Qualunque sarà il futuro della globalizzazione, nel suo articolarsi fra rotte commerciali, una moneta per gli scambi, una lingua per la comunicazione e soprattutto un ordine politico, è chiaro a tutti che Internet sarà il medium attraverso il quale questo futuro diventerà intellegibile. Ciò per la semplice circostanza che ormai la rete incorpora praticamente qualunque rappresentazione della nostra vita.
La lunga marcia della rete
Il cloud è diventato la levatrice di una realtà virtuale che minaccia di essere più reale di quella che siamo abituati a contemplare con le nostre categorie figlie della filosofia settecentesca. Questa Grande Trasformazione inquieta i poteri costituiti almeno quanto li seduce, perché vedono nelle opportunità del cloud la premessa di un nuovo ordine sociale. Una fusione fra i vecchi poteri “analogici” e i poteri emergenti, rappresentati dai giganti di Internet, che ormai per la loro potenza e indipendenza somigliano a nazioni digitali, potrebbe dare vita a un nuovo assolutismo, assai più cogente di quello che dominò l’Europa nel Seicento.
Tutto ciò spiega perché sia rilevante osservare da vicino il movimento sotterraneo e silenzioso che sta decidendo il futuro della rete globale. Un confronto che si fa sempre più serrato e che già fra pochi mesi potrebbe condurre a novità rilevanti. Il prossimo marzo, infatti, a Hyderabad, in India, si svolgerà la World Telecommunication Standardization Assembly: ogni quattro anni l’ITU, l’agenzia che opera in seno all’ONU col compito di fissare gli standard internazionali per le telecomunicazioni, organizza questo appuntamento, già teatro in passato di importanti eventi che hanno contribuito a delineare la contrapposizione fra due diverse visioni della rete con implicazioni profondamente differenti sul futuro di tutti noi.
Dal “giorno zero” di Internet, nell’ottobre del 1969, quando il primo messaggio informatico venne inviato da un computer di una università americana a un altro, la rete ha conosciuto un’evoluzione vertiginosa. I computer delle università finirono collegati all’Advance Research Projects Agency (ARPA), che nel 1972 divenne il DARPA, ente di ricerca per il Dipartimento della difesa USA. Per il ventennio successivo Internet rimase sotto il controllo del governo federale, fino a quando, agli inizi degli anni ’90, la rete non fu aperta al settore privato. Ciò diede spazio a una serie di istanze vagamente utopistiche e libertarie che ancora oggi vivacchiano ai margini della rete, dopo aver celebrato la propria epifania con la creazione dei bitcoin nel 2008.
Quei tempi generarono un modello di governance della rete, che ancora in larga parte vale anche oggi, fondato su molti portatori di interessi. Una governance multi-stakeholder che si basa sul concerto di diversi organismi della società civile. Si tratta di entità poco note alle cronache non specialistiche, come ad esempio l’Internet Engineering Task Force (IETF), l’Internet Architecture Board (IAB), l’Internet Society (ISOC), e poi l’ICANN, (l’Internet Corporation for Assigned Names and Numbers) uno dei luoghi più strategici dove i vari interessi arrivavano a composizione.
L’ICANN nasce nel 1998 in California come società no-profit, sponsorizzata dal governo americano. Non più però dal Dipartimento della Difesa, ma da quello del Commercio. Serve a garantire l’unicità del nome di un dominio e la sua praticabilità. Assegna i nomi dei domini di primo livello (Top Level Domain, TLD) che generano i vari suffissi (.org, .com, eccetera), e poi gestisce l’assegnazione dei root name server, ossia dei server che consentono di raggiungere il dominio desiderato. ICANN, infine, regola l’assegnazione dei blocchi di indirizzi IP (Internet protocol) che servono a identificare sulla rete i dispositivi collegati.
