Il capitale sociale: Putnam e l’Italia

Questo articolo è estratto dal numero 100 di Aspenia

Nella seconda metà del secolo scorso, l’Italia ha rappresentato un importante laboratorio per la scienza politica comparata, in special modo quella americana, che l’ha usata come caso nel formulare teorie generali della politica comparata di grande e duraturo impatto teorico. Lavori come il familismo amorale di Edward Banfield, le prime analisi di Joseph LaPalombara, poi in larga parte corrette, e ancora più importante il volume sulla Civic Culture di Gabriel Almond e Sidney Verba hanno rappresentato delle pietre miliari nello studio della cultura politica, tutte concordi nel sottolineare come la cultura tradizionale degli italiani fosse poco adatta a sostenere un sistema democratico stabile ed efficiente. Un esempio negativo da confrontare con sistemi democratici vitali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Ma lo studio più importante sull’Italia, per rigore metodologico e analitico, per l’impatto delle conclusioni teoriche, e per lo stimolo di importanti ricerche seguenti, è rappresentato dal lavoro di Robert Putnam e dei suoi collaboratori sulla tradizione civica e il rendimento istituzionale delle regioni italiane, pubblicato inizialmente come articolo nel 1983 (al quale ho avuto il grande privilegio di contribuire), e poi dal famosissimo libro di Putnam, Leonardi e Nanetti su La tradizione civica nelle regioni italiane, del 1993. Questo studio, che l’Economist ha definito di importanza paragonabile a quelli di Tocqueville, Pareto, o Weber, e che dopo trent’anni continua a essere citato come l’analisi fondamentale delle regioni italiane, è stato la culla del concetto di “capitale sociale”, che Putnam ha introdotto nella disciplina, facendolo diventare un punto di riferimento teorico essenziale per gli studi sociali internazionali.

 

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IL “CAPITALE SOCIALE” IN ITALIA. La ricerca, durata vent’anni e iniziata nel 1970, proprio alla nascita delle regioni italiane, misurò in modo empirico i diversi livelli del rendimento istituzionale delle regioni italiane, e le loro cause. La conclusione di Putnam e dei suoi collaboratori, dati alla mano, fu che il grado di efficienza amministrativa dei governi regionali era determinata principalmente dal grado di impegno civico nella regione, misurato dalla partecipazione dei cittadini nella vita comunitaria, l’eguaglianza politica, dalla forte presenza di legami e associazioni con solidarietà orizzontale e non verticale, dalla fiducia e tolleranza reciproca tra le persone. Un insieme di norme e comportamenti altamente correlati tra di loro che Putnam chiamerà, appunto, “capitale sociale”. Lo studio inoltre mostrò che era proprio il livello di impegno civico collettivo a influenzare lo sviluppo economico e non già l’opposto.

Il dato più interessante fu che l’impegno civico e il capitale sociale erano fortemente correlati al posizionamento geografico delle regioni stesse, con alto capitale sociale nelle regioni del nord e basso per quelle del sud. Queste differenze tra nord e sud erano frutto di una storia millenaria, caratterizzata dalla diversa struttura politica e sociale che si era venuta a formare nel medioevo, con al nord il repubblicanesimo “orizzontale” dei comuni, formato da entità politiche indipendenti con forte partecipazione popolare e una forte parcellizzazione della proprietà agricola e commerciale, e al sud un sistema autocratico, con economie agricole basate sul latifondo, che scoraggiavano l’associazionismo orizzontale e incentivavano l’individualismo e i rapporti clientelari. Due percorsi storici secolari diversi che continuano a condizionare ai nostri giorni l’organizzazione politica e sociale delle due parti della penisola.

Questi si sono intrecciati con un ingresso nella società europea della nuova nazione italiana tutt’altro che lineare e stabile. Dai disordini seguiti alla sanguinosa prima guerra mondiale, ai venti anni di dittatura fascista, alla guerra folle che distrusse il paese dalla Sicilia alle Alpi, e lo condusse a una guerra civile poco ricordata ma feroce, e infine alla sollevazione armata popolare su tutta la penisola contro l’invasore nazista, mentre il governo regio si dissolveva.

