosto scorso, i maggiori giornali europei riportavano la dichiarazione del ministro dell’Economia tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, circa il fallimento di fatto dei negoziati UE-USA in merito al TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership). La motivazione del ministro è stata molto esplicita: “come europei non possiamo accettare supinamente le richieste americane”. Al termine del 14° round di colloqui, rimane il cosiddetto end game. Durante questo “gioco finale”, che affronta gli aspetti più problematici, ciascuno dei 30 capitoli sul tavolo può essere in effetti riaperto e perfino stravolto.

Tecnicamente, l’accordo si articola in tre pilastri: accesso al mercato; cooperazione regolamentare; regole internazionali del commercio. Le difficoltà nascono soprattutto sul primo. Se l’UE cerca di proteggere i suoi prodotti (nonostante l’accordo sul 97% delle linee tariffarie) spingendo per maggiori garanzie in materia di riconoscimento di indicazioni geografiche e denominazioni controllate, gli Stati Uniti rimangono fortemente reticenti ad aprire sugli appalti.

Tuttavia, la dichiarazione così dura del Ministro Gabriel non è dovuta allo stato dei negoziati: le ragioni sono altre. Da un lato, il consenso al Trattato, oggetto di un acceso dibattito nell’opinione pubblica tedesca, è sceso dal 55% del 2014 al 17%, con contorno di numerose e nutritissime manifestazioni anti-TTIP. Con le elezioni politiche previste per la seconda parte del 2017, il candidato cancelliere per la SPD non poteva ignorare una tale opposizione, forte soprattutto a sinistra. Dall’altro, se il TTIP è in crisi, il suo gemello CETA (negoziato tra Unione Europea e Canada) è invece informalmente concluso ma – in qualità di accordo misto, che deve essere sottoscritto cioè sia da parte dell’Unione che degli Stati membri – dovrà essere ratificato dagli Stati membri. Lo scorso 19 settembre, al congresso dell’SPD a Wolfsburg, Gabriel ha quindi sacrificato simbolicamente un TTIP già in difficoltà per ottenere dal suo partito il via libera sul CETA. Benché le ultime manifestazioni di piazza associassero i due accordi, la strategia ha funzionato.

 

Ma Gabriel non è stato il solo a parlare della morte del Trattato transatlantico; alle sue dichiarazioni hanno fatto eco quelle del Segretario al Commercio estero francese Matthias Fekl, il quale ha annunciato, il 30 agosto, che il suo paese avrebbe chiesto di rivedere i termini dell’accordo, ponendo fine ai negoziati in corso. Anche la Francia, infatti, registra un’opposizione al TTIP particolarmente forte, e anch’essa è prossima alle urne. Già in maggio, davanti alle rivelazioni delle “TTIP-leaks” di Greenpeace, il Presidente François Hollande aveva messo un’ipoteca sulla futura ratifica, affermando che la Francia non avrebbe avallato mai un accordo che mettesse a rischio standard sanitari, sociali e ambientali. Per motivi analoghi, il ministro austriaco ha espresso fortissime reticenze durante le ultime riunioni del Consiglio.

Il TTIP non è però né nelle mani di Gabriel, né il quelle di Fekl. I negoziati sono infatti, per parte europea, condotti dalla Commissione, sulla base del mandato negoziale rimessole all’unanimità dal Consiglio, che può ritirarglielo solo su impulso di un membro del Consiglio europeo. E, nonostante le critiche avanzate e le dichiarazioni, all’indomani dell’intervento dei ministri, né Hollande né tantomeno la Cancelliera tedesca – fervente sostenitrice del TTIP – hanno disconosciuto il mandato.

Non solo. La conclusione negoziale del TTIP è inserita nel documento sui progressi nelle 10 priorità allegato al discorso sullo stato dell’Unione che il Presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker ha pronunciato davanti all’europarlamento lo scorso 14 settembre. D’altronde, in giugno, Juncker aveva ottenuto l’avallo del Consiglio europeo a proseguire le trattative, senza alcuna richiesta di modifica al mandato negoziale.

Rimane comunque innegabile che il TTIP non gode di ottima salute. Alle scadenze elettorali europee si sommano le ripercussioni di quelle americane – con i candidati, Hillary Clinton compresa, tutti schierati su posizioni critiche. Inoltre, con la vittoria di Brexit, è venuto meno il principale sostenitore dell’accordo di qua dell’Atlantico. La contigenza politica elettorale è però l’altra faccia di una medaglia che mostra sentimenti anti-TTIP radicati in gran parte dell’opinione pubblica europea.

