«Hard times, who knows better than I?», si chiedeva Ray Charles in una famosa canzone. Oggi sono tempi duri per l’economia a causa della pandemia, e nessuno lo sa meglio dei produttori di petrolio.
Voli sospesi, limitazioni agli spostamenti, produzione interrotta in molti impianti industriali: la domanda di greggio è crollata, anche se in realtà era già fiacca prima della diffusione del virus. Ad aggravare ulteriormente il quadro è arrivata poi la “guerra dei prezzi” tra Arabia Saudita (favorevole) e Russia (contraria) e, con questa, la promessa di un forte aumento dell’offerta su un mercato poco ricettivo, per stimolare gli acquisti con un prezzo più basso. Con questa duplice causa, il valore dell’oro nero è così inevitabilmente precipitato, arrivando a toccare i 24 dollari al barile – dai circa 60 dei mesi precedenti alla pandemia.
Uno dei motivi che ha spinto la Russia a rifiutare l’accordo sui tagli alla produzione al vertice OPEC+ del 6 marzo – il prologo dello scontro Riyad-Mosca – era l’intenzione di danneggiare gli Stati Uniti. Grazie infatti allo sviluppo del fracking e della perforazione orizzontale – tecniche che consentono di estrarre idrocarburi da rocce particolari, dette scisti o shale – l’America è diventata la prima produttrice al mondo di petrolio e di gas naturale, superando rispettivamente l’Arabia Saudita (nel 2018) e la Russia (nel 2011). Appena quattordici anni fa gli Stati Uniti importavano il 60% del greggio che consumavano, mentre oggi sono sulla strada per diventare esportatori netti. È evidente per quale motivo Mosca, ma anche Riyad, considerino Washington una minaccia ai loro interessi.
Un gigante dai piedi d’argilla. Nonostante l’America abbia raggiunto una potenza energetica impressionante, la sua industria petrolifera resta particolarmente vulnerabile agli effetti della “guerra dei prezzi”. Rispetto ai russi e ai sauditi, la maggioranza dei produttori statunitensi deve infatti far fronte a costi di estrazione molto più alti: tradotto nella pratica, hanno bisogno di prezzi al barile intorno ai 50-60 dollari per riuscire a ricavare profitti. Un livello che il mercato garantiva, fino a ieri. Oggi però il West Texas Intermediate (una qualità di petrolio usata come riferimento, o benchmark) ne vale appena 24, se non meno.
Nel 2019 gli Stati Uniti hanno prodotto 12,2 milioni di barili di petrolio al giorno. Circa il 15% arriva da piccole imprese, spesso fortemente indebitate, che – insieme alle medie – rischiano adesso di non sopravvivere a questa fase di shock dell’offerta. In Texas, dove si concentra l’industria estrattiva, molti produttori hanno già sospeso le trivellazioni in attesa di tempi migliori: del resto il mercato petrolifero, dicono, è fatto di alti e bassi, boom and bust. Ma è vivo il ricordo della crisi del 2014, quando un surplus di offerta fece crollare i prezzi e l’OPEC scelse di non intervenire, scommettendo sul collasso dello shale. Il piano non ebbe successo: l’industria americana resse, ma molte compagnie andarono in bancarotta e decine di migliaia di persone persero il lavoro.
Uno dei concetti ripetuti più spesso dal presidente Donald Trump è quello di «predominio energetico» (energy dominance). Attraverso forti stimoli alla produzione di idrocarburi, l’America deve cioè rafforzare la sua indipendenza energetica, in modo da non doversi più affidare all’estero né essere ricattabile da qualche nazione straniera. Ma deve anche affermare il suo primato globale, aumentando le esportazioni di petrolio e gas.
Per poter essere raggiunta, l’«età dell’oro» richiede un’industria forte. Per questo, l’amministrazione Trump ha annunciato di recente l’acquisto di grandi quantità di greggio per riempire «fino all’orlo» le riserve strategiche di petrolio: la mossa è pensata per sostenere i prezzi dell’oro nero e con loro anche i produttori di shale oil. Le riserve americane ammontano attualmente a 636 milioni di barili; per “riempirle fino all’orlo” Washington dovrebbe acquistarne altri 77 milioni, con una spesa di circa 2,3 miliardi di dollari. Ma l’aumento della domanda statunitense non basterà comunque a compensare l’eccesso di offerta sul mercato.
Forti avversità. Ma gli USA non sono l’unico produttore di petrolio del Nord America: Se Washington non ride, il Canada piange a dirotto. La “guerra dei prezzi” rischia di affossare l’economia dell’Alberta, la provincia canadese che concentra la maggior parte delle riserve petrolifere (le terze più grandi al mondo) e che dipende dal loro sfruttamento. Il bilancio del governo locale aveva fissato il break-even a 58 dollari al barile, ma le tensioni internazionali hanno fatto scendere il valore del greggio Western Canadian Select al di sotto dei 10 dollari.
In queste condizioni, estrarre petrolio non porta profitto alle aziende. Decine di loro hanno già fissato tagli importanti alle spese di investimento per il 2020. «Non abbiamo mai vissuto nulla di simile nella storia della nostra industria energetica», ha dichiarato il premier dell’Alberta Jason Kenney. «Stiamo affrontando un periodo di forti avversità».
La crisi dell’Alberta non è iniziata certo ora. Va anzi fatta risalire almeno al 2014, quando il deprezzamento del petrolio fece crollare gli investimenti e l’occupazione. Oggi la situazione è migliorata, ma rimane tesa: il tasso di disoccupazione della provincia resta più alto rispetto della media nazionale, e molte grosse compagnie energetiche – come ConocoPhillips, Shell ed Equinor – hanno nel frattempo abbandonato i loro progetti estrattivi. L’ultimo caso, a fine febbraio, è stato quello di Teck Resources.
L’Alberta è in un certo senso vittima del suo petrolio. Denso e viscoso, viene estratto dalle cosiddette oil sands (sabbie bituminose) tra difficoltà, grandi spese e una notevole quantità di gas serra. Sia per i costi di produzione che per l’impatto ambientale, investire nel bitume canadese si è fatto sempre meno conveniente per le imprese petrolifere.
Ma ci sono anche motivazioni di contorno. Il Canada è infatti penalizzato da una rete di oleodotti non sufficiente, che ne limita le capacità di esportazione. I due progetti in costruzione più controversi sono il Trans Mountain (dall’Alberta alla costa dell’oceano Pacifico) e il Keystone XL (dall’Alberta al Nebraska, negli Stati Uniti): osteggiati dagli ambientalisti, procedono entrambi a rilento. L’Alberta ha cercato di rimediare potenziando i trasporti su rotaia, ma il crollo dei prezzi del greggio ha reso questa modalità troppo svantaggiosa.
Il governo di Justin Trudeau si trova a dover gestire contemporaneamente una crisi del mercato petrolifero e un’emergenza di sanità pubblica. Il Primo Ministro ha annunciato delle misure di aiuto economico dal valore di 82 miliardi di dollari canadesi (oltre il 3 per cento del PIL) per mitigare l’impatto del coronavirus. Ora l’attenzione, promettono da Ottawa, si concentrerà sul salvataggio del settore oil and gas, che vale circa il 10% del PIL. Un primo provvedimento, utile almeno a sostenere l’occupazione, dovrebbe riguardare il finanziamento delle operazioni di bonifica dei pozzi petroliferi inattivi. In tutta l’Alberta ce ne sono più di tremila.