La fase politica populista si avvicina al suo apice almeno in Europa, dove alle elezioni di maggio si prevede l’avanzamento delle cosiddette “destre sovraniste”: i sondaggi vedono i partiti di questa area in crescita, anche se i popolari resteranno stabilmente il primo gruppo al Parlamento europeo. Con l’accoppiata politico-teorica del populismo/sovranismo – in Europa si dà conto soprattutto dell’evoluzione dei partiti di destra ed estrema destra, anche se esistono declinazioni di sinistra (basti pensare al successo di Jean-Luc Mélenchon in Francia). In ogni caso, la combinazione non è mai stata tanto popolare come oggi. E’ stato spesso ricordato che il dibattito è esploso, in questi termini, dopo il 2016: la Brexit e l’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti sono stati il detonatore che ha modificato la percezione attorno a questo tema.
Se poi mettiamo in fila le più recenti vittorie elettorali populiste, nel senso di un richiamo diretto del leader al popolo e alla sua volontà come legittimazione della sua azione politica, nel mondo – con venature più o meno nazionaliste – e le sommiamo ai governi già in carica, troviamo un rafforzamento evidente dei “Populists in Power” (l’espressione è rubata a un volume del 2014 di due politologi, Duncan McDonnell e Daniele Albertazzi). Non solo gli USA, ma anche il Brasile di Jair Bolsonaro, il Messico del populismo di sinistra di Andrés Manuel Lopez Obrador, il populismo nazionalista di Narenda Modi e del Bharatiya Janata Party in India, quello da giustiziere nelle Filippine di Rodrigo Duterte, quello in crisi nel Venezuela post-chavista, quello del nazionalismo di Recep Tayyp Erdogan in Turchia… e via discorrendo. Forme molto diverse di populismo e nazionalismo, accomunate da alcuni tratti condivisi (chi volesse approfondire gli studi comparati dei populismi contemporanei può leggere il recentissimo Routledge Handbook of Global Populism, a cura di Carlos de la Torre, con conclusioni dell’italiano Manuel Anselmi).
Quindi, mai come oggi è di interesse osservare il sistema di idee che si sviluppa attorno ai campioni del Global Populism; e con esso gli animatori – intellettuali ed esperti – che hanno deciso di giocare la parte dei “Machiavelli” dei leader populisti – a volte, va detto, per autoproclamazione. Il tema stride con un assunto tipico di buona parte degli studi sul populismo, considerato un movimento anti-intellettuale, che associa l’anti-elitismo all’anti-intellettualismo (non importa si parli di esperti o intellettuali pubblici). Uno studioso americano, Peter Levine, ha sostenuto recentemente che l’anti-intellettualismo paga politicamente, oggi, come mai negli ultimi decenni: chi mostra questa attitudine disprezzerebbe la “complessità associata al lavoro di ricerca, nonché il pensiero articolato e specializzato, percepito come antitetico al senso comune”.
In realtà, nonostante queste rappresentazioni negative, i populisti non fanno di certo a meno degli esperti e dei “loro” intellettuali. Cosa accade, per esempio, quando conquistano posizioni di comando? O quando devono leggere la realtà per offrire una visione del mondo orientata all’azione?
L’istituzionalizzazione dei partiti populisti determina una relazione diversa con gli intellettuali, soprattutto se la premessa era quella di impegnarsi in una trasformazione attiva del mondo; attività verso la quale gli intellettuali, o almeno una parte di essi, possono trovare una innata simpatia. Per fare un esempio: per ridurre le distanza fra élite e popolo, i “Populists in power” arrivano a ridisegnare le istituzioni della rappresentanza: non hanno anche loro bisogno di intellettuali che costruiscano una teoria della democrazia diretta e del rapporto tra leader e popolo? Non hanno essi bisogno dei loro “costituzionalisti populisti?” (certo, solo scriverlo appare un ossimoro, eppure…). Insomma: come sempre, serve chi legittimi le idee di un potere costituito o di uno rampante, e di esecutori materiali dell’indivisibile volontà popolare.
