Il chiarimento italo-tedesco (visto dagli altri) e i problemi strutturali dell’Europa

L’incontro tra Matteo Renzi e Angela Merkel, il 29 gennaio a Berlino, si è tenuto in un clima di preoccupazione soprattutto da parte degli osservatori italiani – anche a seguito dei toni del botta e risposta Renzi-Juncker dei giorni precedenti. In realtà, sia la dialettica tra il governo di Roma e la Commissione, sia la stessa bilaterale italo-tedesca, si inseriscono a pieno titolo nel nuovo stile della politica continentale. Davanti ai continui blocchi che i singoli membri dell’UE riescono a porre alle decisioni collettive, infatti, le questioni che interessano l’Europa vengono sempre più decise attraverso incontri ristretti.

I recenti colloqui avvengono poi nel contesto dei negoziati con il governo Cameron sulle proposte britanniche di un diverso assetto europeo: non si tratta soltanto di valutare eventuali “concessioni” a Londra, ma piuttosto di trovare un punto di equilibrio per rendere la UE più efficiente e al contempo tenere agganciata la Gran Bretagna – un interesse probabilmente comune a tutti. Un atteggiamento pragmatico è davvero essenziale per evitare la paralisi.

Matteo Renzi e Angela Merkel

 

“Effettivamente, l’inasprimento dei toni da parte italiana, sia verso la Germania che verso l’Unione Europea, precedente alla visita a Berlino, dimostra che il Primo Ministro italiano ha voluto smettere i panni dell’alleato affidabile per forza – come spesso si era dimostrato in precedenza, ad esempio durante le discussioni sul debito greco – per scendere infine sul terreno della Realpolitik”, commenta Tom Kington, corrispondente a Roma del Times di Londra.

“Matteo Renzi è andato a parlare di denaro a Berlino, non a Bruxelles” – continua Kington. “Jean-Claude Juncker, che dovrebbe essere il referente per le questioni di bilancio, ne esce in qualche misura sconfessato. È la conferma che in Europa ormai le decisioni vengono assunte attraverso mediazioni strategiche tra governi: Merkel accetta l’inasprimento dei toni da parte del premier italiano, anzi ne è avvertita in anticipo, secondo un’intesa che favorisca comuni interessi. Il gioco, cioè togliere terreno all’opposizione in Italia, vale la candela”.

In sostanza, secondo questa intepretazione la Germania è oggettivamente interessata a evitare che in Italia si affermi alle prossime difficili elezioni amministrative il populismo anti-immigrati di Salvini o la proposta anti-sistema di Grillo – diverse ma entrambe più che contrarie allo status quo europeo di cui Angela Merkel è il simbolo. Almeno in tal senso, ciò sembrerebbe corroborare l’affermazione di Renzi, secondo cui l’Italia ha smesso di essere un problema per l’Europa attuale, ed è invece una risorsa, “una soluzione”.

“L’Italia si trova anzi in questo momento in una condizione di forza (politica, non economica) nello scenario continentale” – conferma Olivier Tosseri, corrispondente a Roma del quotidiano economico francese Les Échos. “Più salda del Regno Unito, che rischia di uscire dall’Unione e in ogni caso sta pagando anni di isolamento, senza che l’esito della scommessa di David Cameron sia prevedibile. Più compatta della Francia, in cui presidenza e governo sono vittime di una gravissima crisi di consenso che non offre loro quasi nessun margine per muoversi. E più stabile di una Spagna ancora impegnata a risolvere il rebus del suo governo”.

Se le decisioni della politica europea si prendono sempre più spesso in circoli molto ristretti, perfino bilaterali, è allora cruciale considerare la reazione dei soggetti che ne restano esclusi. È possibile che l’incontro italo-tedesco, nel quale si sono discussi temi di grande impatto e rilevanza come l’immigrazione, il debito, l’energia, le banche, abbia infastidito gli altri grandi paesi dell’Unione?

“Non il Regno Unito” – nota Kington. “Il governo e l’opinione pubblica italiana soffrono l’esclusione dalle decisioni europee perché sono ansiosi di parteciparvi. È difficile invece che gli inglesi soffrano per il loro isolamento. Riguardo molti degli affari europei, semplicemente non vogliono essere troppo coinvolti. Per quanto non desiderino veramente una Brexit, preferiscono comunque parteciparvi solo in maniera laterale e parziale”.

Parigi, però, potrebbe soffrire un avvicinamento tra Italia e Germania. “Certo, ma l’iniziativa di Renzi per ora ha un qualche effetto solo su decisioni di breve periodo”, puntualizza Tosseri. “Vero è che l’immagine dell’Italia, malridotta dopo il lungo periodo dell’alternanza tra Silvio Berlusconi e un centrosinistra instabile, è migliorata; ma la Francia non ha alcuna intenzione di rinunciare all’asse privilegiato con la Germania, benché questo sia squilibrato da molti anni a favore di Berlino”.

Dunque, la prospettiva bilaterale offre all’iniziativa italiana allo stesso tempo una posizione di forza e una di debolezza rispetto ai suoi obiettivi. “Effettivamente” – sottolinea Kington – “Roma e Berlino hanno un interesse comune nel reciproco rafforzamento. L’immigrazione è un nodo importantissimo per entrambi, ed entrambi rischiano grosse fette di consenso nel caso di una cattiva gestione del problema. Possono così elaborare insieme una strategia di intervento”.

Ci sono comunque dei limiti nell’approccio adottato da Matteo Renzi, come sottolinea Tosseri: “Per un cambiamento delle politiche europee più solido e duraturo, avrebbe forse dovuto puntare su un riavvicinamento con Parigi. Italia e Francia soffrono di problemi simili: indebitamento, bassa crescita, poco dinamismo. Hanno interesse in soluzioni simili, come l’aumento degli investimenti pubblici da parte dell’UE, e l’emissione di eurobond per finanziare la spesa. Sono entrambe governate da partiti appartenenti al gruppo dei Socialisti europei, e potrebbero dunque costituire un polo di interessi forte a livello continentale”. Per il quale, però, servirebbe una strategia di lungo periodo che il metodo degli incontri bilaterali, per definizione, non offre.

È d’obbligo, a questo punto, chiedersi se l’Unione Europea possa meglio affrontare i suoi problemi multipli e sempre più pressanti, la cui soluzione si perde nei compromessi necessari a conciliare 28 interessi differenti, senza superare una debolezza di fondo: quella istituzionale (o potremmo dire costituzionale). Il problema è in sostanza che qualunque accordo tra gruppi ristretti non fornisce di per sé un metodo di “compensazione” per tenere conto delle asimmetrie e della diversificazione molto ampia tra i Paesi membri. Ed è stato questo il vero dilemma nella gestione della crisi dell’euro, come anche più recentemente della crisi migratoria.

È inevitabile che i membri della UE abbiano prospettive e peso diversi, e che assumano impegni diversi su specifici dossier; ma è indispensabile che Bruxelles faccia da camera di compensazione, sia sul piano economico che su quello politico. Altrimenti, a fronte di un ruolo (soprattutto della Commissione) che impone soltanto la teorica disciplina degli impegni comuni, presto o tardi i governi nazionali cercheranno una via di fuga, forzando le regole e incolpandosi a vicenda delle asimmetrie esistenti.

La prassi del dialogo bilaterale rimane una condizione necessaria, ma non può essere sufficiente; serve comunque una soluzione che permetta di solidificare l’avventuroso progetto di ingegneria politica del federalismo europeo.

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