Ma dietro i compiti tecnici è facile individuare molta discrezionalità politica. Come è stato opportunamente ricordato, c’è molto di politico quando siamo chiamati a decidere se il dominio united.com sia da assegnare alla United Airlines, alla United Emirates Airlines, o al Manchester United. E la decisione spetta a ICANN, al quale si rivolse un tribunale americano quando chiese di sottrarre per ritorsione all’Iran il suffisso “.ir” dopo un attentato a Gerusalemme che Teheran supportò.
Internet: chi decide?
ICANN fu creato per interporre uno schermo tecnico fra il governo degli Stati Uniti e Internet, ma divenne subito chiaro che lo schermo era troppo trasparente. E tuttavia rimase tutto immutato fino al 2016, quando la National Telecommunication and Information Administration, che fa riferimento al dipartimento del Commercio statunitense, cessò la sua influenza sull’ICANN. Ma non fu certo un atto di liberalità. Piuttosto la conseguenza di una catastrofe. Che ovviamente passava da Internet.
La rete infatti nel frattempo era finita all’attenzione di molte economie emergenti – i BRICS dei primi anni Duemila – che molto rapidamente fecero capire di soffrire l’egemonia statunitense, compresa quella su Internet. Fu proprio sulla governance della rete globale che Cina e Russia siglarono la prima entente cordiale cogliendo l’occasione della World Conference on International Telecommunications (WCIT) chiusa a Dubai il 14 dicembre del 2012. La conferenza dell’ITU aveva come obiettivo di ridefinire il regolamento delle telecomunicazioni internazionali (ITR), che risaliva al 1988, quando ancora Internet in pratica non c’era. Si fece avanti una coalizione di paesi, guidata da Russia e Cina col proposito di definire un ruolo maggiore dello Stato nella governance di Internet. A questa visione si oppose quella di un secondo gruppo che voleva mantenere lo status quo, con dentro gli Stati Uniti e i loro alleati. La globalizzazione emergente faceva capolino nel mondo delle telecomunicazioni, provando a “spiazzare” gli attuali controllori. La frattura non si ricompose. Si formarono due blocchi: 89 stati d’accordo con Russia e Cina, 55 con gli USA.
La coalizione guidata da Russia e Cina aveva proposto che fosse l’ITU a prendere il posto dell’ICANN nella gestione di Internet. Un modo neanche troppo velato per spostarsi da un modello multi-stakeholder a un modello multi-statale, o multilaterale che dir si voglia, per giunta in un contesto – l’ONU appunto – dove Russia e Cina dispongono di un notevole potere di interdizione.
Da questa situazione di stallo si generò una notevole turbolenza un anno dopo, quando sulle cronache esplose il caso Snowden. La notizia che l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale statunitense spiava mezzo mondo investì come una valanga Washington e costrinse il governo a rivedere le regole del gioco. Lo stesso anno a Montevideo i rappresentati di ICANN e di altre organizzazioni a capo della governance della rete si dissero favorevoli alla condivisione della governance a livello globale. Le elaborazioni durarono un triennio, alla fine del quale il governo degli Stati Uniti completò la sua separazione da ICANN, rinunciando così, almeno formalmente, ad esercitare la sua egemonia su Internet.
Ma poiché la natura ha orrore del vuoto, le forze, già ben sviluppate della globalizzazione emergente trovarono facilmente lo spazio per esprimere la tendenza a “regionalizzare” il controllo della rete. Per farlo si tirò in ballo la madre di ogni pretesto: la sicurezza. Gli Stati volevano “blindare” i propri territori proteggendoli dalle “incursioni” estere. E lo fecero.
L’esempio più noto è forse il Great Firewall cinese, che in pratica “isola” il paese dal resto del mondo a discrezione del governo. Ma non è l’unico. Gli osservatori raccontano che ad esempio nei primi sei mesi del 2017 Google, Facebook e Twitter hanno ricevuto 114.169 richieste di rimozione di contenuti da 78 stati e 179.180 richieste di informazioni su utenti da altri 110 governi. E’ emersa anche la tendenza a segmentare le infrastrutture. La proposta cinese chiamata “DNS extension for autonomous Internet”, che si proponeva di “regionalizzare” i domini di primo livello (i TLD), togliendo questo compito all’ICANN, andava in questa direzione. Ne sarebbe conseguita la frammentazione dell’infrastruttura. Non è stata accettata, ma il tentativo è stato compiuto.
