Dopo il ritiro americano dall’Accordo di Parigi siglato nel novembre 2015, una domanda è emersa: può la lotta al cambiamento climatico essere efficace anche senza Washington? Jerry Brown, il combattivo governatore democratico della California, ne sembra convinto. Nonostante il gran rifiuto da parte di Donald Trump di ratificare l’accordo, nell’ormai famigerato Rose Garden Speech dello scorso giugno, la questione ambientale non ha lasciato del tutto gli Stati Uniti. Si è solo spostata più a ovest rispetto a Washington, DC. Più esattamente, a Sacramento, sede del governo statale californiano, da dove il 79enne Brown sta portando avanti una battaglia globale per rimediare al voltafaccia di Trump: un’alternativa basata su governi locali volenterosi di “andare da soli”.
Questo nuovo – anche se non del tutto inedito – ruolo di leadership della California ha visto negli ultimi mesi il governatore ricevere un’accoglienza da star in continui viaggi all’estero, dall’Europa alla Cina. A novembre, Brown in 10 giorni ha toccato il Vaticano, il Parlamento e la Commissione europea a Bruxelles, Stoccarda, Oslo, per concludere il suo tour a Bonn, alla Conferenza mondiale sul clima COP23. A ogni fermata, il governatore ha ripetuto il suo mantra: “il clima è una questione che ci riguarda tutti. Non possiamo delegare una soluzione solo ai leader nazionali – abbiamo tutti, a qualunque livello, il dovere di fare qualcosa.”
Tale attivismo non deve stupire. La California è da anni protagonista nella lotta al riscaldamento climatico. Caratterizzato da più di 5000 chilometri di coste, soggetto a ondate di smog e frequenti siccità e incendi – che nel 2017 hanno raggiunto un’estensione record di 1.370.000 acri -, lo stato ha prima di altri affrontato la propria fragilità ambientale con politiche sempre più aggressive mirate alla riduzione delle emissioni inquinanti. Nel 2005, l’allora Governatore Arnold Schwarzenegger (peraltro repubblicano) firmò un “ordine esecutivo” che fissava una riduzione delle emissioni ai livelli del 1990 entro il 2020; nel 2015, lo stesso Brown ha ritoccato l’ordine, introducendo un nuovo obiettivo di una riduzione del 40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030. Per realizzare questi obiettivi, lo stato ha introdotto una serie di politiche d’avanguardia, imponendo standard severi per i produttori di automobili, spingendo sull’efficienza energetica, favorendo l’utilizzo di energie rinnovabili e, soprattutto, promuovendo un sistema di cap-and-trade, che istituisce un mercato per la compravendita di permessi per inquinare. Il programma, introdotto per la prima volta nel 2006 e considerato uno dei più avanzati al mondo, è stato esteso lo scorso luglio fino al 2030, con un voto bipartisan dei due terzi del Congresso statale.
Il cambiamento climatico appare quindi una chiara priorità del governo californiano da molto tempo. Eppure, la Presidenza Trump ha portato a nuovi sviluppi, accrescendo il livello dello scontro. Se durante gli anni di Barack Obama Sacramento rappresentava l’eccellenza di un processo di dimensione nazionale, guidato da un presidente favorevole a interventi governativi, da un anno a questa parte la California ha assunto le sembianze di un eroe della resistenza, saldando il conflitto ideologico alle politiche sul clima. Così, lo stesso Jerry Brown ha assunto posture sempre più retoriche e messianiche: “Siamo su un campo di battaglia. Il clima sta cambiando. Non abbiamo il tempo di pensare a lasciare un’eredità – dobbiamo agire”.
In questa radicalizzazione, a ogni azione da parte del governo federale di Washington è corrisposta una risposta di eguale forza simbolica da parte di Sacramento, grazie alle ampie prerogative concesse agli Stati dalla Costituzione americana. Così si spiega l’approvazione dell’estensione del sistema di cap-and-trade a luglio. O la proposta, da parte dello stesso Brown, di fare causa al governo federale per le sue azioni contro il clima, “proprio come i Repubblicani hanno fatto con Obama”. Non stupisce che il governatore sia ormai visto da molti come vero e proprio “anti-Trump”: molti ne hanno anche ventilato una candidatura a Presidente nel 2020.
