L’amministrazione Obama ha vissuto forse la settimana peggiore da quando il presidente è in carica. I casi scoppiati nel giro di pochi giorni riguardano questioni serie e potrebbero avere ricadute importanti anche nella capacità dell’amministrazione democratica di produrre risultati tangibili durante i prossimi sei mesi; a quel punto comincerà la campagna per il mid-term e la dinamica politica cambierà, determinata in parte da quanto Obama avrà saputo ottenere proprio nel 2013.
Lo scandalo dell’IRS (l’Internal Revenue Service, il fisco USA), quello dei registri telefonici della Associated Press, e le mezze verità dette sull’attacco a Bengasi del settembre 2012, sono tre accadimenti molto diversi tra loro. Sembra di capire che il presidente o il suo staff non abbiano giocato un ruolo attivo in nessuno di questi, eppure è il presidente in prima persona che ne ha dovuto rispondere. Occorre dire che lo ha fatto in fretta e certamente mostrando di essere al timone – non secondario per una figura cui spesso si imputa di essere attendista e riflessiva. Non è però affatto detto che le decisioni prese bastino a calmare la tempesta.
Andiamo con ordine. La vicenda dell’attentato all’ambasciata USA a Bengasi si spiega in maniera relativamente semplice. La versione fornita dall’ambasciatore all’ONU, Susan Rice, dopo l’attacco costato la vita a quattro americani è manchevole. Di fronte a un colpo simbolico durissimo, l’apparato (nello specifico, soprattutto il dipartimento di Stato) reagisce cercando di rimandare la resa dei conti: chi aveva lanciato l’allarme in anticipo vuole sottolineare questo aspetto – la CIA che era allora sotto il comando di Petraeus – e chi non ha ascoltato quell’allarme preferirebbe glissare. Con il tempo la verità emerge e qualcuno fa una pessima figura. In questo caso sembra di capire che le omissioni siano la reazione difensiva del dipartimento di Stato, che è comunque responsabile della sicurezza del proprio personale all’estero. Quelle omissioni hanno già fatto una vittima a ridosso dell’incidente: Susan Rice non ha preso il posto di Hillary Clinton, dopo che il suo nome era a lungo circolato come quello di una credibile candidata alla successione.
Diverso è il caso dei tabulati telefonici di cento giornalisti dell’Associated Press, acquisiti dal dipartimento di Giustizia alla ricerca di informazioni su una fuga di notizie riguardanti un attentato terroristico fallito. Il tema è quello della libertà di informazione ed è molto scivoloso: il presidente (durante una conferenza stampa con il premier turco Erdogan) ha spiegato che se è in gioco la sicurezza del Paese occorre cercare di individuare i funzionari pubblici che rivelano informazioni riservate e sensibili ai media. A dire il vero sembra quasi esserci un’ossessione per il controllo delle fughe di notizie negli anni di Obama: in cinque anni sei persone sono state inquisite per aver passato segreti alla stampa, più di quanto sia capitato a tutti gli altri presidenti messi assieme. La difesa sentita spesso sui media da parte di funzionari dell’amministrazione è che il numero di fughe, a partire dal caso WikiLeaks, ha assunto proporzioni inusitate, complici le nuove tecnologie. In molti però vedono comunque in azioni come quelle del dipartimento di Giustizia un avvertimento nei confronti di potenziali informatori e dei giornalisti pronti a raccoglierne le soffiate. Per Obama il tema è delicato perché, come anche la mancata chiusura di Guantánamo o l’utilizzo crescente dei droni per colpire obiettivi mirati su ordine diretto del presidente, riguarda le libertà e i controlli. Un tema molto sensibile per la base politica liberal del presidente che è più militante e delusa per il mancato ridimensionamento dei poteri presidenziali lasciati in eredità dalla guerra globale al terrorismo di George W. Bush.