Queste memorie servono a comprendere meglio gli scenari che si agitano in vista del meeting indiano dell’ITU del prossimo marzo. Il confronto fra governance multi-stakeholder (degli interessi) e governance multilaterale (degli Stati) si è infatti radicalizzato. Perciò l’ITU, a guida cinese ormai da diversi anni, è divenuto così rilevante. Il segretario generale, Houlin Zhao, vuole trasformarlo in “agenzia tecnologica”, ossia un contenitore ampio abbastanza da ospitare dibattiti impegnativi come quello proposto l’anno scorso da Huawei, che proprio qui inviò la proposta per disegnare una nuova architettura dell’IP che avrebbe riscosso l’interesse dei russi, dell’Arabia Saudita e di molti paesi africani mentre scatenava le proteste da parte dell’Internet society.
Per inquadrare i termini della questione bisogna ricordare che i dati vengono trasmessi attraverso la rete Internet sulla base di un protocollo che si chiama TCP/IP, dove TCP sta per “Transmission Control Protocol” e IP sta per “Internet protocol”. Le informazioni che compongono un file vengono suddivise in pacchetti che vengono indirizzati verso la macchina destinataria tramite un indirizzo IP, che quindi consente di identificare il destinatario finale. Per questo molti temono che la proposta cinese sia un espediente per aumentare il livello di controllo della rete.
Il campo di battaglia alle Nazioni Unite
Vero o falso che sia, il punto saliente è che l’ONU, anche probabilmente grazie a un certo lavorio diplomatico da parte dei cinesi, sia divenuto una sorta di camera di compensazione delle istanze nazionali sul futuro di Internet. Il focus della governance si sta spostando da un ambiente formalmente a-governativo a un forum intergovernativo. Quando la Cina dice di voler favorire il multilateralismo, vuole dire anche questo.
L’intento è chiaramente rappresentato anche dall’ampio lavoro che Pechino sta compiendo, sempre in sede ONU, per contribuire alla fissazione degli standard internazionali, che fa parte del suo più ampio piano Standard China 2035, derivazione del Made in China 2025. Gli standard decidono i requisiti dei prodotti che l’industria propone al mercato. Sono un componente fondamentale di ogni globalizzazione e vengono definiti presso diverse organizzazioni internazionali. Il 3GPP, ad esempio, è un sottogruppo dell’ITU che ha il compito di produrre specifiche tecniche per le tecnologie wireless, fra le quali il 5G, dove la Cina ha primeggiato proprio grazie a una politica molto attiva suscitando parecchi allarmi fra gli osservatori.
Il rapporto del 2020 della Cyberspace Solarium Commission, organismo governativo statunitense incaricato di elaborare una strategia per la difesa del cyberspazio dagli attacchi ostili, dedica un ampio spazio alla crescente influenza cinese nella fissazione degli standard internazionali. Il timore è che Cina e Russia, approfittando dell’apparente disimpegno statunitense presso gli organismi internazionali, stiano provando a costruire le nuove regole del gioco globale della rete. Melanie Hart, ricercatrice del China Policy Center for American progress, lo ha detto chiaramente nel corso di un’audizione presso la China Economic and Security Review commission nel marzo del 2020. “Il sistema delle Nazioni Unite è sia l’obiettivo principale che la piattaforma principale per la spinta alla riforma della governance globale di Pechino”, dice. “Sfortunatamente, mentre la Cina intensifica i suoi sforzi per minare i principi democratici liberali in tutto il sistema delle Nazioni Unite e aumentarli o sostituirli con quelli autoritari, gli Stati Uniti si stanno tirando indietro, cedendo il terreno e fornendo il massimo spazio di manovra alla Cina per raggiungere i suoi obiettivi”.
