Il dilemma giuridico e politico della confisca degli asset russi e la guerra in Ucraina

L’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 e tuttora in corso rappresenta senza dubbio uno dei più gravi illeciti internazionali perpetrati nel ventunesimo secolo. Nel corso dei mesi, le numerose perdite umane e gli ingenti danni materiali dovuti al protrarsi del conflitto hanno fatto emergere una chiara responsabilità della Federazione Russa, nei confronti dell’Ucraina e dell’intera Comunità Internazionale. È dunque certo che, una volta cessate le ostilità, il tema delle riparazioni di guerra sia destinato ad occupare un ruolo di primo piano nella composizione dei rapporti tra Russia e Occidente. La necessità che Mosca sia riconosciuta responsabile delle proprie azioni va infatti di pari passo con l’accertarsi che adempia sino in fondo ai suoi obblighi risarcitori previsti dal diritto internazionale.

Sin dall’inizio del conflitto, l’Occidente ha adottato a più riprese sanzioni economiche in risposta alla violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina. Nel quadro delle restrizioni finanziarie si colloca il congelamento delle riserve estere della Banca Centrale Russa (RCB) e, più in generale, di asset pubblici e privati localizzati in Europa e negli Stati Uniti. Si tratta al momento di beni dal valore superiore ai 300 miliardi di euro, oggetto di crescenti misure restrittive disposte con particolare solerzia dall’UE a partire dal febbraio 2022, che ne hanno comportato una sostanziale indisponibilità da parte di Mosca. La necessità di sostenere lo sforzo bellico di Kiev nel medio periodo ha tuttavia evidenziato l’urgenza di esplorare nuove soluzioni da sommare ai canali d’aiuto tradizionali in prospettiva del protrarsi della guerra. In questo contesto, la confisca dei proventi derivanti dalle riserve estere potrebbe rappresentare il viatico in grado di coniugare la garanzia del supporto economico dell’Occidente all’Ucraina, con il rispetto dei futuri obblighi di riparazione da parte della Russia, sostituendosi ad essa in caso di inadempimento o qualora l’evoluzione degli eventi bellici lo rendesse impossibile.

Il raggiungimento di un accordo in seno al G7 di Brindisi di metà giugno, sul riutilizzo delle entrate straordinarie a sostegno dell’Ucraina, è il primo passo verso la definizione di una base giuridica che regoli il meccanismo di confisca degli asset russi, al momento solo congelati.

 

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L’assenza di precedenti sovrapponibili rende un intervento normativo a valle dei singoli Stati necessario per colmare la lacuna e assicurare che Kiev possa beneficiare di considerevoli aiuti economici nel più breve tempo possibile. In questo senso, l’intesa su un prestito di 50 miliardi dollari finanziato grazie ai proventi straordinari delle riserve estere della RCB, rappresenta la miglior soluzione in grado di coniugare tanto le esigenze di legalità quanto di speditezza, nel momento in cui il conflitto evolve in una tanto dispendiosa quanto prolungata guerra d’attrito.

 

Banche centrali e immunità degli Stati

In base al diritto internazionale è assodato che gli Stati godano di un’immunità di natura consuetudinaria. La Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni del 2004 (UNCSI), promossa dall’ONU sotto gli auspici della International Law Commission (ILC), rappresenta lo stato dell’arte in materia, ma a tutt’oggi non risulta in vigore poiché ratificata da un numero insufficiente di Stati. Con l’eccezione degli USA, assenti sin dall’inizio, Cina, Russia e Regno Unito risultano solo tra i firmatari, mentre Francia, Italia e Giappone hanno provveduto anche alla ratifica a partire dal 2010. Sulla scorta del contenuto della UNCSI, si è soliti distinguere l’immunità degli Stati rispetto ai tribunali di un altro Stato, da quella più specificamente accordata nei confronti di misure coercitive, come pignoramenti o sequestri. Quest’ultima riguarda particolari categorie di beni, utilizzati per scopi non commerciali, come quelli della banca centrale o di altre autorità monetarie.

Nel suo commentario, l’ILC ha giustificato l’introduzione di questo ulteriore livello di immunità, sull’assunto che in diversi Stati si stesse affermando una tendenza indiscriminata al ricorso ad azioni esecutive nei confronti di beni congelati, tra cui proprio gli asset delle banche centrali, che necessiterebbero di particolare protezione per la loro funzione intrinsecamente pubblica. È indubbio quindi che le riserve della RCB siano pienamente incluse nel novero dei beni prima facie immuni da misure coercitive, come la confisca.