Ma furono proprio quella distruzione e quelle macerie che portarono gli italiani, nello spazio di pochissimi anni e non di decenni, alla presa di coscienza morale e sociale sul bisogno di ricostruire il paese nella libertà e nella democrazia. Grazie anche a straordinari leader, il paese si unì al di là delle divisioni politiche, nella scelta repubblicana, nel passaggio virtualmente unanime della Costituzione e alla ricostruzione del paese. Un momento storico descritto in modo toccante da Lorenzo Ettorre nel suo volume sull’Assemblea costituente: “Dall’enorme cumulo di macerie emergono bisogni e desideri sentiti con una forza sconosciuta prima: pace, libertà, lavoro, giustizia, dignità della persona. È necessario ricostruire tutto, qui e ora. Ogni parte ha la propria idea di ricostruzione, ma non è quasi mai un arroccamento ideologico e anzi si piega alla necessità del bene comune”.

Questo momento fondante dell’Italia non è solo un’impressione compiacente dell’immediato dopoguerra ma è confermato da dati empirici. I più di due milioni di iscritti al PCI e più di un milione iscritti alla DC nel 1948, ad esempio, danno un’idea del coinvolgimento popolare nella vita politica, ma una visione ancora più chiara delle attese popolari lo danno i sondaggi di quegli anni sul sostegno del governo. I sondaggi apparsi nello studio di Pierpaolo Luzzato Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia, pubblicato nel 1965, mostrano le valutazioni fortemente positive del lavoro dei governi tra il 1948 e il 1964, dal primo governo De Gasperi all’ultimo governo Fanfani, con percentuali di gradimento simili a quelle Eisenhower e Kennedy, le due figure iconiche del “secolo americano”. Un forte gradimento popolare per leader storici della Repubblica, i quali gestirono prima la ricostruzione e posero poi le basi del famoso boom dal 1958 al 1963, che lanciò il paese verso una completa trasformazione.

Ma, come negli Stati Uniti, anche in Italia il punto di svolta è stata la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, che hanno portato importanti cambiamenti nella società, sia come riflesso degli eventi globali sia per la storia politica e sociale del paese. Un cambiamento che ha segnato la fine dell’Italia del dopoguerra e della ricostruzione, aprendo una pagina diversa nella vita nazionale.

Possiamo vedere molto chiaramente questo passaggio nelle valutazioni dei cittadini sui governi. La percentuale delle valutazioni negative del governo da parte degli italiani, secondo i sondaggi dell’epoca, passò dal 21% nel 1958 al 35% nel 1967, schizzando poi all’83% nel 1974 e nel 1976. Valutazioni negative che non sono mai cambiate in misura significativa.

È indubbio che la rivoluzione morale e di costume in tutti i suoi aspetti, di cui parla Putnam riferendosi agli Stati Uniti, abbia toccato anche l’Italia, ed eventi come l’impennata del prezzo del petrolio abbiano contribuito a cambiare la psicologia del paese. Ma fattori più immediati nella vita quotidiana hanno prodotto profonde trasformazioni nelle dinamiche della società italiana. Il movimento studentesco, l’“autunno caldo”, la crescente insofferenza verso decenni di governo democristiano, a cui seguirono il Compromesso storico, gli Anni di Piombo, il crescente debito pubblico e le conseguenti difficoltà economiche: sono fenomeni che uno dopo l’altro hanno minato la spinta partecipativa e associativa degli Italiani, creando anche in Italia disagio sociale e sempre più una cultura del “me” piuttosto che del “noi”, nella terminologia di Putnam.

A questo va aggiunto l’importante passaggio storico di Mani pulite, con la repentina scomparsa dei partiti storici dell’arco costituzionale con l’eccezione del PCI, che ha prodotto un nuovo sistema politico, caratterizzato dalla costante nascita di nuovi partiti, da un significativo aumento della volatilità di identificazione partitica dell’opinione pubblica, e da una crescente polarizzazione politica. Questa forte polarizzazione – accompagnata da una limitata capacità di soluzione dei problemi del paese, che hanno spesso richiesto l’arrivo di governi “tecnici” – ha senz’altro aumentato il distacco degli italiani dalla vita politica. Un fenomeno ben evidenziato dai livelli molto bassi di fiducia nei partiti, una costante dei sondaggi negli anni, e anche da un crescente astensionismo elettorale come ben evidenziato dal grafico seguente.

