All’ombra della crisi idrica globale che si staglia lunga sul futuro prossimo di questo Pianeta, avanza sempre più lesto lo spettro delle “guerre per l’acqua” – che tuttavia convive con una potenziale funzione di connessione, di scambio e dunque di collaborazione che non dovremmo lasciarci sfuggire.
L’acqua non è solo (come fosse cosa da poco) la risorsa che sovrintende alla vita in termini chimici. Ogni meccanismo di funzionamento delle società umane è irrorato d’acqua. L’acqua è pervasiva, s’infiltra in ogni nervatura dei sistemi socio-economici, politici, culturali e religiosi persino. E per natura non conosce confini, corre silenziosa tra popoli e Paesi catalizzando interessi assai diversi e ad un tempo inevitabilmente interconnessi. Per questo, è capace anche di muovere conflitti.
Le controversie per il controllo fisico o economico di bacini, falde e infrastrutture idriche sono antiche quanto la storia dell’umanità, va detto. E l’acqua, bene strategico com’è, ha sempre giocato un ruolo decisivo negli scenari di conflitto, spesso esacerbandoli. Ma mai come nel mondo contemporaneo attraversato da molte e complesse tensioni geopolitiche e con la crisi climatica che si fa alimentatore di instabilità, l’acqua che non c’è ha rappresentato una minaccia tanto grave alla pace e la sicurezza.
Negli ultimi 4mila anni, quasi 1300 conflitti hanno avuto a che fare con l’acqua, secondo una stima basata sulle meticolose ricostruzioni del Pacific Institute for Studies in Development, Environment, and Security. Dalle campagne militari assire fino al conflitto d’Ucraina, attraverso le due guerre mondiali, passando per il conflitto israelo-palestinese, gli scontri permanenti che travolgono il Corno d’Africa e i grandi conflitti collettivi sulla privatizzazione dell’acqua potabile in Sud America. Il racconto ricostruito a mezzo del database Water Conflict Chronology è quello di una risorsa strumentale e strumentalizzata, sacrificata alle logiche geopolitiche e militari sin dagli albori della civiltà.
La ricerca rubrica come Water Conflict tutti gli eventi di violenza o minaccia di violenza (incluse manovre militari o dimostrazioni di forza) associati alle risorse o ai sistemi idrici, e li classifica in base all’uso, l’impatto o l’effetto dell’acqua nel conflitto. Spesso vittima o bersaglio. Talvolta arma. Sovente innesco di dispute sul controllo dei sistemi idrici, di sanguinose lotte di accaparramento, o di violenze per l’accesso economico o fisico ai bacini.
“Nessuna regione del mondo è stata immune dal rischio di violenza associato alle risorse idriche”, ha chiarito in occasione della Seconda conferenza mondiale sull’acqua, lo scorso marzo, lo scienziato del clima e Vicepresidente del centro studi Peter Gleick.
Sono però le tendenze degli ultimi due decenni a preoccupare gli esperti di idropolitica. Dal 2000, infatti, la frequenza degli eventi conflittuali relativi all’approvvigionamento e al controllo idrico è aumentata a dismisura. E nell’ultimo biennio, di Water Conflicts se ne contano 202. Per 140 volte l’accesso all’acqua ne è stato il fattore scatenante. Soprattutto nel Corno d’Africa e nel subcontinente indiano, ma anche in Medio Oriente e Sud America, tutte aree (e non è un caso) già estremamente fragili, colpite gravemente dalla scarsità idrica e dagli effetti della crisi climatica, e sconvolte da numerosi fronti di scontro interni.
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Questo avviene mentre già il 10% della popolazione globale vive sotto stress idrico elevato o grave, 2 miliardi di persone fanno i conti con le implicazioni devastanti della mancanza d’acqua, e la domanda globale d’acqua cresce al ritmo del +1% annuo – queste le stime dell’ultimo rapporto ONU sul tema.