È tuttavia necessario notare come secondo l’UNCSI l’immunità sia garantita nei soli confronti dei “tribunali di un altro Stato”, inteso come organo abilitato a esercitare funzioni giudiziarie. Il dettato letterale del testo della convenzione farebbe quindi salvi eventuali provvedimenti ablatori (ovvero trasferimenti o sospensioni coattivi di beni o diritti) adottati da un’autorità amministrativa sulla base, per esempio, di una normativa appositamente concepita per consentire l’utilizzo dei proventi delle riserve estere congelate. Una simile scelta collocandosi al di fuori del perimetro della convenzione non incorrerebbe in una palese illegittimità, per quanto si possa discutere sulla portata e la ratio della UNCSI che, come noto, mira ad allargare ulteriormente per le banche centrali la sfera dell’immunità. La violazione di quest’ultima, inoltre, non potrebbe essere sottratta con facilità al sindacato di un giudice d’appello eventualmente adito. Ciò ripresenterebbe il tema delle misure coercitive con ancora più forza, in ragione del noto principio del giusto processo o due process.

Il caso appare dunque inedito, non essendosi mai profilato fin d’ora il tema della confisca degli asset di una banca centrale protetti da immunità. Anche ammettendo che sia possibile, il trasferimento proprietario avverrebbe a conflitto in corso e in assenza della decisione vincolante di un organo come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC), rispetto al quale la Russia mantiene un potere di veto a cui ha fatto ampiamente ricorso in passato. Se la prima lacuna può essere sfruttata a sostegno dell’Ucraina, con il riutilizzo delle riserve per assicurare una copertura economica agli aiuti, il secondo caso implicherebbe un approccio unilaterale da parte del G7, in supplenza dell’UNSC.

Ulteriori profili di incertezza riguardano la protezione degli investimenti, avendo la Russia firmato in passato trattati bilaterali (BIT) con Paesi come il Belgio e la Francia, dove sono localizzati la maggior parte degli asset pubblici congelati. Ciò riguarda in particolare l’estensione dei BIT alla Banca Centrale Russa, pur in assenza di una connotazione commerciale dell’attività svolta e la definizione stessa di “investimento” con riferimento alle riserve congelate e ai relativi profitti. In questo caso si dovrebbe ammettere un’interpretazione restrittiva dei trattati bilaterali, la cui protezione verrebbe accordata ai soli investimenti privati (e non a quelli degli organi di uno Stato estero). Criticità aggiuntive si profilerebbero rispetto alle garanzie giuridiche accordate alla RCB, in presenza per esempio di un’espropriazione senza indennizzo, del trattamento “giusto ed equo” e più in generale del Minimum Standard of Treatment alla base delle relazioni tra Stati.

 

Le contromisure ammissibili

In assenza di una base normativa che giustifichi la confisca delle riserve tout court, una possibile soluzione in grado di garantire la legittimità della decisione consisterebbe nel ricorso alla dottrina delle contromisure. Secondo quest’ultima, uno Stato leso da un illecito internazionale può adottare delle condotte ritorsive nei confronti del Paese autore dell’illecito, al fine di indurlo a conformarsi ai suoi obblighi. Tuttavia, a differenza delle semplici ritorsioni (come l’interruzione dei rapporti diplomatici), che costituiscono la risposta ad un comportamento che si configura come “inamichevole”, le contromisure sono caratterizzate da un accentuato disvalore giuridico, che renderebbe tali atti di per sé illeciti. Per questa ragione, il diritto consuetudinario ne sottopone l’adozione a stringenti condizionalità, ancor di più nei casi in cui siano Stati terzi a disporle in presenza di una grave illecito internazionale.

A questo proposito, viene spesso citato il contenuto del Progetto di articoli sulla responsabilità dello Stato dell’ILC (ARISWA), che racchiude la summa di una materia dai contorni ancora incerti e in continua evoluzione. In base all’ARISWA, per preservarne la legittimità le contromisure devono avere carattere temporaneo e reversibile, in quanto finalizzate a promuovere l’inducement dello Stato responsabile e andrebbero revocate una volta che quest’ultimo si sia conformato ai propri obblighi. Inoltre, la gravità delle condotte adottate dovrà essere commisurata alle conseguenze dell’illecito subito, assicurandone la proporzionalità sia sul piano degli effetti che della durata.

Una ulteriore peculiarità della confisca delle riserve estere della RCB deriva dal fatto che non sarebbe l’Ucraina a privare la Banca Centrale Russa della disponibilità dei propri asset, bensì Stati terzi nelle cui giurisdizioni si trovano i beni congelati. Questa condotta potrebbe essere ricompresa nel novero delle “contromisura di terze parti” e trovare almeno parziale accoglimento nel disposto dell’ARISWA, in base al quale rimane impregiudicato per gli Stati diversi da uno Stato leso il diritto di invocare la responsabilità dell’autore dell’illecito e di adottare misure lecite “lawful measures” per assicurare sia la cessazione della violazione che la riparazione dei danni arrecati.