 

LE LEZIONI DA TRARRE. Questi cambiamenti non hanno avuto soltanto un impatto politico ma anche sociale in senso lato. La crescita delle disuguaglianze sociali, il disagio giovanile con la spinta all’emigrazione dei più giovani e dei meglio formati, il pesante calo demografico, con il conseguente invecchiamento della popolazione, che il New York Times ha recentemente definito uno “tsunami argentato”, e l’aumento costante dell’età in cui le donne hanno figli, il preoccupante aumento dei NEET (giovani che non studiano né lavorano), che sono un quarto dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni (cioè quasi il doppio della media europea): sono tutti segnali che non possono non far riflettere, e fanno eco al declino del dinamismo e dei vincoli sociali che Putnam lamenta per gli Stati Uniti.

 

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Una prima lezione che si può trarre è che la storia ha un impatto importante sulla vita delle nazioni; se però l’imprinting storico millenario può avere conseguenze a lungo termine, la storia più recente, nei suoi episodi salienti, può avere altrettanta importanza.

La seconda è che il capitale sociale può crescere e declinare in modo relativamente veloce: le élite politiche e sociali e il lavoro delle comunità locali e dei cittadini, l’entusiasmo delle giovani generazioni, possono fare la differenza nell’innescare processi virtuosi. Ma se gli uomini non cambiano la storia, il passato diventa presente.

 

GEOGRAFIA E DIFFIDENZA. Tornando al punto da cui siamo partiti, possiamo dire qualcosa di nuovo anche sulle regioni italiane. Oggi, come nel 1990, la differenza tra le regioni del nord e del sud dell’Italia rimane profonda, se non ancora più marcata. Nella quasi totalità delle variabili socioeconomiche, la media nazionale è sempre più alta di quella delle regioni del sud. Abbiamo visto che il capitale sociale può cambiare velocemente e che a sua volta può modificare gli incentivi e le dinamiche determinate da strutture di potere stabilite nei periodi precedenti.

Per fare questo, tuttavia, come emerge dal lavoro di Putnam sugli Stati Uniti, servono élite e strutture associative con una forte carica sociale e determinate a cambiare lo stato delle cose. In questo senso, al mondo politico e istituzionale italiano, tanto al sud quanto al nord, va posta una domanda. Si può cambiare? E come? Serve un risveglio morale e sociale per cambiare le cose, ma serve anche un impegno politico per farlo.

Il paese può trovare la forza di unire le forze per cambiare la storia in meglio? Oppure vedremo le due parti d’Italia allontanarsi sempre di più, con una vittoria del “me” e la sconfitta del “noi” a livello nazionale, e un inesorabile distacco tra le due parti d’Italia?

Nel valutare queste domande è interessante guardare un sondaggio de la Repubblica del 2010, che probabilmente è ancora attuale.

Il sondaggio è chiaro. Tra Nord e Sud ci sono elementi di risentimento reciproco e rimproveri da ambo le parti. Ma quando poi si parla di dividersi in due destini diversi, sono pochissimi a essere d’accordo. Qui i secoli di storia davvero fanno la loro parte.

In un dibattito sul suo libro The Upswing, Putnam ha concluso il proprio discorso dicendosi ottimista per il futuro del capitale sociale e degli Stati Uniti, inclusa la capacità dei giovani di ritrovare lo spirito dei primi del Novecento.

Dobbiamo sperare che anche in Italia si ritrovi lo spirito dell’immediato dopoguerra e si possa costruire il paese che gli italiani di allora speravano di realizzare. Di certo, dobbiamo tenere a mente la frase di Theodore Roosevelt con cui Putnam chiude il suo ultimo libro: “La regola fondamentale della nostra vita nazionale – la regola che informa tutte le altre – è che alla fine prospereremo o declineremo tutti insieme”.

 

 

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