Il corto circuito tra etnicismo, esercito e democrazia nel Myanmar di Aung San Suu Kyi

Il primo pensiero, quando parliamo di Birmania, va alla popolazione Rohingya, la minoranza musulmana considerata dalle Nazioni Unite la più perseguitata al mondo. Uomini e donne costretti a scappare dalla loro terra e a subire violenze da parte di fondamentalisti buddisti e dell’esercito regolare. Un esodo, quello di questo gruppo etnico, che solo dall’agosto 2017 ha portato circa 800 mila persone a fuggire verso ovest, nel confinante Bangladesh. E mentre i media sono concentrati su di loro, sulla loro storia tragica, fatta di abusi e di ingiustizie, di stupri e di morte, in Myanmar – ribattezzato così dalla giunta militare nel 1989 – anche altri gravi conflitti, che durano da decenni, colpiscono in silenzio gran parte delle popolazioni che compongono il complesso mosaico etnico del Paese.

Le ragioni sono soprattutto economiche. Parliamo, infatti, di zone ricche di risorse naturali e dotate di altissimo potenziale di mercato: non è un caso che è proprio nelle zone etniche che si concentrano i maggiori progetti ed interessi.

In questo momento ad essere vittime della violenza, oltre ai più noti Rohingya, sono in particolare i Karen e i Kachin, perseguitati da quasi settant’anni: prima dalla sanguinaria dittatura del generale Ne Win, al comando per ventisei anni, fino al novembre del 1981, poi da Than Shwe, padre-padrone della Birmania fino al 2011. E ancora oggi da quei vecchi militari che – in teoria, con l’arrivo ai più alti gradi del potere della leader del movimento non violento Aung San Suu Kyi – avrebbero dovuto appendere al chiodo armi e divise e andare in pensione. Così non è stato.

La Consigliera di Stato del Myanmar Aung San Suu Kyi

 

Secondo i governi occidentali, la situazione sarebbe dovuta cambiare definitivamente alla fine del 2015, con la vittoria alle elezioni della National League for Democracy (Nld), il partito guidato appunto dalla Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi. L’inizio di questa fantomatica transizione democratica avrebbe dovuto iniziare già nel 2012, ma l’unico vero cambiamento che si è registrato è stata l’apertura del Paese agli investitori stranieri, con l’obbiettivo di rilanciare la crescita economica e il processo di industrializzazione. Anche questo processo, tuttavia, avviene a discapito delle minoranze.

L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, pubblicato a fine agosto, parla di sistematiche violenze contro civili, donne e bambini in diverse zone della Birmania. Il documento – più di 400 pagine, redatte dopo quindici mesi di indagini e quasi 900 interviste – mostra una situazione praticamente identica a quando la dittatura militare era al potere. «Durante le operazioni delle truppe birmane sono stati commessi aggressioni indiscriminati, rapimenti, espropri di terreno e stupri», ha spiegato Marzuki Darusman, presidente della missione dell’Onu. «Le violenze sessuali sono state usate come parte di una strategia deliberata per intimidire, terrorizzare e punire la popolazione civile e sono state commesse come una precisa tattica di guerra», ha aggiunto.

Tutto questo succede nel silenzio inatteso, e complice, della Nobel per la Pace che, invece di condannare la situazione, ha difeso gli arresti dei giornalisti di Reuters Kyaw Soe Oo e Wa Lone, accusati di avere violato alcuni segreti di Stato per una loro inchiesta sulle atrocità condotte proprio contro la popolazione dei Rohingya, sostenendo che la condanna non ha nulla a che fare con la libertà di espressione e che i due avrebbero infranto la legge. In realtà la storia sembra essere ben diversa: i giornalisti sarebbero stati incastrati proprio da alcuni ufficiali di polizia, perché considerati scomodi.

Il problema principale è che nei fatti la Birmania è ancora sotto scacco dei generali che hanno controllato il Paese per decenni. La carta  costituzionale, infatti, non solo riserva ai militari il 25% dei seggi parlamentari indipendentemente dall’esito delle elezioni, ma permette loro di controllare anche il ministero degli Interni, quello della Difesa e quello per gli Affari di confine. Quest’ultimo – non è una casualità – è proprio l’organismo che si occupa delle zone abitate dalle diverse etnie. La vecchia giunta, inoltre, è parte del “Consiglio per la difesa e la sicurezza nazionale” che in qualsiasi momento può bloccare o modificare le leggi considerate pericolose per l’unità e la sicurezza del Paese, con la possibilità di assumere il totale controllo qualora l’integrità della Birmania venisse in qualche modo minacciata.

Secondo Zachary Abuza, professore al National War College di Washington ed esperto di sud-est asiatico, la colpa di questa situazione è da attribuire ai governi occidentali. «È probabile che in passato l’Occidente abbia semplicemente sbagliato a giudicare Aung San Suu Kyi. Si è vista in lei una vedova, costretta agli arresti domiciliari, nel più totale isolamento, da parte di uno dei più violenti regimi militari del mondo. Nel suo eloquente inglese, ha potuto parlare la lingua che i politici e gli attivisti per i diritti umani volevano sentire. E così è stata mitizzata», spiega l’analista. «Il suo silenzio sul massacro dei Rohingya e quello sui conflitti con i gruppi etnici, non dovrebbe sorprendere più di tanto. Lei, infatti, è comunque una sciovinista di etnia Bamar – l’etnia principale del Paese, ndr – e una devota buddista. E se è vero che la Costituzione attuale le è sicuramente contro e l’esercito ha ancora molto potere, non bisogna dimenticarci che detiene la maggioranza parlamentare e che potrebbe esercitare delle pressioni».

Quando si mette un personaggio su un piedistallo, il rischio che caschi è altissimo. Ed è quello che, per ora, sta succedendo con Aung San Suu Kyi, la «Signora della democrazia», che tanto democratica non sembra essere più.

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