“I diritti sono stati il carburante della democrazia, sfidando prima l’ancien régime nella sue varie forme, poi i totalitarismi del secolo scorso. Il percorso di affermazione dei diritti fondamentali è stato spesso conflittuale e comunque dialettico. Le società occidentali intanto hanno vissuto un’evoluzione più ampia, con il ridursi del principio di autorità e del principio di verità. Ma le società secolarizzate contemporanee hanno un rapporto profondamente diverso con i diritti: in assenza di forti autorità da sfidare, i diritti hanno cessato di essere un carburante per diventare invece elementi di una patologia, e addirittura fucili puntati contro il sistema democratico.”
Stiamo discutendo di democrazia, diritti e caso italiano con l’autore del libro “Troppi diritti. L’Italia tradita dalla libertà” (Mondadori). Il saggio analizza e ripercorre una sorta di illusione collettiva che è diventata, appunto, un tradimento. E tocca vari temi certamente condivisi da altri Paesi in giro per il mondo, seppure in gradazioni e modalità diverse; ma problema di fondo su cui punta il dito è una “ipertrofia maligna dei diritti” che pervade la società civile a tutti i livelli. Si può dire che – in Italia forse più che altrove – si è sviluppata una forte asimmetria tra diritti e doveri. Come se la rivendicazione dei diritti senza una corrispondente accettazione dei doveri (propri, e di altri membri della società, in una sorta di divisione dei compiti in cui tutti traggano complessivamente dei benefici) avesse prodotto un “debito sociale”: in senso economico, questo è quantificabile come debito pubblico, ma in senso culturale il danno è altrettanto grave e si manifesta come perdita di fiducia reciproca.
Barbano: Ciò è accaduto non tanto per un eccesso, quanto per una perdita della funzione originaria: la funzione quasi maieutica dei diritti civili e sociali scompare, e questi rischiano di trasformarsi in pretese, a cui non corrisponde più una funzione costruttiva.
Il modo più naturale di controbilanciare i diritti è ovviamente il riconoscimento dei doveri, e tale bilanciamento è sancito con precisione nella nostra Carta Costituzionale all’articolo 2; ma il versante dei doveri e delle responsabilità è finito decisamente in secondo piano. Ha contribuito allo squilibrio l’arrivo prorompente delle tecnologie digitali: la tecnologie hanno esteso (e continuano ad estendere sempre più) la sfera del possibile, che è stata immediatamente occupata dai diritti. Si è avuto così uno slittamento “estetico”, per cui se qualcosa è possibile diventa di per sé giusto. Prendiamo ad esempio la procreazione assistita: appena è diventata tecnicamente possibile, è stata acquisita – anzitutto da buona parte del pensiero femminista – come un nuovo diritto. In sostanza, l’utero in affitto, cioè un desiderio, diventa un bisogno. Si ignora però, in questo passaggio, il lato oscuro del fenomeno, il potenziale contenuto di sfruttamento.
In termini più generali, tutto il terreno dei diritti ha subito uno slittamento etico, trasformandosi in questione estetica, mentre la sfera dei doveri è rimasta confinata in un terreno etico e utilitaristico: non c’è un modello di dovere proposto come stile di vita in cui riconoscersi.
Alla luce di questi processi, in effetti si può affermare che stiamo producendo un “debito sociale”, ma i danni sono anche maggiori di un indebitamento collettivo, perché i diritti senza doveri sono sganciati dalla realtà e perdono concretezza. Anche qui un esempio aiuta a capire: le norme che tutelano il diritto del lavoratore ad assistere un familiare malato dovrebbe essere, a rigor di logica, anzitutto una tutela per il malato – il suo diritto ad essere assistito – ma sono state di fatto reinterpretate come un diritto insindacabile del lavoratore anche in presenza di abusi sistematici. Si è dimenticato, in pratica, che a quel particolare diritto deve corrispondere una precisa responsabilità sociale; altrimenti si viola un elementare principio di giustizia. In termini ancora più complessivi, il diritto al lavoro è stato interpretato come diritto permanente, non come rapporto contrattuale condizionato a certi comportamenti reciproci, del datore di lavoro e del lavoratore.
Tecnologia, illusioni e lacune
Barbano: Il prorompere delle nuove tecnologie della comunicazione non è stato governato – a livello internazionale e certamente in Italia – diventando un fattore distorsivo per l’opinione pubblica.
L’accelerazione tecnologica tuttora in corso è stata mal governata, e ha una velocità straordinaria; eppure non è del tutto senza precedenti. Ricorda per certi aspetti la rivoluzione culturale e religiosa che fu causata dall’avvento della tecnologia della stampa, che Lutero sfruttò per mettere in dubbio l’autorità incontestata delle gerarchie ecclesiastiche del tempo; ma anche la rivoluzione industriale con la conseguente urbanizzazione, che portò nelle grandi città masse di contadini analfabeti. Oggi le masse internettiane hanno qualcosa in comune con quei contadini urbanizzati: hanno acquisito enormi abilità ma trovano difficile adattarsi a un contesto sociale molto diverso da quello di provenienza. E mancano degli strumenti di valutazione critica che potrebbero consentire un migliore funzionamento della macchina democratica. Allora come oggi, i mutamenti sono talmente rapidi da non poter essere subito assorbiti dalle istituzioni esistenti.
