La guerra civile siriana getta una nuova luce sul rapporto fra il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) e le emergenze politiche del Mediterraneo e Medio Oriente. Se ne possono trarre regolarità e differenze nell’approccio dei paesi membri (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar) ai vari teatri di crisi. I focolai di dissenso interno nella Penisola arabica e i tumulti nel resto della regione vengono infatti affrontati in maniera diversa; da qui è possibile sviluppare una prima riflessione: il CCG si sta rivelando oggi uno strumento di “gestione dell’ordine pubblico” nei paesi arabici. Davanti alla sollevazione sciita in Bahrein, alla rivolta anti-regime in Yemen e ai sit-in per le riforme in Oman, il CCG si è infatti allineato alle posizioni dell’Arabia Saudita, intervenuta nei tre scenari con modalità diverse (militare, politica, finanziaria).
Rispetto alle crisi regionali (Siria, Egitto), le monarchie del Consiglio – seppur all’interno di una cornice politica condivisa – prediligono invece un approccio diplomatico bilaterale, che spesso sfocia in una competizione intra-sunnita fra l’Arabia Saudita e il Qatar. La disputa fra Riyād e Doha in seno al Consiglio Nazionale Siriano (CNS) mette a nudo tale rivalità, acuitasi da quando il principe saudita Bandar bin Sultan al-Sa‛ud si occupa personalmente dell’aiuto materiale alle opposizioni. Non un gioco delle parti, come poteva apparire nelle prime fasi del conflitto di Damasco, ma una partita reale, per guadagnare influenza oltre la Penisola e, nel caso del Qatar, accrescere il proprio rango politico anche nello stesso CCG. Dopo l’elezione di Ahmad Assi Jarba alla guida del CNS lo scorso luglio, i sauditi stanno riequilibrando i rapporti di forza interni a loro favore, a discapito di Doha e del gruppo della Fratellanza musulmana da essa sostenuto: non è un caso che la vittoria del filo-saudita sia coincisa con le dimissioni del primo ministro ombra Ghassan Hitto, legato al piccolo emirato degli Al-Thani. Jarba è un siriano della regione orientale di Al-Hasakah e appartiene alla ramificata confederazione tribale degli Shammar (tra il 1700 e il 1800 clan beduini migrarono proprio dall’Arabia verso le fertili pianure siriane della Jazira e della Badia). Soprattutto, l’attuale presidente del CNS ha un canale di dialogo diretto con Bandar bin Sultan al-Sa‘ud, il capo dell’intelligence saudita. Dapprima intenzionato a rafforzare le componenti alternative all’Islam politico (come quella afferente a Michel Kilo) per depotenziare la corrente degli ikhwan all’interno del Consiglio, il principe ha poi deciso di finanziare ed equipaggiare direttamente le milizie ribelli mediante il corridoio giordano – a discapito dell’accuratezza nella scelta dei destinatari, spesso jihadisti legati ad Al-Qaeda. E pensare che molti Fratelli siriani, durante gli anni della repressione di Hafez al-Assad culminati con la strage di Hama (1982), trovarono invece rifugio nel regno wahhabita.
Una seconda riflessione lega la questione iraniana: i paesi membri del CCG hanno declinato la medesima posizione politica con toni assai differenti. Arabia Saudita, Bahrein (impegnato a soffocare la protesta della maggioranza sciita) ed Emirati Arabi Uniti (di fronte al quartier generale navale iraniano di Bandar-e ‘Abbas) hanno insistito nella retorica anti-Iran e spinto per un intervento militare contro il regime alawita. Il Qatar ha invece mantenuto, a parole, un profilo più basso: Doha ha evitato proclami diretti contro Teheran, anche se i rapporti fra i due vicini si sono logorati quando l’ambizioso emirato si è allineato a Riyād e a Washington sulla questione nucleare, scegliendo inoltre di finanziare la galassia dell’opposizione sunnita in Siria in contrapposizione all’influenza iraniana. Oman e Kuwait, complice forse una cospicua comunità sciita ben integrata nei rispettivi tessuti economico-sociali, si sono dimostrati più aperti nei confronti della repubblica islamica e del neopresidente Rohani in particolare. Il sultano Qaboos bin al-Said, tradizionale mediatore fra USA e Iran, si è recato a Teheran in agosto per incontrare sia il presidente che il rahbar (la Guida suprema); una visita che ha alimentato le voci – seppure in quella fase smentite – di un negoziato indiretto fra statunitensi e iraniani. Il primo ministro del Kuwait, a margine del giuramento presidenziale di Rohani, ha auspicato una maggiore collaborazione, anche commerciale, fra i due paesi; l’incontro ha contribuito a rasserenare il clima bilaterale, dopo che la magistratura kuwaitiana aveva condannato, a maggio, una presunta cellula di spionaggio iraniana attiva nell’emirato.