La Cina, ad esempio, è stata molto attiva all’interno delle commissioni tecniche sul 5G. Huawei ha primeggiato, con oltre 19.000 contributi e oltre 3.000 ingegneri inviati alla fissazione dei processi di standardizzazione di questa tecnologia. Fra le imprese americane, Qualcomm ha prodotto 5.994 contributi e inviato 1.701 ingegneri e Intel ha offerto 3.656 contributi tecnici e inviato 1.259 ingegneri. Huawei ha avuto approvati 5.855 contributi, che sono entrati a far parte dello standard 5G, a fronte dei 1.994 di Qualcomm e i 962 di Intel. La conseguenza è che l’azienda cinese si stima detenga il 36% dei brevetti essenziali per lo standard globale del 5G e gli USA solo il 14%.
Da qui la preoccupazione espressa nel rapporto: “Al crescere dell’influenza della tecnologia cinese nell’informare gli standard internazionali, crescono anche i valori e le policy che accompagnano la visione di Pechino per l’uso di queste tecnologie. La Cina sta scrivendo un futuro digitale di tecnologie proprietarie nella quali la “sorveglianza progettata” può facilmente essere quella di default”. Le tecnologie, checché se ne dica, non sono mai neutre sullo sviluppo di una società, come scriveva Marshall McLuhan negli anni in cui nasceva Internet.
Sorveglianza e supremazia
I timori statunitensi forse derivano dalla paura di perdere la supremazia. Ma dovremmo chiederci cosa succederebbe se avessero ragione. Soprattutto dobbiamo ricordare che questa trasformazione tecnologica, irrefrenabile e profonda, si coniuga con lo sviluppo delle grandi piattaforme hi-tech, che sono macchine per la produzione di dati personali e quindi merce pregiata per ogni governo. Il caso Didi, l’Uber cinese della quale Pechino ha vietato la quotazione all’estero con il pretesto che i dati raccolti dall’azienda sono un problema di sicurezza nazionale, la dice lunga su come i governi considerino le informazioni custodite nel ventre di queste compagnie. Ma se è ragionevole attendersi che la Cina sviluppi un modello tecnologico che sia coerente con la sua vocazione a forte guida pianificata, cosa farà l’Occidente?
Il tentativo cinese di spostare sui tavoli ONU la governance di Internet è un segnale dei tempi. Molte nazioni, anche fra i paesi avanzati, vogliono più potere sulla rete, non solo perché è uno strumento di controllo molto potente, ma anche perché hanno capito che le grandi piattaforme – nate e cresciute nel cloud – sono capaci di sottrarsi al loro controllo e acquisire autonomia politica.
La partita è in corso e l’esito dipenderà molto da ciò che faranno gli Stati Uniti. Per loro si profila un dilemma molto difficile: favorire l’istanza multilaterale promossa dalla Cina, e quindi implicitamente cedere supremazia digitale internazionale guadagnando però sovranità territoriale nazionali nei confronti delle proprie grandi e incontrollabili piattaforme. Oppure l’istanza multi-stakeholder, quella che premia i portatori di interessi del mondo digitale, dunque i colossi hi-tech, rischiando però così di aumentare ancora il power shift dal territorio al cloud. Questo mentre la Cina sembra comunque intenzionata a perseguire una fusione fra nazione territoriale e digitale che per il suo peso specifico rischia di cambiare significativamente le regole del gioco globale.
Che sia una questione di non facile soluzione, lo illustra bene anche un recente paper pubblicato da alcuni studiosi giapponesi che muta il dilemma sul futuro di Internet in “trilemma”, prendendo a prestito quello reso celebre da Dani Rodrik fra Democrazia, Sovranità e Globalizzazione. Ognuno di questi concetti viene collegato a una diversa entità politica: la tendenza democratica appartiene agli Stati Uniti, che hanno impostato una piattaforma aperta; quella che privilegia la Sovranità a un gruppo di paesi, alla testa dei quali si è messa la Cina; quella che privilegia la globalizzazione fa riferimento ai colossi dell’hi-tech che provengono da entrambi i paesi e che il progresso tecnologico ha trasformato sostanzialmente in entità concorrenti agli stati nazionali.
