“Gertrude d’Arabia, la donna che ha inventato l’Iraq”. Questo il titolo di un recente articolo pubblicato da Clive Irving su The Daily Beast. Si tratta dell’ultimo di una lunga serie di pubblicazioni – giornalistiche e accademiche – che in tempi recenti hanno associato la guerra civile in corso nel Paese all’invenzione di una nazione irachena per mano di Gertrude Bell e di una ristretta cerchia di personalità britanniche.
Tale ricostruzione storica è abitualmente accompagnata da un secondo assunto non meno diffuso: l’Iraq e più in generale gran parte del Mediterraneo orientale sarebbero alle prese con un conflitto millenario che affonda le radici nella frattura tra sunniti e sciiti innescatasi nel 680 d.C., quando Al-Husayn ibn Ali, cugino e genero del profeta Maometto, venne ucciso a Karbala, città del moderno Iraq.
Entrambe le tesi, per alcuni versi due facce della stessa medaglia, non tengono conto di una serie di aspetti rilevanti e rischiano di incanalare i dibattiti in corso su binari controproducenti.
Si fa spesso riferimento alle responsabilità storiche dell’accordo Sykes-Picot, stipulato da Francia e Gran Bretagna nel 1916 nella fase di implosione dell’Impero ottomano: l’accordo ha in effetti creato un sistema geopolitico artificioso, ma ancor prima ha posticipato la formazione di un nuovo ordine plasmato dall’interno. Più che associare ciò che sta avvenendo oggi in Medio Oriente alla fine dell’ordine imposto da Sykes-Picot, sarebbe dunque più accurato far riferimento al venir meno di una “impasse storica” protrattasi per quasi un secolo.
L’Europa ha impiegato oltre un millennio e mezzo per venire a capo della crisi sociale, politica e culturale seguita all’implosione dell’Impero romano: mille anni per riuscire a far emergere il sistema degli stati nazione e quasi cinquecento per determinare quali nazioni avessero le carte in regola per autodeterminare la propria storia e costituirsi in stati. Chiedersi il motivo del protrarsi delle crisi in atto in Iraq e nel resto della regione, o lamentarne alcuni aspetti anacronistici, significa ignorare quanto laboriose e complesse siano le traiettorie della storia. La nostra e quella degli altri.
L’odierno Iraq ha vissuto negli anni dell’influenza diretta britannica sulla regione un periodo formativo cruciale (Faysal I, incoronato re dell’Iraq nell’agosto del 1921 per volontà britannica, non aveva ad esempio mai messo piede in Mesopotamia prima di allora, parlava un dialetto diverso rispetto agli arabi del posto ed era sunnita). Una parte rilevante dei suoi elementi culturali e sociali di base, i “rudimenti della nazione” nella concezione di Anthony Smith, sono tuttavia riconducibili a un passato molto più radicato.
Ciò che ai giorni nostri verrebbe indicato come una sorta di “patriottismo non settario” ha, nel contesto iracheno, radici più complesse di quanto sovente sostenuto. Tale sentimento, che non può essere ricondotto alla sola influenza esercitata storicamente dal partito Baath, ha dimostrato in varie epoche storiche di essere più forte e saldo delle spinte settarie. Uno studio condotto da un gruppo di intellettuali iracheni per un think tank norvegese ha sottolineato che “the claim that Iraq is an ‘artificial’ creation concocted by the British after World War I
overlooks the fact that the separation between the three Ottoman
provinces that was in place in 1914 dated back only thirty years, to 1884”. Per larga parte del XVIII e XIX secolo quelle stesse tre province ottomane – Basra, Baghdad, Mosul – furono governate come una singola entità avente Baghdad come centro pulsante. Già al tempo numerosi intellettuali indicavano l’area con il nome di “Iraq”. La tesi, espressa da Paul Rich in Iraq and Gertrude Bell’s, secondo cui “l’unica persona che abbia mai creduto all’esistenza dell’Iraq fosse Saddam Hussein”, è dunque una semplificazione fuorviante. L’Iraq, così come la Siria, sono molto più che delle semplici “creazioni artificiali”.
Ciò non intende suggerire che le diverse etnie presenti nella regione sentissero l’esigenza di creare confini ben delineati, né vuole sminuire il ruolo storico di Londra nella genesi del dramma al quale stiamo assistendo. Mira invece a sottolineare che l’identità irachena moderna e contemporanea è stata “immaginata” e “costruita” come ogni identità della storia; e ancora oggi è proprio a quella complessa identità condivisa, sovente più forte delle divisioni settarie, che si rivolge una considerevole maggioranza (circa il 70%, stando a un sondaggio condotto nel 2008 dall’Iraq Center for Research & Strategic Studies) della popolazione locale. In una lettera indirizzata nel marzo 2004 all’allora rappresentante dell’ONU in Iraq Lakhdar Brahimi, l’ayatollah Ali al-Husayni al-Sistani sottolineò che l’istituzione di una presidenza tripartita composta da un sunnita, uno sciita e un curdo, avrebbe “cristallizzato le divisioni settarie della società irachena […] ciò potrebbe portare alla scissione del Paese, Dio non voglia”.
Simili preoccupazioni sono condivise, paradossalmente, anche da una rilevante percentuale della componente curda, che, a dispetto della sua peculiare storia e dei recenti sviluppi, percepisce con crescente apprensione i problemi – inclusa una quasi completa dipendenza da Ankara – legati a una possibile disgregazione del Paese.
La “balcanizzazione dell’Iraq” appare a molti analisti come imminente: la conquista di Mosul da parte del gruppo jihadista Daish (IS, o “Islamic State”, nel mondo anglosassone) ha ulteriormente rafforzato tale percezione. Il parallelismo con i Balcani, tuttavia, appare azzardato. Non fosse altro per il fatto che, a differenza del caso della Serbia e dei serbi bosniaci negli anni Novanta, la componente sciita presente in Iraq non mostra alcun interesse a farsi rappresentare dall’Iran e a considerare quest’ultimo come proprio negoziatore regionale di riferimento.
Su un piano più generale, è l’idea stessa di un Iraq diviso su basi settarie ad apparire problematica. È infatti fuorviante rapportarsi alla realtà locale facendo riferimento a delle comunità omogenee, poiché le identità locali sono assai più frammentate. Inoltre, con qualche analogia con la vicenda post-2003, si può notare che solo a seguito di tre penetrazioni provenienti da aree esterne al moderno Iraq – le invasioni dalla Persia safavide (nel 1508 e nel 1623) e l’assedio Wahhabita di Karbala del 1801 – si registrarono violenti scontri di natura settaria.
Fanar Haddad ha notato che nella Baghdad dell’Alto Medioevo “si verificarono alcuni scontri di natura settaria, ma essi presentavano caratteristiche estremamente differenti” rispetto a ciò che si è verificato nell’Iraq contemporaneo. Proprio Baghdad ospita ancora oggi circa un milione di curdi che non hanno mai subito violenze di natura settaria; un quinto della popolazione di Basra è sunnita, mentre a Samarra, una città a maggioranza sunnita, sono site due delle più importanti rovine sciite. Le province di Diyala e Salah ad-Din, infine, sono da secoli l’immagine di un Iraq multietnico in cui la scissione di una o più delle sue componenti non potrà che innescare ulteriori violenze di massa. La consapevolezza di ciò – un antidoto all’ascesa dell’IS, così come alle politiche dell’ex premier Nouri al Maliki e alle quote su base settaria introdotte a seguito dell’invasione americana del 2003 – rappresenta il caposaldo da cui ripartire nel processo di ricostruzione della nazione irachena.