Guardando alle previsioni che indicano il 2030 come l’anno in cui la domanda globale d’acqua dolce supererà del 40% la sua disponibilità, e il 2050 come quello in cui molti Paesi avranno accumulato un calo del loro prodotto interno lordo pari al 6% a causa della crisi idrica, è facile comprendere i timori per una pericolosamente vicina escalation nel livello delle ostilità nelle interazioni relative all’acqua, di fatto promossa a influente fattore geopolitico.
Sono ancora le parole di Gleick a inquadrare bene la situazione: “c’è sempre più concorrenza per l’acqua. Le popolazioni stanno aumentando, le economie sono in espansione. La domanda d’acqua cresce, e ci sono disuguaglianze, grandi disuguaglianze, in tutto il mondo, nell’accesso e il controllo delle risorse idriche. Cresce anche il degrado ambientale, cambiamento climatico compreso. E molti degli sforzi per risolvere le questioni idriche sono inadeguati”.
C’è un dato, però, che merita attenzione. Perché è quello che può e deve offrire la chiave di volta per tentare di arginare le tensioni che rischiano di infiammarsi sulla gestione delle risorse idriche: storicamente, per l’acqua si fa più la pace che la guerra.
Anzi, per l’acqua, di guerre intese come conflitti armati (internazionali e non) secondo i parametri dal diritto internazionale umanitario non se ne sono ancora mai combattute. Sono state e sono molte le situazioni di disordini, rivolte, atti di violenza più o meno isolati verificati all’interno di territori nazionali riguardo a una risorsa che tanto più è preziosa quanto più scarseggia, che sempre di più perde valore e acquista prezzo, ma nessuno di questi episodi è legalmente configurabile come una guerra civile. Tantomeno alcuno Stato ha mai ancora mosso un’aggressione armata contro un altro per l’acqua (se non, forse, una volta, 4500 anni fa).
Quando due o più nazioni condividono una fonte d’acqua, e questo succede sulla metà della superficie terrestre con 286 bacini fluviali e lacustri che scorrono a cavallo dei confini nazionali e poco meno di 600 falde transfrontaliere, “in realtà, due terzi di ciò che accade è cooperazione”, ha recentemente spiegato Aaron Wolf, professore di geografia presso il College of Earth, Ocean, and Atmospheric Sciences della Oregon State University, parlando all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
C’è un generale riconoscimento di quanto impegnarsi in un conflitto sull’acqua determini più perdite che vantaggi, a partire dagli impatti negativi sulla stessa sicurezza idrica che è anche sicurezza alimentare ed energetica e perciò resta indispensabile alle dinamiche di sviluppo di ogni aggregato umano. La diplomazia dell’acqua può essere antidoto efficace al dilagare dei Water Conflicts, e sono già molti i tavoli di cooperazione pacifica e proficua sulle risorse idriche condivise.
La questione è piuttosto che alla luce delle nuove sfide dettate dall’emergenza idrica, “non tutta la cooperazione è buona”, per prendere ancora in prestito le parole di Wolf. Solo per il 58% delle aree interessate da bacini condivisi sono ad oggi in essere accordi operativi di cooperazione idrica, e la Convenzione globale sulla protezione e l’uso delle acque, dei fiumi e dei laghi transfrontalieri – siglata a Helsinki nel 1992 – raccoglie le firme di appena 48 Paesi (la Nigeria ultima in ordine di tempo).
Se milioni di persone mancano delle basilari condizioni di accesso all’acqua (che dal 2010 sarebbe un diritto umano universale), sono enormi le sperequazioni, e si moltiplicano i focolai di crisi attorno alle acque condivise, allora appare evidente che l’attuale approccio alla gestione delle risorse idriche porta con sé falle che non possiamo più permetterci.
La portata della crisi che il nostro Pianeta sta già affrontando, le sue cause e le sue conseguenze, suggeriscono i più eminenti scienziati e accademici, necessitano di nuove e più efficaci strategie di cooperazione, di una nuova generazione di accordi sull’acqua che includano approcci politico-economici, tecnologici e scientifici. E di una più consapevole governance dell’acqua a tutti i livelli, da cui possa passare la via di cura per quei conflitti che mettono a repentaglio il futuro di troppi, forse di tutti.
