Selahattin Demirtaş è il trionfatore delle elezioni politiche del 7 giugno in Turchia. Curdo, 42 anni, avvocato attivo nelle associazioni per i diritti dell’uomo, dopo una brillante campagna elettorale nelle presidenziali dello scorso anno ha condotto il Partito Democratico dei Popoli (HDP) a uno storico risultato: per la prima volta, un partito che ha come priorità la rivendicazione dei diritti della minoranza curda entra in Parlamento. HDP ha infatti superato la soglia di sbarramento del 10% introdotta dal regime militare degli anni Ottanta proprio per impedire ai curdi – almeno a quelli con una visione politica su base etnica – di avere rappresentanti all’Assemblea nazionale. Il balzo è enorme, molto superiore alle aspettative: percentuali raddoppiate, dal 6,5 del 2011 al 13%, e ben 80 deputati eletti. I curdi del sud-est, di Istanbul e della diaspora hanno festeggiato fino a notte fonda.
Le ragioni di questa affermazione sono molteplici: la visione inclusiva, la relativa debolezza del partito di maggioranza – il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), del Premier Ahmet Davutoğlu e del Presidente Recep Tayyip Erdoğan – che ha perso il 9% dei suffragi scendendo dal 50 al 41%, un forte appoggio dell’opinione pubblica e addirittura da parte delle altre formazioni politiche. Innanzitutto, l’HDP conquista voti e seggi non solo nelle tradizionali roccaforti curde del sud-est e in alcune grandi città meta di immigrazione, ma anche tra la sinistra radicale e movimentista – ad Izmir, ad esempio – più sensibile alle tematiche ecologiste, femministe ed egalitarie che hanno costituito l’essenziale della piattaforma elettorale del partito, insieme a proposte populiste e anti-liberiste in campo economico.
In secondo luogo, il partito curdo ha approfittato dell’emorragia di voti dell’AKP nel sud-est: praticamente “azzerato” in quanto a seggi, come ha sprezzantemente affermato Demirtaş nella conferenza stampa che ha tenuto a Istanbul subito dopo l’annuncio dei risultati, mentre l’HDP in alcuni collegi raggiunge picchi di consenso dell’85%. Tale emorragia, fino al 20% in meno di quanto ottenuto nel 2011, è con ogni probabilità la conseguenza dello stallo nel processo di pacificazione tra il governo e l’organizzazione terroristica PKK (l’HDP è accusato di costituirne nei fatti il braccio politico), di ostacoli frapposti da Erdoğan in alcune fasi dei negoziati – peraltro da lui stesso fortemente voluti – e dai toni estremamente duri che ha usato in campagna elettorale. Ha pesato in modo decisivo, poi, la questione Kobane: il rifiuto delle autorità turche di far difendere la città siriana a maggioranza curda dai miliziani del PKK (avrebbe dovuto lasciarli passare sul proprio territorio, provenienti dall’Ira), preferendo i peshmerga inviati dal presidente nord-iracheno Masoud Barzani e i rinforzi dell’Esercito Libero Siriano anti-Assad. Nonostante il governo abbia accolto decine di migliaia di fuggiaschi e il passaggio dei peshmerga abbia consentito di salvare Kobane, una campagna di stampa lo ha presentato strumentalmente (e con efficacia, visti i risultati del voto) come capace di parteggiare per l’ISIS e di permettere la pulizia etnica dei “nemici” curdi. Non hanno invece prodotto effetti negativi in termini di voti le proteste violente innescate da incaute dichiarazioni di Demirtaş lo scorso ottobre, che hanno provocato circa 50 morti tra i curdi conservatori nelle aree curde.
Infine, l’HDP ha beneficiato di una solidarietà trasversale e massiccia in risposta agli attentati di cui è stato bersaglio durante la durissima campagna elettorale: da ultimo in occasione del comizio di Demirtaş a Diyarbakır (nella zona sudorientale del Paese), due giorni prima delle elezioni, quando due ordigni rudimentali hanno fatto tre vittime e cento feriti tra la folla. In più, ha trovato il sostegno di ampi settori del sistema mediatico anti-Erdoğan e perfino delle altre forze politiche di opposizione, come lo stesso leader curdo ha riconosciuto sempre nel corso dell’incontro coi giornalisti all’indomani del voto: in sostanza è stato fatto di tutto affinché l’HDP superasse la soglia di sbarramento – la cui esistenza è in ogni caso considerata da molti come un’ingiustizia anti-democratica – e sottraesse deputati all’AKP, così da impedirgli il raggiungimento della maggioranza qualificata necessaria per l’agognata riforma costituzionale in senso presidenzialista. Si è prodotto un effetto moltiplicatore (di voti), insomma; mentre il superamento della soglia di sbarramento ha evitato prevedibili proteste di piazza, tensioni, o addirittura sfide armate contro un sistema politico considerato strutturalmente “ingiusto”, discriminatorio e non sufficientemente democratico.
Paradossalmente, però, il Partito Democratico dei Popoli potrebbe essere vittima del suo stesso successo (elettorale). Ha infatti privato il partito di maggioranza relativa della possibilità non solo di riformare autonomamente la costituzione, ma anche di formare un nuovo governo monocolore; le opzioni possibili: un governo di minoranza e rapide elezioni anticipate, oppure una coalizione tra più forze politiche. Visto che l’HDP non intende appoggiare un governo dell’AKP, a maggior ragione non dovrebbe sostenere una eventuale coalizione che includa il Partito di Azione Nazionalista (MHP), da sempre ostile al movimento politico turco e fautore dell’interruzione dei negoziati col PKK per dare al problema terrorismo una soluzione militare e non più politica.
D’altra parte, l’unica coalizione praticabile senza ulteriori appoggi – per compatibilità ideologica e politica – è proprio quella tra AKP e MHP: per l’HDP però questo sarebbe uno scenario davvero indigesto. E in effetti, è stato l’AKP che nel corso del suo decennio di governo ha disinnescato il tabù curdo, ha promosso riforme che hanno dato alla minoranza curda diritti politici e culturali inediti nella storia repubblicana (e impensabili fino all’avvento di Erdoğan al potere), ha nel contempo avviato un vasto programma di investimenti per assicurare sviluppo economico a quella che resta l’area più depressa del Paese, e ha poi avviato gli storici negoziati di pace col PKK – di cui l’HDP è stato parte integrante – e con il suo leader Abdullah Öcalan dal 1999 in prigione in Turchia. In virtù del responso elettorale del 7 giugno, questo processo di graduale emancipazione potrebbe avere fine o comunque arrestarsi a tempo indefinito: e la conseguenza diretta potrebbe esserne una recrudescenza della guerriglia urbana e del terrorismo nel sud-est della Turchia, con enormi costi umani ed economici, o perfino nuove ostilità su scala regionale col coinvolgimento dei curdi siriani e iraniani alleati del PKK. Uno scenario pessimo per tutti.