Il cortocircuito dell’Europa di fronte ai flussi migratori al confine con la Bielorussia

L’autocrate bielorusso Aleksandr Lukashenko ha dimostrato la capacità di tenere sotto scacco l’Europa e rompere l’anatema della delegittimazione, perlomeno al telefono. Il presidente russo Vladimir Putin ha ottenuto il riconoscimento – l’ennesimo – del ruolo di indispensabile interlocutore regionale anche da parte di una UE riluttante. La Cancelliera tedesca Angela Merkel ha avuto l’ultima occasione per esercitare le sue doti di tessitrice del dialogo a Est e tutrice dei delicati equilibri nel continente. Il premier polacco Mateusz Morawiecki s’è visto offrire la possibilità di recitare, per una volta, la parte della vittima e non quella del carnefice, dopo settimane infuocate di scontri con Bruxelles sullo stato di diritto.

L’autunno della “crisi” dei migranti al confine orientale dell’Unione Europea è anche la storia di tanti personaggi che giocano una partita personale, protagonisti a vario titolo di una contesa politica che finisce per mettere in secondo piano, oscurandolo, il dramma umanitario che si sta consumando alla frontiera.

Alcuni dei migranti bloccati alla frontiera tra Bielorussia e Polonia

 

Del resto, c’è una dimensione preponderante nella vicenda delle migliaia profughi riversati alle porte d’Europa con ponti aerei provenienti dai principali scali mediorientali e incentivati dall’establishment  di Lukashenko. Ed è quella geopolitica. Da inizio anno, l’autocrate di Minsk spinge e agevola il transito flussi di migranti – in particolare iracheni, siriani e afghani – verso i confini europei, alla frontiera con Polonia, Lituania e Lettonia.

Secondo i numeri resi noti da Frontex, l’Agenzia Ue della guardia di frontiera e costiera, il 23 novembre e riferiti al periodo gennaio-ottobre, nell’area si sono registrati ottomila arrivi, +1444% rispetto al 2020 per una rotta finora piuttosto marginale. E che tale in fin dei conti resta, se confrontiamo i dati assoluti dei migranti e richiedenti asilo che nello stesso arco temporale hanno provato ad attraversare il confine est con gli attraversamenti nel Mediterraneo centrale (55mila) e gli spostamenti lungo la rotta balcanica (48.500).

 

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Il repentino incremento percentuale a quattro cifre degli arrivi, e la strategia dietro gli spostamenti dei migranti, ha portato unanimemente i leader, non solo a Vilnius e Varsavia, ma anche a Bruxelles (nei palazzi Ue come in quelli Nato), a parlare di strumentalizzazioni dei profughi e di aggressioni “ibride” orchestrate dalla Bielorussia, come fanno ad esempio senza mezzi termini pure le Conclusioni del Consiglio Europeo del 21-22 ottobre, e come ha ribadito la presidente della Commissione Ursula von der Leyen in Parlamento (“È una sfida all’intera UE. Questa non è una crisi migratoria, ma il tentativo di un regime autoritario di destabilizzare le vicine democrazie”). I flussi eccezionali, insomma, al pari degli attacchi cyber alle infrastrutture critiche, hanno il preciso disegno di interferire e sabotare l’ordine dell’Unione Europea premendo sulle sue frontiere esterne. E su uno dei tasti più dolenti per la politica comunitaria: una matura politica migratoria.

È con questa consapevolezza che Lukashenko, dopo giorni scanditi dalle immagini delle condizioni disumane in un campo di fortuna allestito al gelo di temperature prossime allo zero al confine con la Polonia (più di 10 i morti, tra cui un bambino siriano di un anno) e dei respingimenti ad opera delle forze di sicurezza di Varsavia, ha alla fine incaricato la polizia di frontiera bielorussa di smantellare l’accampamento e di trasferire le duemila persone in un hangar al chiuso.

Lo ha fatto, dopo le chiamate con Angela Merkel e con il suo nume tutelare Vladimir Putin (al cui appoggio indispensabile Minsk si affida), usando parole che suonano beffarde alle orecchie dell’Europa (“Siamo slavi, abbiamo un cuore”, ha detto ai microfoni della BBC) e ammettendo di aver facilitato il raggiungimento del confine da parte dei profughi, “perché è da voi che i migranti vogliono venire”.

Validimir Putin e Aleksandr Lukashenko

 

In risposta, oltre al sostegno umanitario fornito dalla Commissione (700 mila euro per l’assistenza ai profughi), da Bruxelles sono arrivate anche le sanzioni: i Ventisette hanno messo a punto il sesto pacchetto di misure restrittive contro l’establishment di Minsk, con la possibilità di colpire “persone, linee aeree, agenzie di viaggi e qualunque soggetto abbia contribuito a spingere illegalmente i migranti verso il nostro confine”. Formulazione abbastanza ampia da ricomprendere anche quattro società irlandesi che concedono in leasing più di una dozzina di velivoli alla compagnia di bandiera bielorussa, Belavia: i contratti di noleggio saranno sospesi, ha garantito von der Leyen. Le nuove sanzioni hanno preso forma in parallelo alla minaccia di ritorsioni nei confronti dei vettori coinvolti nei traffici di migranti, tra cui Iraqi Airways, che dopo le pressioni Ue ha interrotto i collegamenti con Minsk, e Turkish Airlines, che sulla scorta di un provvedimento delle autorità turche ha escluso dall’imbarco – al pari della stessa Belavia – i passeggeri con passaporto di Siria, Iraq e Yemen.