Con il congelamento delle riserve estere di Mosca, i membri del G7 hanno ulteriormente confermato la prassi dell’adozione di contromisure da parte di Paesi terzi, in risposta a gravi illeciti erga omnes, come la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina. La stessa ARSIWA, inoltre, prevede un obbligo di cooperazione in presenza di violazioni di obblighi internazionali come l’attacco contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno Stato. Pertanto, sarebbe possibile e addirittura auspicabile una forma di coordinamento multilaterale in risposta ad un’aggressione militare contro uno Stato sovrano, che è stata riconosciuta come tale e condannata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Anche ammettendo il ricorso a “lawful measures” nel caso in esame, una confisca integrale delle riserve estere della RCB difficilmente avrebbe carattere reversibile e temporaneo, atteso che presupporrebbe il trasferimento della proprietà a titolo originario ad un attore terzo, per un periodo di tempo indeterminato. L’unico requisito pienamente rispettato sarebbe quello della proporzionalità, considerato che i danni economici del conflitto superano di gran lunga l’importo degli asset congelati dai Paesi del G7. Per quest’ultima ragione, la confisca avrebbe l’indubbio pregio di indurre la Russia all’adempimento degli obblighi di riparazione. Mosca potrebbe infatti pretendere la restituzione delle somme confiscate solo una volta rimossi gli effetti dell’atto illecito nella sua interezza.

 

Quali possibili alternative

La decisione di procedere alla confisca tout court degli asset pubblici russi e delle riserve estere della RCB, seppur astrattamente possibile, è gravata da diversi profili di incertezza sia sul piano giuridico che politico. L’accordo negoziato durante il G7 in Puglia richiederà del tempo per essere perfezionato con successo dai diversi Stati, che in più occasioni hanno manifestato a tale riguardo opinioni discordati. In queste condizioni un’attesa prolungata potrebbe tradursi in un grave svantaggio per Kiev, pregiudicando in ultima analisi le stesse operazioni militari. Prima ancora della ricostruzione, infatti, l’Ucraina deve fare fronte ad uno sforzo bellico destinato a protrarsi nel tempo, destinato ad assorbire nell’immediato un quantitativo di risorse considerevoli, che i Paesi occidentali non sono più in grado di assicurare.

Un’ipotesi scolastica più volte ventilata è quella di istituire un’apposita commissione per gli obblighi di riparazione, modellata sulla base della United Nations Compensation Commission (UNCC) del 1991. Quest’ultima venne creata in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per processare le richieste di risarcimento avanzate da parte del Kuwait a seguito dell’invasione irachena, durante la prima guerra del Golfo. Durante il suo periodo trentennale di attività l’UNCC ha liquidato ai ricorrenti kuwaitiani più di 50 miliardi di euro a titolo risarcitorio.

Nel caso dell’Ucraina, il Consiglio d’Europa ha istituito un Registro dei danni nel maggio 2023, primo passo verso la creazione di una possibile Compensation Commission. Tuttavia, a differenza dell’invasione del Kuwait, non sarebbe possibile avvalersi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (dove la Russia detiene il potere di veto). Pertanto, un’eventuale alternativa dovrebbe basarsi su un trattato internazionale ex novo, la cui entrata in vigore sarebbe successiva alla fine del conflitto. Oltre a non essere praticabile nell’immediato, questa soluzione presupporrebbe il trasferimento delle riserve confiscate in un apposito fondo, senza che siano sciolti i dubbi sulla reversibilità e temporaneità di una simile decisione, ammesso che venga inquadrata come contromisura di terze parti.

Le soluzioni al momento più praticabili, sia sul piano giuridico che temporale, si basano sull’utilizzo dei proventi derivanti dagli asset russi soggetti a congelamento. Come noto, la maggior parte dei 300 miliardi soggetti a misure restrittive si trovano nella disponibilità della società belga Euroclear, specializzata nella custodia di titoli e obbligazioni. Ogni anno si stima che le rendite fruttifere degli asset russi congelati ammontino a tre miliardi di euro. La tesi a sostegno del riutilizzo dei proventi come garanzie di un prestito pluriennale a favore dell’Ucraina, si basa sull’assunto che questi non sarebbero di proprietà della Russia. Come segnalato da un’analisi del servizio giuridico del Parlamento Europeo, in base alle disposizioni contrattuali in vigore Euroclear svolgerebbe un servizio di custodia e non di gestione degli asset in questione e pertanto potrebbe legittimamente disporre degli interessi maturati.

La proposta del G7 avrebbe inoltre il pregio di non comportare un trasferimento della proprietà dei beni congelati e la Federazione Russa ne ritornerebbe in possesso una volta adempiuti gli obblighi di riparazione. Come contromisura di terze parti, inoltre, sarebbe salvaguardata sia la reversibilità che la temporaneità degli effetti, così come la proporzionalità, essendo la cifra di gran lunga inferiore alle perdite economiche patite dall’Ucraina. Infine, la somma erogata sarebbe immediatamente trasferita a Kiev, a copertura degli aiuti civili e militari, senza che l’attesa si traduca in un ulteriore rallentamento dello sforzo bellico. Quanto agli obblighi di riparazione, la soluzione del prestito non impedisce che la questione venga affrontata in un secondo momento.

Il congelamento degli asset russi è di per sé una misura sufficiente a cristallizzare la situazione, in prospettiva di un adempimento da parte di Mosca alla fine del conflitto, in assenza del quale le misure restrittive rimarrebbero in vigore de facto a tempo indeterminato.

 

 

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