Il conflitto irrisolto tra Mosca e Kiev

Quello che stiamo vivendo è il quinto inverno di guerra per l’Ucraina. Un conflitto a bassa intensità apertosi nell’aprile del 2014 e i cui numeri sono via via diventati sempre più pesanti: 10.500 morti (3.500 dei quali civili), cui si aggiungono, secondo le stime dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, 25.000 feriti, 1 milione e mezzo di sfollati interni, 950.000 profughi che hanno abbandonato un paese passato, nel giro di cinque anni, dal sogno europeo al quasi totale isolamento internazionale. E’ eloquente il dato relativo al prodotto interno lordo di Kiev, che dai 183,3 miliardi di dollari del 2013, record storico per la repubblica ex sovietica, è crollato fino ai 91,3 miliardi del 2015. Sebbene sia  poi risalito lievemente, nel 2017, a 112 miliardi, il ritorno alle promesse di crescita pre-belliche sembra ancora un miraggio per l’Ucraina.

Il caso delle tre navi militari ucraine sequestrate dalla marina russa lo scorso 25 novembre ha riacceso i riflettori sul braccio di ferro tra Russia e Ucraina. Secondo quanto ricostruito, il rimorchiatore Yani Kapu e le lance di artiglieria Berdyansk e Nikopol, partiti dal porto ucraino di Odessa alla volta di Mariupol, dopo essere state speronate e attaccate dalle navi russe, e vistesi negato l’accesso al mar d’Azov, sono state bloccate in acque internazionali, 23 chilometri a sud dalla costa della Crimea, mentre rientravano verso il Mar Nero. I ventiquattro membri dell’equipaggio ucraino, sei dei quali feriti dal fuoco russo, sono stati fermati e trasferiti a Mosca, accusati di non aver rispettato la procedura ufficiale per l’ingresso nello stretto di Kerch (secondo cui l’autorità portuale deve essere avvisata fra le 48 e le 24 ore precedenti il passaggio).

Il rapporto ufficiale pubblicato dall’FSB, il servizio segreto della Federazione Russa, accusa le navi ucraine di aver intenzionalmente ignorato le istruzioni russe, con l’obiettivo di provocare un incidente internazionale. Secondo Vladimir Putin, l’incidente sarebbe stato ricercato dagli ucraini: la sua risonanza internazionale dovrebbe accrescere la popolarità del presidente Petro Poroshenko con lo sguardo alle elezioni presidenziali che si terranno in Ucraina nel marzo del 2019. I sondaggi danno l’attuale presidente molto indietro nella corsa elettorale, staccato sia da Yulia Timoshenko, già premier ucraina dal 2007 al 2010, che da Volodymyr Zelensky, l’attore e regista sceso in campo con un nuovo partito, Servi del Popolo, nel marzo del 2018.

L’azione russa nel Mar d’Azov era in realtà ampiamente prevista. Dopo il completamento del ponte sullo stretto di Kerch, che dal maggio del 2018 collega la penisola di Tamam con la Crimea, si attendeva solo il momento nel quale la Russia avrebbe creato le condizioni per chiudere gli accessi e soffocare i porti mercantili ucraini di Berdyansk e Mariupol. Da quei porti dipende, in maniera cruciale, l’economia delle province frontaliere (oblast) di Donetsk e Dnipro, che esportano, proprio attraverso il Mar d’Azov, principalmente grano, ferro e acciaio. Già dal febbraio 2018 i media ucraini hanno segnalato un aumento delle ispezioni russe sulle navi civili da carico in arrivo e partenza dai porti di Mariupol e Berdyansk. Negli ultimi sei mesi, soprattutto, sono centinaia le navi trattenute dalle autorità occupanti russe, a volte anche per un’intera settimana, senza ragioni concrete.

Il Mar d’Azov e lo stretto di Kerch che lo separa dal Mar Nero

 

L’incremento graduale di ostacoli burocratici posti dalla Russia per le imbarcazioni che solcano il Mar d’Azov ha creato un effetto doppio. Da un lato, le merci di passaggio o destinate a quella regione sono ormai dirottate, sempre più spesso, verso i porti occidentali di Odessa e Yuzhny, da dove vengono trasportate, con un importante aumento dei costi complessivi e dei tempi, tramite rete ferroviaria. Dall’altro, il graduale ma inesorabile crescendo di azioni di disturbo attraverso cui la Russia ha imposto il suo controllo sul Mar d’Azov ha tenuto a distanza la stampa internazionale, facendo passare in secondo piano un dettaglio fondamentale di quanto sta accadendo nello stretto di Kerch: l’atteggiamento russo viola quanto sancito in un trattato bilaterale del 2003, ancora formalmente in atto e firmato da Russia e Ucraina, che dichiara come le acque del Mar d’Azov siano in condivisione fra i due paesi.