La battaglia sul clima ha anche moltiplicato la proiezione della California all’esterno. I viaggi di Brown lo testimoniano. Facilitato dalle dimensioni e dall’influenza dello Stato – che, preso da solo, sarebbe la sesta economia del mondo – il governatore si comporta di fatto come capo di uno stato semi-indipendente (“il Presidente della Repubblica Indipendente di California”, lo definisce Politico), stringendo patti e forgiando alleanze. Oltre ad avere già siglato accordi sul clima con 13 Paesi, tra cui Francia, Sud Corea, Messico e Canada, dal 2015 la California è uno dei membri fondatori, insieme al Land tedesco Baden-Württemberg, della Coalizione Under2, una rete di 176 tra stati, regioni e città che si pone l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a meno di 2 gradi rispetto ai livelli precedenti alla rivoluzione industriale, tramite una riduzione dell’80-95% delle emissioni rispetto ai valori del 1990 entro il 2050. Il modello della Under2 è stato di recente utilizzato per creare la US Climate Alliance, un’intesa tra 13 stati USA sia democratici che repubblicani, capitanata da California e New York . Infine, a coronare i suoi sforzi e istituzionalizzare il suo ruolo, Brown è stato nominato dalle Nazioni Unite Inviato Speciale per le Stati e le Regioni per il clima.
In questo modo, la California si inserisce nella tendenza crescente che vede gli enti locali cercare di ritagliarsi spazi autonomi di politica e amministrazione, almeno in determinate aree di azione. Una tendenza in cui è in buona compagnia: da Londra all’indomani della Brexit a Milano che, attraverso il volano Expo, si è messa a capo di un Food Pact con altre 160 città, fino all’esempio del referendum catalano, abbondano i casi in cui divergenze tra alcuni enti locali e lo stato centrale a cui appartengono hanno portato a nuove assunzioni di autonomia.
Pur non preannunciando l’ottenimento di una vera e propria indipendenza, questa situazione indica lo sviluppo a livello internazionale, almeno in Occidente, di un sistema di governance più complesso, multi-livello e flessibile. La California dimostra che addirittura certi ambiti di politica estera o industriale possono essere decentralizzati, e gli spazi lasciati vuoti vengono riempiti o sostituiti da altre entità politico-amministrative, diverse dallo Stato classico. Le questioni climatiche, che richiedono spesso soluzioni di applicazione locale, in questo contesto si presta particolarmente bene a strappi autonomisti. Le parole di Brown sono rivelatrici: “Non c’è solo una struttura dall’alto verso il basso negli Stati Uniti. Dati gli impegni assunti a livello internazionale, il fattore Trump è molto poco rilevante”.
È ancora difficile pronosticare quali effetti pratici, al di là degli annunci, potrà avere il nuovo protagonismo della California e dei suoi alleati. Sicuramente, la strada per il successo è molto stretta, e richiede una collaborazione efficace da parte di svariati attori: per quanti sforzi possa fare Sacramento, da sola può contribuire ben poco alla riduzione di emissioni necessaria a rimanere sotto l’obiettivo dei 2 gradi. Inoltre, c’è un limite tecnico oltre il quale non è possibile andare: con la tecnologia odierna, la riduzione di emissioni può arrivare fino a una certa soglia. Questo finisce per imporre un tetto in quello ai casi più virtuosi. Molto più promettente, in questo senso, è la capacità di innovazione tecnologica della Silicon Valley, una risorsa di immenso valore per la California così come anche per gli Stati Uniti, che potrebbe introdurre nuove forme di efficienza energetica.
Tuttavia, ciò non riduce il valore politico della battaglia di Brown. Come si è detto, il rifiuto di Trump di riconoscere l’esigenza di combattere il cambiamento climatico attraverso l’azione governativa ha riportato il clima in testa allo scontro ideologico nella politica statunitense e globale. Inoltre, per le sue caratteristiche di minaccia transnazionale e di lungo periodo, esso si è dimostrato il primo e vero tema capace di coagulare tutte le istanze di opposizione al Presidente, senza ambiguità, perdendo la sua “neutralità” e riassumendo il suo carattere profondamente politico. Su un campo di battaglia complesso tecnicamente, ma molto definito ideologicamente nei prossimi anni, si determineranno i vincitori e gli sconfitti della scena politica. Come ha capito Jerry Brown, con il suo federalismo climatico di fatto, vincendo la sua prima scommessa: dimostrare che la lotta al cambiamento climatico può essere iniziata anche lontano dai governi nazionali.