L’accordo con gli Stati Uniti, gigante economico e politico, è assurto infatti a simbolo di una globalizzazione sbagliata, costruita su regole che penalizzano i più deboli – motivazione alla base di molti dei rivolgimenti politici europei degli ultimi anni. Davanti a un partner negoziale così forte, si teme infatti – nonostante le reiterate rassicurazioni di Juncker e della commissaria al Commercio Cecilia Malmström – il rischio di un abbassamento degli standard qualitativi europei in materia ambientale, sociale, alimentare e sanitaria. Il capitolo riguardante i prodotti alimentari, soprattutto, è oggetto di fortissima opposizione – emblematici i casi del “pollo alla clorina” e degli OGM. Altro terreno di battaglia anti-TTIP è il meccanismo di risoluzione delle controversie tra imprese e Stati (Investor-State Dispute Settlement – ISDS), già previsto in altri accordi commerciali ma considerato lesivo della democrazia per il potere contrattuale che darebbe alle aziende.

Da ultimo, si critica aspramente l’opacità dei negoziati; la posizione negoziale dell’Unione è stata resa nota grazie ad una serie di leak prima che la Commissione ne autorizzasse la pubblicità, ed è stata condotta una battaglia serrata da parte del Parlamento per aver accesso ai documenti risultati dei round negoziali, a cui gli eurodeputati possono accedere in maniera diretta solo a porte chiuse e non necessariamente nella loro interezza. Va però sottolineato come, anche in questo caso, sia talvolta avvenuto che, davanti alla disponibilità della Commissione a “mostrare le carte”, siano stati i membri del Consiglio a bloccare, nella ripetizione senza fine del gioco dei “critici e trasparenti in patria, collaborativi e opachi a Bruxelles”.

In relazione a ciascuno degli aspetti richiamati, i contestatori, grazie in primis alla pressione esercitata dall’opinione pubblica organizzata e da ONG tanto sui governi nazionali quanto sulla Commissione stessa, sono riusciti a influenzare direttamente la posizione dell’Unione.

Dall’altra parte, i sostenitori europei del TTIP vedono nel Trattato un modo per far fronte comune, alleandosi alla potenza “più simile”, contro gli standard – sicuramente inferiori – caratteristici delle economie emergenti. All’indomani del fallimento dell’agenda di Doha e dell’approccio multilaterale alla liberalizzazione del commercio internazionale, la principale motivazione a sostegno del TTIP è dunque di stampo geopolitico: l’Unione avrebbe tutto l’interesse a trovarsi dal lato di chi detta le regole nel commercio mondiale, invece che dalla parte di chi le subisce.

Sul previsto ritorno economico del Trattato si muovono invece le critiche più strutturali. Il dibattito tra gli economisti è aperto; non solo il cosiddetto movimento no global sostiene a gran voce come tali vaste aperture al libero scambio abbiano conseguenze negative tanto sui piccoli produttori quanto sui lavoratori. Ma perfino il Fondo Monetario Internazionale ha espresso preoccupazione circa gli effetti sulla forza lavoro, esplicitando la necessità che gli Stati poi correggano le conseguenti distorsioni e difficoltà.

Il bersaglio degli anti-TTIP è soprattutto la Commissione: l’ultima manifestazione, proprio a Bruxelles il 20 settembre, ha portato due cavalli di Troia (simboleggianti TTIP e CETA) davanti alla sede dell’istituzione. Benché però la Commissione sia gelosa del suo ruolo negoziale, emerge chiaramente come la cabina di regia sia occupata dagli Stati membri. Come troppo spesso avviene, quindi, l’UE viene biasimata in patria da chi in realtà avalla le sue scelte a Bruxelles. Verrebbe quasi da pensare che, in un contesto di recrudescenti nazionalismi ed egoismi nazionali, tale atteggiamento sia improntato, da più parti, anche a screditare l’istituzione europea, rafforzando l’idea del ritorno a un sistema più intergovernativo.

È in atto un complesso “gioco delle parti”, perché gli oppositori più avveduti sanno bene come l’attuale Parlamento europeo – per composizione e attitudine alle larghe intese – non respingerebbe un accordo simile, a meno di ricevere un testo estremamente penalizzante per gli europei. Ancora, i parlamenti nazionali difficilmente casserebbero un accordo già approvato, di fatto, dai rispettivi premier. Su questo sfondo, il comunicato emesso al termine del Consiglio dei ministri del commercio estero del 23 settembre sancisce l’inverosimiglianza della firma del TTIP entro l’anno. L’austriaco Reinhold Mitterlehner ha addirittura auspicato che esso –“estremamente connotato in senso negativo”- venga rilanciato nel post-elezioni americane con un nuovo nome, e che si proceda, in futuro, seguendo metodi e obiettivi più chiari e trasparenti.

Il 15° round (3-7 ottobre) si è svolto quindi nella consapevolezza che i giochi saranno realmente riaperti solo una volta concluso il convulso periodo elettorale sulle due sponde dell’Oceano. I risultati delle tornate (Olanda, Francia, Germania tra le principali) saranno influenti, e potrebbero determinare la permanenza del TTIP “sotto coperta” anche per alcuni anni.

Considerati i potenti interessi sia particolari che di respiro geopolitico che sono in campo, però, una volta svoltesi le prove generali, è davvero difficile che uno spettacolo della portata del TTIP non vada mai in scena: se non stavolta, in un futuro non troppo lontano.

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