Negli ultimi anni, poi, la fascinazione per il mondo digitale ha nutrito una vera utopia: quella della democrazia “disintermediata”, che è una pericolosa illusione. In particolare, la gratuità dell’accesso è un inganno, che finisce per aggravare una visione dei processi democratici come totalmente orizzontali. Lo strumento orizzontale senza intermediazioni è stato percepito e articolato come un nuovo diritto.
Ma tutto il settore digitale ha mostrato presto i suoi limiti, a cominciare dalla precarizzazione del lavoro nel mercato virtuale, con scarsissime garanzie sui contratti. Un mercato orizzontale, in ogni caso, tende rapidamente a strutturarsi come monopolio di fatto. Il problema nasce da un grave errore nel governo degli strumenti digitali, che si sono sviluppati lungo linee ormai sovranazionali senza che nessuna autorità riuscisse a regolamentarle.
Non si tratta di demonizzare le tecnologie, ma serve un pensiero forte per ricondurle al loro ruolo di strumento: mezzo e non fine in sé. Non sono affatto un “passatista”, ma ritengo che si debba prendere sul serio la critica a un certo modo di utilizzare le nuove tecnologie. Non arrivo a vedere in esse una specie di “Lucifero”, come fa ad esempio Emanuele Severino, ma lui e altri hanno colto un problema cruciale: la soggiacenza del pensiero civile alle tecnologie.
Come spiega con chiarezza il recente libro di Massimo Gaggi, “Homo premium”, la rivoluzione internettiana ha avuto un effetto spesso negativo anche sul lavoro, creando relativamente poche opportunità rispetto agli enormi profitti che genera, e che concentra in pochissime mani. La manipolazione dei flussi digitali facilita poi il furto dei contenuti e infine consente forme sofisticate di condizionamento elettorale. Manca un controllo della rete che sia anche lontanamente adeguato alla mole di dati e di attività che vi circolano continuamente, una authority con sufficienti poteri sanzionatori e risorse per la prevenzione e il contrasto dell’illegalità. Una situazione che non accetteremmo mai in altri settori della vita civile.
Simultaneamente, i media di ultima generazione hanno spinto al ribasso gli standard dell’informazione, verso l’estrema semplificazione dei dibattiti e lo svilimento dei processi democratici.
L’involuzione del quarto potere
Arriviamo così al ruolo dei media e del giornalismo professionale, inteso nella sua deontologia “classica”, che per sua natura è un tipo di intermediazione e di filtro. E che ha un ruolo decisivo per il corretto funzionamento della democrazia moderna.
Barbano: Certamente, uno degli effetti di questa rivoluzione internettiana è stato la precarizzazione del lavoro giornalistico e la riduzione degli spazi riservati al giornalismo basato sulla competenza e sulla professionalità. Le fake news sono il frutto avvelenato di questa tendenza: anche quando si resta dentro la soglia della verosimiglianza, qualsiasi notizia è una sorta di immagine sovraesposta. E’ chiaro che questo tipo di comunicazione produce un radicalismo sistematico, perché la narrazione della realtà va in una direzione specifica, privilegiando sempre la versione che parla alla pancia dell’opinione pubblica.
In questo clima, l’approfondimento giornalistico diventa quasi impossibile, e perdente rispetto alla spettacolarizzazione. La democrazia è fatta di grigi, non di bianchi e neri. Ma la cultura dell’audience come dato solo quantitativo porta fatalmente alla ricerca dell’eccesso. Non si può confidare soltanto nella capacità dell’utente (anche quando è egli stesso in qualche misura produttore di notizie e dati) di filtrare e valutare con attenzione, se l’intero ambiente circostante è orientato alle posizioni estreme.
L’intrattenimento non può gestire la complessità e raccontarla, e dunque finisce per semplificare, banalizzare: non offre un servizio che aiuti a formare una vera “opinione pubblica”, ma semmai incoraggia le pulsioni più elementari.
A questa deriva si deve contrapporre quella che definisco una “moderazione radicale”, per filtrare i contenuti e porli in un contesto più ampio e razionale di diritti connessi a doveri, ma soprattutto di valori condivisi. Per rendere il compromesso sui contenuti non solo possibile ma normale e ordinario.
Il contratto sociale e il coraggio della selezione
Un punto-chiave del suo ragionamento sembra essere l’intreccio tra lavoratori, utenti, cittadini. E la ricetta per uscire dalla patologie del “dirittismo” deve combinare in modo intelligente competizione (che poi significa competitività e produttività) e solidarietà (cioè garanzie per i più vulnerabili e responsabilità sociale).