Il paper evidenzia come guardare ai problemi del futuro di Internet come a una semplice risultante del confronto fra Stati Uniti e Cina rischia di essere alquanto riduttivo e per giunta poco realistico, visto che l’ingresso delle grandi compagnie tecnologiche ha aggiunto un elemento di notevole complessità al quadro analitico. Inoltre, ai margini del trilemma vivono e operano anche numerosi corpi intermedi – si pensi ad esempio all’ONU e alle sue agenzie – che pure se non hanno abbastanza massa critica da risultare determinanti, mantengono comunque un notevole potere di influenza.
Tra governance ed egemonia
Immaginare il futuro di Internet come l’esito di uno scontro di potere fra Washington e Pechino, da questo punto di vista, non è più probabile della circostanza opposta. Per dirla con le parole dei due studiosi giapponesi, “chi vede probabile uno scontro fra Stati Uniti e Cina non sembra considerare la possibilità che i due stati possano raggiungere un accordo”. Questa intesa potrebbe essere siglata proprio a spese dei colossi del digitale, che peraltro i cinesi sembrano tollerare sempre meno.
E’ in questa coincidenza – o competizione – di interessi che si innesca il trilemma di Internet, il cui futuro ha molto a che vedere con chi sarà maggiormente capace di “catturare” i dati che viaggiano dentro la rete.
“Il potere nel cyberspazio – ricordano gli studiosi giapponesi – è l’abilità di avere accesso a dati e influenzare il comportamento di altri. Chiunque controlli il cyberspazio è lo stesso che ha accesso al numero maggiore di dati”. Parliamo quindi dell’egemonia, né più né meno.
Se questa è la posta in gioco, è chiaro che le vecchie categorie interpretative del confronto fra Stati non sono più in grado di “leggere” la realtà. Agli attori tradizionali si sono aggiunti attori “non territoriali”. E questi tre attori – USA, Cina e imprese digitali, spingono ognuno per far prevalere le proprie posizioni. L’auspicio dei ricercatori è che la democrazia e la globalizzazione – quindi l’ordine basato sulla collaborazione fra Usa e compagnie di Internet che ha funzionato finora – continui a caratterizzare Internet.
Ma sarebbe errato sottovalutare il “richiamo della foresta” che promana dall’istinto territoriale collegato all’esigenza della sovranità degli stati “analogici”. “Sta diventando chiaro che il Regno Unito e gli Stati Uniti stanno cercando una forma democratica di cyberspazio che metta in sicurezza di diritti sovrani degli Stati”, avvertono i due studiosi. Una deriva cinese, insomma, ma all’occidentale. Mentre altre nazioni come “Giappone, Paesi Bassi e Singapore lavorano per un cyberspazio democratico con inter-operatività globale”. Difficile al momento capire come si muoverà l’Unione Europea, mentre rimane ancora avvolta nel mistero la strategia che useranno le imprese digitali, ammesso ovviamente che ne abbiano una, per difendere la loro posizione.
Comunque si risolverà questo trilemma, una cosa risulta chiara. Si sta combattendo una guerra sotterranea per il controllo dei dati nel mondo di domani. Noi siamo gli originatori di questi dati. Quindi quei dati siamo noi.
Detto diversamente, la risoluzione del trilemma sembra destinata a configurare l’ordine politico del XXI secolo, ossia una delle costituenti della globalizzazione che verrà.
L’ipotesi di una convergenza fra Stati Uniti e Cina verso un sistema dove la tecnologia diventi uno strumento di controllo, prendendo a pretesto il rispetto delle prerogative nazionali ovviamente in nome della sicurezza, disegna la possibilità di uno scenario neo-assolutista che dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore le libertà civili. Non sembra probabile, ma è possibile. E tanto basta.