La regia europea si è fatta carico dei contatti diplomatici con Baghdad e Ankara (ma anche Abu Dhabi e Beirut) per ottenere il sostegno dei Paesi di origine e transito dei migranti con l’obiettivo di “disarmare” Lukashenko.

“Vogliamo vedere più rimpatri”, è il sottotesto che da Bruxelles ha accompagnato la tournée  diplomatica nelle capitali mediorientali non dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Josep Borrell, ma di Margaritis Schinas, il vicepresidente della Commissione alla Promozione dello stile di vita europeo (etichetta a dir poco controversa dietro la quale si cela il vecchio portafoglio della Migrazione). La figura, cioè, che molto più di altri incarna l’idea della “Fortezza Europa”, chiamata per l’occasione a riproporre a oriente quella logica dei confini chiusi cara a molte capitali e testata nel caso dei flussi diretti a Sud.

Il contagio dell’agenda politica, in effetti, è già avvenuto. Una fotografia immutata da anni, da quando cioè i governi UE hanno opposto un netto rifiuto a esaminare proposte concrete di riforma del diritto d’asilo: è stato così con la revisione del regolamento di Dublino, arenatasi nella scorsa legislatura nonostante un importante lavoro portato avanti dal Parlamento europeo. Il copione si ripete adesso con il Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, presentato dalla Commissione più di un anno fa e mai davvero incanalato fra le priorità politiche del Consiglio Europeo.

 

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È stata la stessa Europa, dopotutto, come avvenuto in passato con la Turchia (e di fronte a ben altre dimensioni di flussi), a mostrare ai propri interlocutori dalle non specchiate credenziali democratiche un punto debole facile da attaccare e usare come leva negoziale.

La retorica, poi, è stata infiammata dagli stati di emergenza proclamati negli ultimi mesi dai vari Paesi della regione e si è materializzata nelle barriere alla frontiera con la Bielorussia, tornate, ironia della sorte, a cavallo temporale del 32esimo anniversario dalla caduta del Muro di Berlino. A inaugurare la tendenza è stata la Lituania, seguita dalla Lettonia, che ha da poco incassato il voto senza opposizioni in Parlamento, e infine dalla Polonia, che completerà entro metà del prossimo anno 180 chilometri di muro, per un posto complessivo di 353 milioni di euro.

La barriera costruita dalla Lituania al confine con la Bielorussia

 

Protezioni “necessarie”, secondo vari commissari europei tra cui la titolare degli Affari Interni Ylva Johannson, ma che non potranno tuttavia attingere ai finanziamenti UE, visto il netto no dell’esecutivo UE e della stessa von der Leyen alla proposta di ripagare con fondi europei questo tipo di barriere (perlomeno per ora), nonostante le pressioni dei governi e pure del presidente del Consiglio europeo Charles Michel in senso contrario.

Varsavia (che nonostante la situazione critica per lunghe settimane non ha europeizzato la vicenda, tergiversando sul sostegno di Frontex) è in prima linea sul fronte della crisi. E questo può contribuire anche a dare una nuova cornice alla postura europea dei polacchi; dato non trascurabile in un momento in cui il governo degli ultraconservatori del PiS vuole uscire dallo stato di “paria” tra i Ventisette acquisito con il protrarsi dello scontro sullo stato di diritto e soprattutto sull’indipendenza della magistratura. La ricerca di validazione europea per l’ennesima porta in faccia a solidarietà e accoglienza – complice il confine sfocato tra crisi geopolitica e migratoria – lancia un assist pure a Budapest: il premier Viktor Orbán, saldo alleato dei polacchi, ne approfitta per chiedere a Bruxelles di estendere la tolleranza praticata con la Polonia e mandare in soffitta la procedura di infrazione aperta contro l’Ungheria per i respingimenti alla frontiera.

Eppure, alle stesse latitudini – come ha fatto notare con lucidità Andrew Connelly su Foreign Policy – non tutti i richiedenti asilo sono uguali. E il paradosso è presto servito. Polonia e Lituania in particolare, infatti, sono protagoniste di un deciso attivismo diplomatico per concedere l’asilo agli esponenti dell’opposizione bielorussa in esilio, compresa la leader di fatto Svetlana Tsikhanouskaya.

È il cortocircuito che si realizza in Europa quando dossier esplosivi e complessi si incrociano e sovrappongono: dalla competizione strategica con Mosca alla politica UE sulle migrazioni, passando per l’agenda sullo stato di diritto a est. Il rischio ipocrisia, come ha messo di recente in guardia il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è però dietro l’angolo.

 

 

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