Barbano: La competitività va connessa alla responsabilità sociale per trovare un equilibrio accettabile. Se si guarda al campo della cultura universitaria, la tradizione baronale della cooptazione ci influenza tuttora con i suoi effetti negativi, ma quantomeno la cooptazione era un’assunzione di responsabilità (sebbene con insufficienti controlli). Ora siamo passati ad un sistema ancora peggiore, cioè la proceduralizzazione della democrazia, cercando quasi di neutralizzare i processi di selezione, senza discrezionalità. Queste procedure tecnocratiche, peraltro spesso inadeguate anche nel perseguire gli obiettivi della valutazione tecnica, sono comunque infiltrate dal nepotismo e dal clientelismo. E intanto hanno bloccato i meccanismi che premiano il merito, e dunque l’ascensore sociale su cui si basa l’innovazione e il progresso.
Per superare questa impasse si deve recuperare il principio di autorità e la gerarchia del sapere, non autoritaria ma stratificata in una comunità e condivisa. Essa è frutto di una selezione, che appunto presuppone un’assunzione di responsabilità. Serve promuovere l’indipendenza del valutatore, certo con controlli e garanzie, ma con l’autonomia nella selezione. I migliori dovrebbero selezionale i migliori.
Non solo l’università, peraltro, ma la scuola nel suo complesso è stata danneggiata dal rifiuto della selezione. Ormai la priorità è impedire i possibili abusi, e i premi al merito sono allora distribuiti a pioggia – negando il principio stesso del merito. E un effetto perverso di questa dinamica è che i migliori, i più competenti e i più creativi si tengono alla larga dello spazio pubblico, impoverendo la democrazia.
Misure per una democrazia credibile
Le democrazie liberali di mercato hanno probabilmente un grande valore aggiunto nella capacità di continuo adattamento, nella sperimentazione di soluzioni pragmatiche. E’ una sfida certo più ampia rispetto all’Italia: una sfida europea e in realtà per tutte le democrazie. Su questa base e guardando al futuro, possiamo ancora essere ottimismi di fronte al quadro davvero preoccupante che ci ha presentato?
Barbano: Sono moderatamente ottimista. Sotto la pressione dei cambiamenti, il sistema democratico si adegua, e riproduce delle elites anche in situazioni poco favorevoli, compresi gli opinion leader – i quali altro non sono che intermediari. C’è quindi la possibilità di trovare un diverso e migliore equilibrio. È una sfida del pensiero, prima che dei governi o delle istituzioni. Mauro Magatti ha spiegato, in un libro intitolato “Libertà immaginaria”, che mi ha molto ispirato, come abbia prevalso un pensiero nichilista che – saldandosi alle tendenze tecnologiche – si è sostituito in larga misura sia alla matrice cristiana che a quella illuminista della nostra cultura. Entrambe si sono indebolite e non sono riuscite a gestire i cambiamenti tecnologici e sociali. In tal senso, a livello europeo la rinuncia al riferimento alle comuni radici storiche e intellettuali nel preambolo della Costituzione europea è stata una sconfitta grave per tutti. In ogni caso, il pensiero lo fanno e lo propagano le elite, ma i problemi di cui parliamo non si risolvono soltanto con le azioni istituzionali.
Se ci si concentra sull’oggetto della sfida, si deve riconoscere che quella di cui parliamo è una sfida politica. Anzi, prima ancora che politica, civile. Che non chiama tanto in causa la responsabilità delle istituzioni. Ma coinvolge piuttosto il pensiero, politico e intellettuale, l’unico capace di guidare il cambiamento della società e di definire la cornice istituzionale in cui incanalarlo. Occorre far passare l’idea che la malattia della democrazia rappresentativa si cura rafforzandone la delega, piuttosto che abbattendola. Che le asimmetrie del mercato siano riassorbili nel primato della politica. Che lo slittamento estetico, che segna il rapporto tra la cultura e la società da una parte, l’innovazione dall’altra, non sia una condizione ineluttabile, ma un errore ancora sanabile. Che grandi cambiamenti sociali conseguono a piccoli cambiamenti dei meccanismi regolatori. Poiché è la misura – e non la dis-misura – il contenuto più originale di un’offerta politica credibile.
Con queste premesse, la moderazione integrale si definisce come una pervicace, di più, irriducibile fiducia nella democrazia. Da un punto di vista ideologico, quest’approccio tiene insieme le due matrici, illuminista e cristiana, della cultura europea, cercando una sintesi in luogo del conflitto. Punta sui cosiddetti “relativi assoluti”, valori condivisi che beneficiano della continua manutenzione civile, ma sono in parte rigidi, perché accompagnano l’intero sviluppo della civiltà. La sintesi è condizione necessaria per contrastare il radicalismo prevalente e per cogliere e governare, con piena consapevolezza e con un pensiero forte e flessibile quanto i tempi richiedono, le opportunità che le tecnologie aprono all’umanità.
*Alessandro Barbano è direttore del quotidiano Il Mattino.