La terza riflessione attiene al rapporto fra identità e proiezione esterna. Nonostante l’esistenza di un’identità condivisa fra le monarchie della Penisola arabica, riconoscibile proprio grazie all’esperimento di collaborazione multilaterale del Consiglio, la politica estera e di difesa dei paesi membri del CCG continua a essere intessuta dai singoli e non dall’organismo sub-regionale. Nella vita politica del Consiglio di Cooperazione del Golfo prevale la più classica Realpolitik, per cui in ultima analisi gli Stati agiscono per perseguire i propri interessi a prescindere dalle affinità culturali e dalle identità comuni. Forse la politica estera, ossia il dominio più sensibile per la sovranità statuale, è quello in cui il CCG ha meno voluto fare sintesi tra interessi nazionali e solidarietà identitaria.
Osservando a posteriori le rivolte arabe iniziate nel 2011, la “minaccia Iran” è stata fin qui politicamente utile per i paesi della Penisola arabica. In particolare, l’Arabia Saudita ha esasperato la dicotomia sciismo-sunnismo per coprire il proprio disegno egemonico, in termini di soft power sunnita, nella regione. Tale artifizio ha permesso – sul piano internazionale – di rivitalizzare l’alleanza con Washington, security provider esterno ormai riluttante a una presenza politicamente impegnativa nel Golfo; sul piano interno Riyād è riuscita, sempre agitando lo spettro iraniano, a contenere e insieme a delegittimare le proteste sciite nella Penisola, rimandando o diluendo le riforme richieste. Ecco perché, nel giro di pochi giorni, la storica telefonata fra Obama e Rohani e l’accordo in Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla distruzione delle armi chimiche siriane hanno spiazzato gli Al-Sa‘ud (oltre che Israele): per sottolineare la sua irritazione, Riyād ha persino rinunciato a far parlare il suo rappresentante davanti all’Assemblea Generale dell’ONU. Grazie a questi sviluppi, un attacco militare a guida statunitense in Siria viene, nell’immediato, scongiurato mentre i sauditi lo auspicavano: il flusso di armi ai ribelli si era intensificato già dalla fine di agosto, proprio per consentire al variegato fronte anti-Assad di riguadagnare terreno prima dell’intervento americano. In più, il vettore del settarismo potrebbe divenire un’arma spuntata, dal momento che il volto del nemico iraniano si è fatto meno minaccioso e dunque meno spendibile nella propaganda a uso interno.
Il Consiglio di Cooperazione del Golfo (non a caso, nato proprio come alleanza difensiva in chiave anti-Teheran nel 1981, cioè all’indomani della rivoluzione islamica) sembra aver in effetti cristallizzato la percezione della “minaccia” esterna iraniana, mediante l’equazione “sciismo uguale Iran”; una scorciatoia propagandistica che è stata finora efficace ma che rischia di trasformarsi in un boomerang nel lungo periodo. E anche se la svolta annunciata dal neopresidente Rohani costituisse solo un ammorbidimento tattico, concordato con il rahbar ‛Ali Khamenei, per far uscire il paese dall’angolo politico e dalla profonda crisi economica in cui versa, ciò rappresenterebbe comunque un’insidia per le vicine monarchie sunnite.
Intanto, il fronte siriano rischia di consegnare a Riyād l’esito più temuto: un regime alawita ancora in sella e militarmente forte, insieme a un “buco nero” jihadista, a forte penetrazione qaedista, che si estende dalla Siria orientale alla regione irachena occidentale di Al-Anbar. Un collage di milizie del terrore in movimento, finanziate ed equipaggiate proprio dalla Penisola arabica. Per ironia della sorte, Bandar bin Sultan al-Sa‘ud fu l’uomo che, negli anni ottanta, aiutò la CIA a finanziare e armare i mujaheddin afgani contro i sovietici, alimentando così quella spirale terroristica che poi colpì sia gli statunitensi che i sauditi stessi. Forse, a Riyād non resta che sperare negli ultra-conservatori iraniani, ossia nella capacità d’interdizione dei pasdaran e di Khamenei, in grado di condizionare – dall’interno – le mosse di politica estera di Hassan Rohani.