L’effetto diretto della stretta russa sul fronte settentrionale del Mar Nero è il collasso commerciale dei porti ucraini: i costi dei ritardi hanno portato gli armatori a disertare la rotta che attraversa lo stretto di Kerch. E la situazione sembra in peggioramento: secondo gli ultimi dati aggiornati a gennaio rilasciati dalle autorità portuali ucraine, il traffico commerciale nell’area è calato del 60%, con tutto ciò che ne consegue per la vita economica e sociale delle zone interessate.

La mossa compiuta da Mosca a fine novembre, oltre ad asfissiare un polo commerciale importantissimo per l’economia ucraina, aggiunge un altro tassello alla strategia di accerchiamento con cui Putin sta pian piano logorando il paese guidato da Petro Poroshenko. Con la definitiva stretta sul Mar d’Azov, l’Ucraina può infatti adesso essere attaccata da ogni fronte: da Kharkiv a Nord, dal Donbass a Est, dalla Crimea a Sud, dalla Trasnistria (i territori occupati di Moldavia) a Ovest.

Vulnerabilità del territorio ucraino (elaborazione da New York Times)

 

La crisi aperta dallo scontro tra la marina russa e quella ucraina nello Stretto di Kerch è inoltre, senza dubbio, l’evento militare più importante nel conflitto fra i due paesi dal 2014 ad oggi. Si tratta infatti della prima azione ufficiale portata avanti direttamente dal Cremlino, senza il coinvolgimento dei cosiddetti “volontari”, tramite cui la Russia sostiene le Repubbliche Popolari autodeterminate di Lugansk e Donetsk, nel Donbass.

Da questo punto di vista, il tempismo dell’azione russa non sembra assolutamente casuale. La sensazione, infatti, è che, a pochi mesi dalle elezioni presidenziali ucraine, Mosca stia aumentando la pressione con l’obiettivo di mandare l’Ucraina nel caos. Di fatto, lo svolgimento democratico e pacifico delle elezioni, in un paese economicamente in ginocchio e sotto l’enorme carico militare delle milizie indipendentiste, sarebbe uno smacco importante per Putin.  Per questo, ad esempio, la scelta del Parlamento ucraino di ridurre l’imposizione della legge marziale a un solo mese e limitatamente a dieci province, costituisce una vittoria importante per Kiev, che sta cercando in maniera disperata di mantenere alto il profilo istituzionale.

A dare una mano all’Ucraina è arrivato il fondamentale aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che ribaltando la decisione di un anno fa, quando sospese per corruzione il prestito garantito al governo di 17 miliardi e mezzo di dollari, ha riaperto verso l’Ucraina una linea di credito da 3,9 miliardi di dollari, vincolati alla creazione di una commissione indipendente anticorruzione e alla promessa, da parte del governo, di aumentare i prezzi del gas per la popolazione. Il programma dell’FMI è sviluppato su un periodo di 14 mesi e dovrebbe permettere all’Ucraina di mantenersi in equilibrio, soprattutto sul fronte delle spese militari e nella prospettiva, stimata dallo stesso Fondo Monetario Internazionale, di una crescita economica annuale, per il 2019, pari al 3,5%.

Un ruolo importante, nei prossimi mesi, lo giocherà la diplomazia internazionale, con l’Ucraina che dovrà lavorare pazientemente per ampliare la sua rete di alleanze ben oltre la solidarietà di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, vale a dire dei paesi che hanno accolto gran parte dei profughi ucraini fuggiti all’estero dal 2014. Poroshenko dovrà lavorare per approfondire il legame da un lato con la distratta Unione Europea, dall’altro con un’amministrazione statunitense la cui posizione, di fatto decisamente restia a criticare l’operato di Vladimir Putin, è stata confermata anche in occasione della crisi dello Stretto di Kerch: l’invio nell’area delle due navi militari USS Donald Cook e USS Fort McHenry, che da gennaio sono impegnate nel Mar Nero, ufficialmente per garantire la stabilità marittima nell’ambito dell’alleanza NATO, appare più una mossa dovuta, che una reale minaccia militare alla Russia.

Nonostante questo, se difficilmente l’azione russa nel Mar d’Azov porterà a nuove sanzioni da parte UE verso il Cremlino, renderà quantomeno arduo il tentativo, (che tra l’altro è stato più volte dichiarato fra gli obiettivi del governo italiano, in particolare dal vicepremier Matteo Salvini) di ridurle. Una buona notizia per un’Ucraina che, mai come adesso, ha bisogno di stabilità per mantenere in piedi un sistema democratico – per quanto carico di inefficienze, endemicamente oligarchico e non del tutto trasparente – rimasto unico e ultimo baluardo difensivo contro l’esplosione di un conflitto su larga scala.

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