Sul fronte delle critiche da destra, lo scandalo IRS – il fisco – è contiguo a quello dell’Associated Press. Ed è forse il più difficile, dal punto di vista politico: un’agenzia federale avrebbe agito in maniera discriminatoria nei confronti degli avversari politici del presidente. Avrebbe cercato infatti di colpire finanziariamente le organizzazioni non-profit collegate al Tea Party, aumentando le ispezioni e posponendo la concessione di benefici fiscali di cui potrebbero godere per legge. Lo scandalo non sta nel fatto che gli ispettori del fisco si siano accaniti contro organizzazioni politiche che pretendono benefici fiscali di organizzazioni sociali di welfare. Quel problema esiste ed è ben noto: moltissimi gruppi, negli USA si registrano come organizzazioni di welfare pur avendo come scopo quello di raccogliere fondi per finanziare campagne politiche. È uno stratagemma che usano sia la destra che la sinistra, ed è un male per la politica americana, drogata dai soldi esentasse che sostengono questo o quel candidato attraverso queste organizzazioni. Una stortura che vale per il Tea Party come per i gruppi liberal. Intanto, un’analisi del New York Times parla anche di malfunzionamento e mancanza di personale, come se non bastassero le accuse di discriminazione. In ogni caso, il comportamento dell’IRS avvalora i sospetti e le paure di coloro che temono che Obama voglia allargare a dismisura il ruolo dello Stato.
Il Partito repubblicano non ha perso tempo e si è gettato a corpo morto su Obama brandendo gli scandali e incolpando il presidente. Questi ha, come si diceva, risposto rapidamente: ha silurato il capo dell’IRS Steve Miller, sostituendolo con Danny Werfel, ha reso pubbliche centinaia di email scambiate nei giorni successivi all’attacco di Bengasi, e ha promesso di riesumare la legge che protegge i giornalisti che rifiutano di rivelare le loro fonti. In alcuni casi il Grand Old Party ha certamente esagerato negli attacchi alla Casa Bianca, ad esempio fornendo una versione riscritta di alcune mail scambiate su Benghazi, come ha riferito la CBS.
La questione che rimane è se e quanto il Partito repubblicano cercherà di usare questi scandali come leva nei negoziati con l’amministrazione sui grandi temi che sono davanti al Congresso: la riforma dell’immigrazione e l’infinita telenovela del deficit – o la riesumazione di nuove norme sul gun control. La (seconda) vittoria di Obama nel novembre scorso è stato un severo campanello di allarme per i Repubblicani che dopo di allora hanno a tratti scelto la strada del compromesso e in altri casi quella del muro contro muro. Molto dipende dal fatto che in assenza di una linea chiara, forte e vincente del partito, ciascun Congressman sceglie per sé, guidato dall’ideologia o più prosaicamente dal rischio di venire sfidato alle primarie. Il caso del fallimento della legge sul gun control, anche in un clima nel complesso favorevole a nuove misure, è esattamente questo. Oggi i Repubblicani si trovano serviti su un piatto d’argento argomenti su cui attaccare il presidente senza dover fare difficili scelte politiche. Resta da vedere se punteranno solo ad indebolirne la statura o se, sull’immigrazione, commetteranno l’errore di far saltare il tavolo sperando in una ripresa dei Tea Party (o di qualcosa di simile, comunque un sentimento anti-Obama). Sarebbe un errore: un sondaggio Gallup indica che i tre scandali della settimana peggiore di Obama non sono seguiti con intensità relativa dall’opinione pubblica. La maggioranza vuole che ci siano indagini, ma se non emergeranno novità rilevanti in merito alle responsabilità, sembra difficile che il pubblico cambi opinione sulla presidenza a causa di quanto successo. Dal canto suo, l’amministrazione farà di tutto per tornare a parlare delle leggi in discussione. Obama vuole produrre risultati, ha bisogno e voglia di farlo: gli ordini di scuderia sono – così almeno raccontano fonti interne al New York Times – di non farsi distrarre dal rumore di fondo. Le settimane a venire ci diranno se soltanto di rumore si tratterà, o di polemica politica destinata realmente ad avvelenare il clima politico a Washington.