Come sappiamo, la politica estera non è quasi mai determinante per l’esito delle elezioni americane. Tuttavia, le fiamme di una regione da cui Washington puntava a disimpegnarsi, possono rafforzare l’idea che Joe Biden sia troppo debole per imporre delle soluzioni, all’estero e in patria. L’appoggio al governo israeliano divide il Partito Democratico, con possibili ripercussioni elettorali in decisivi Stati in bilico. Insomma: dal Medio Oriente post-7 ottobre la Casa Bianca ha parecchio da perdere. Mentre i Repubblicani hanno molto da guadagnare.
Prendiamo la risposta inevitabile di Washington alle prime vittime militari americane (colpite sabato scorso in una postazione ai confini fra Giordania e Iraq). Sono cominciati raid massicci degli Stati Uniti sulle installazioni, in Iraq e in Siria, di milizie islamiche collegate in vario modo all’Iran. E’ solo l’inizio della ritorsione americana: ma Biden sarà comunque giudicato inefficace da chi vorrebbe invece regolare i conti direttamente con Teheran; o sarà al contrario accusato, dall’ala isolazionista dei Repubblicani, di innescare il rischio di una guerra regionale. Fino a un confronto diretto che né gli Stati Uniti né l’Iran vogliono in realtà combattere.
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Lo conferma, sul lato di Washington, anche la decisione di rispondere agli attacchi in Giordania solo dopo una settimana: tempo utile, secondo gli esperti regionali, per segnalare l’intenzione della Casa Bianca di evitare una escalation con Teheran, permettendo fra l’altro al personale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane di lasciare gli obiettivi da colpire in Iraq e in Siria. Sul lato della Repubblica islamica, la dissociazione costante dagli attacchi delle milizie esterne è largamente strumentale; ma chiarisce anche la volontà dell’Iran, con le sue difficoltà interne, di evitare un conflitto diretto con gli Stati Uniti, lasciando che siano i “proxy” – con agende in parte autonome ma sostenute militarmente e finanziariamente da Teheran – a condurre la battaglia mortale contro Israele e il suo garante americano. Resta che, da larga parte dei Repubblicani, la risposta di Biden è considerata troppo remissiva o comunque destinata a fallire: le scelte internazionali sono ormai vittima costante della polarizzazione interna al Congresso.
Joe Biden deve affrontare – in un contesto delicato del genere, in cui la politica estera aumenta le sue difficoltà di politica interna – due dilemmi essenziali. Il primo è come rafforzare una scarsa capacità di influenza sul governo israeliano, che fino ad oggi ha preso da Washington quello che gli serviva e respinto quello che non voleva (cessate il fuoco e prospettiva dei due Stati). La Casa Bianca sta cambiando registro: le sanzioni contro quattro coloni della Cisgiordania sono un primo segno simbolico di indurimento americano, combinato a posizioni più esplicite, per quanto del tutto teoriche, su un futuro Stato palestinese. Washington – che ha mediato con Egitto e Qatar una tregua duratura e lo scambio degli ostaggi – assume così una posizione contrattuale più netta, ponendo le sue condizioni a un “cliente” difficile come Netanyahu, che identifica nella guerra una garanzia del proprio destino politico. Per la prima volta da mesi, il negoziato sembra finalmente in movimento.
Il secondo dilemma di Biden è come migliorare le capacità di deterrenza dell’America (che ha subito più di 150 attacchi contro le proprie postazioni militari in Iraq e Siria) senza aumentare – nei modi in cui si è visto – i rischi di escalation. I rischi sono naturalmente già in atto, come dimostrano gli scambi fra Israele e Hezbollah in Libano e gli attacchi Houthi ai mercantili nel Mar Rosso. Ma per ora restano limitati. Per le milizie islamiche collegate a Teheran, con le loro agende distinte, Israele e Stati Uniti sono un unico bersaglio: sciogliere il secondo dilemma richiede che sia risolto anche il primo.
L’America appare anche abbastanza isolata, nonostante la frenetica diplomazia del suo Segretario di Stato, Antony Blinken, e l’azione del Capo della CIA, Bill Burns. Gli Stati arabi restano alla finestra, cosa che complica una soluzione regionale. Biden non ha dimostrato grandi capacità di pressione neanche su un suo secondo alleato-chiave: l’Arabia Saudita, che non ha collaborato al contenimento dei prezzi energetici (altra preoccupazione elettorale per i democratici) e si è defilata nel post-7 ottobre. L’attacco devastante di Hamas e poi la risposta israeliana hanno incrinato lo schema degli Accordi di Abramo, immaginato da Trump e confermato da Biden dopo vari tentennamenti. Ma che oggi ha bisogno – la Casa Bianca ne sembra ormai consapevole – di una revisione strategica. Da un dopoguerra accettabile a Gaza dipende infatti la possibilità di recuperare i rapporti fra lo Stato ebraico e le monarchie sunnite del Golfo: un assetto regionale che isola l’Iran e che Teheran ha interesse a fare saltare.
Biden, per evitare un suo “momento Carter”, deve cogliere un risultato negoziale almeno parziale e prevenire incidenti maggiori. La diffusa presenza di forze americane nella regione – 30.000 unità circa fra paesi del Golfo, Giordania, Gibuti, Iraq e Siria – è una leva ma espone anche l’America. Che, di fronte agli attacchi Houthi nel Mar Rosso, deve intanto difendere il proprio ruolo globale come garante della libertà di navigazione lungo le grandi rotte marittime.
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Gli europei, che hanno interessi molto rilevanti in gioco, sono per ora serviti a poco. Ma hanno finalmente deciso di avviare una loro operazione navale di pattugliamento, di cui l’Italia assumerà il comando tattico. Si apre così una dialettica transatlantica sulle modalità di azione: Washington e Londra puntano sulla deterrenza attiva che include attacchi mirati in Yemen; gli europei puntano sulla difesa dei mercantili, con regole di ingaggio ben più restrittive. Vedremo fino a che punto funzionerà questa sorta di divisione dei compiti.
*Una versione di questo articolo è apparsa su Repubblica del 3/02/2024