Molto interessante, in questo senso, il laboratorio francese. Proprio perché si tratta di un campo che ancora non è stato espugnato dalle forze populiste, benché abbondanti e abbordanti, ma dove si combatte una battaglia quasi epocale. Non solo i rappresentanti delle élite repubblicane da un lato e generazioni di Le Pen dall’altra; ma anche l’elemento di novità di un fenomeno complicatissimo come i Gillet Gialli: indecifrabili, con leadership diffuse e sconnesse, un messaggio non univoco… mai come oggi l’assedio a uno degli ultimi esempi di élite europea coesa e “nazionale” – gli enarchi[1] francesi, personificati nella figura di Emmanuel Macron – sembra segnare una potenziale discontinuità tra passato e presente europeo.
L’interesse per il caso francese ha generato un lungo articolo/inchiesta di Mark Lilla (un autore a volte discutibile, ma mai banale), nel quale sostiene che esista una “terra di mezzo” fra il vecchio repubblicanesimo degli eredi di Chirac e il Front National. Ad occupare questo spazio politico e culturale potrebbe andare, secondo Lilla, Marion Maréchal-Le Pen, la trentenne nipote di Jean-Marie, che ha fatto sapere di voler rinunciare all’ingombrante cognome, anche grazie al tumulto ideologico dei nuovi intellettuali della destra francese. Interessante osservare come il suo intervento, apparso sulla prestigiosa New York Review of Books, abbia generato una levata di scudi: il giovane corrispondente a Parigi del Washington Post, James McAuley, ha sostanzialmente accusato Lilla di sottovalutare l’ossatura xenofoba e razzista delle persone che Lilla ha intervistato, quasi fosse vittima di una sorta di sindrome di Stoccolma intellettuale.
In realtà Lilla ne mostra il minoritarismo: li intervista e ne studia le coordinate culturali, spiegando quanto siano distanti dal conservatorismo americano. Ma sa anche che le idee, se organizzate, possono trovare le loro vie di espansione e popolarizzazione (in forme e modalità anche distanti da chi le ha prodotte). Ne sottolinea la coerenza – al contrario del pensiero espresso nei decenni dalla sinistra della Terza Via, a suo parere – e ricorda la loro passione per Antonio Gramsci, anche se tanti di loro lo citano ma non lo leggono – citare Gramsci, d’altronde, significa per molti far capire che ci si preoccupa delle trasformazione delle idee in “senso comune”, arma decisiva nella costruzione di qualsiasi narrativa politica vincente. Lilla racconta l’attenzione ai temi sociali e a quelli dell’ecologia; sostiene che un nuovo attivismo culturale cattolico può essere strumento di avvicinamento fra l’establishment della destra conservatrice e gli ex lepenisti, nonostante la vecchia tradizione secolare di entrambi. Insiste sul ruolo dei giovani intellettuali cattolici che hanno legato coerentemente il conservatorismo sociale alla critica del capitalismo globale (non è una novità assoluta, ma sono nuovi gli interpreti). Quello che si chiede è, in sostanza, se la destra di governo francese, una volta rientrata la marea gialla che si è sparsa per le strade francesi, possa trovare nel pensiero della destra antagonista linfa per la sua sopravvivenza, finendo per il trasformare entrambi.
In fondo è la questione che si pongono tutti, fosse quella di Lilla anche una semplice fantasia: se da un lato appare complesso immaginare una conquista delle principali roccaforti politiche europee da parte dei populisti, quanto, invece (ora e nel prossimo decennio) la cultura di quelle destre finirà con influenzare e trasformare quella dei suoi antagonisti? In ultima analisi, anche se semplificate nel discorso pubblico populista, “ideas always matter”.
[1] I frequentatori dell’ENA, l’École nationale d’administration che ha avviato innumerevoli carriere di alto livello nell’amministrazione pubblica francese. Tra di esse quella dei presidenti Valéry Giscard d’Estaing, Jacques Chirac, François Hollande e Emmanuel Macron, e di leader e ministri come Édouard Balladur, Lionel Jospin, Dominique de Villepin, Ségolène Royal, Pierre Moscovici, Nicolas Dupont-Aignan…