Sul Nilo, ad esempio, le controversie sulla Grande diga del rinascimento etiope (GERD) esasperano le delicatissime relazioni con l’asse Egitto-Sudan aprendo a dinamiche difficili a prevedersi.
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Sono molti i fronti di discordia pronti ad esplodere tra la Turchia e l’Iraq a secco, che non lascerebbero fuori Siria e Iran, intorno alle dighe del Guneydogu Anadolu Projesi (GAP) sul bacino del Tigri-Eufrate. E considerando che la questione del suo controllo ha accompagnato tutti i settantacinque anni del conflitto israelo-palestinese, lo stress climatico che ora investe il fiume Giordano non lascia certo ben sperare per i processi di pace in stallo, piuttosto accende ulteriori preoccupazioni per la Giordania, finora unico asset di stabilità nel caldissimo teatro mediorientale.
Estremamente critica, poi, è la situazione sulle rive del lago Ciad, che interessa principalmente Camerun, Niger, Nigeria, Ciad e Repubblica Centrafricana. Negli ultimi cinquant’anni il bacino ha perso il 90% della sua capacità a fronte di un elevatissimo tasso di crescita della popolazione regionale. Enormi concentrazioni di povertà estrema, conflitti etnici e terrorismo, insostenibili livelli di sfollamento interno e migrazione, shock climatici, sono solo alcune delle insidiose maglie che minano la rete di stabilità nella regione. In questo contesto, la scarsità idrica ha già provocato numerosi episodi di violenza. E aumenteranno senza un intervento radicale sull’equo accesso all’acqua per tutte le comunità.
Il Trattato sulle acque dell’Indo, siglato tra India e Pakistan nel settembre 1960 a scongiurare uno scontro armato sul controllo idrico e poi sopravvissuto a tre guerre tra le due potenze nucleari, è considerato un vero e proprio monumento all’idrodiplomazia e alla cooperazione che possono fare dell’acqua un catalizzatore di pace, cooperazione e sviluppo. Ecco, persino questo efficientissimo accordo oggi vacilla e lo fa su una diga di troppo che il governo pakistano, preoccupato dalle profondissime ricadute che un’ulteriore deviazione delle acque del fiume potrebbe avere sulla sua agricoltura già provata da allarmanti livelli di scarsità idrica, riconosce come un atto di ostilità da parte dello storico rivale indiano.
Falle, appunto. Solo alcune delle tante, ma che bastano a restituire l’urgenza di un rafforzamento e una reinterpretazione delle vie di cooperazione sulle risorse idriche che sotto la pressione dei nuovi modelli di consumo e degli effetti del cambiamento climatico sono un argomento intrinsecamente tecnico e politico. Ritrovare una lettura dell’acqua come opportunità di cooperazione, dialogo e sviluppo, invece che di conflitto, è urgente. Ma, soprattutto, è possibile.
Accade, per citare solo uno dei casi virtuosi, sul delta del fiume Tana, in Kenya. Lì dove nel 2012 gli scontri tra pastori e agricoltori per lo sfruttamento delle acque avevano ucciso centinaia di persone, dal 2014, quella che è nota come Restoration initiative ha permesso non solo importantissimi passi verso la pacificazione tra le comunità in contesa ma anche, attraverso la definizione di un percorso decisionale collettivo sulla gestione integrata delle risorse ad equo vantaggio per tutti, di stabilire percorsi di crescita sostenibile sul riequilibrio e il ripristino dei sistemi naturali degradati.
“In quanto bene comune globale più prezioso dell’umanità, l’acqua ci unisce tutti. E attraversa una serie di sfide globali”, ha detto il Segretario Generale dell’ONU Antonio Guterres chiudendo i lavori della Water Conference 2023. Tra quelle sfide c’è sicuramente quella per una nuova era della cooperazione e della diplomazia, affinché sull’acqua si possa davvero costruire pace e sicurezza.