Il bottone nucleare di Trump: ritorno al futuro

La politica nucleare adottata dall’amministrazione Trump non rappresenta una svolta totale rispetto al passato. Sia nel corso della guerra fredda, sia dopo, Washington non ha mai rinunciato a preservare la credibilità e la supremazia del proprio arsenale. Eppure, in un contesto internazionale mutato, l’aggressività verbale dell’amministrazione e la minaccia di abbandonare trattati o accordi preesistenti senza proporre nuove soluzioni hanno creato un clima di pericolosa incertezza.

 

Nei primi due anni della presidenza di Donald Trump le scelte compiute in materia di politica nucleare dalla sua amministrazione sono state generalmente presentate in termini di drastica rottura con il passato da esponenti e sostenitori del nuovo corso politico, sottolineando in particolare la profonda discontinuità con la linea seguita dal diretto predecessore. A differenza del Presidente Barack Obama, si è più volte ribadito, l’attuale amministrazione intende ripristinare la credibilità dell’arsenale nucleare attraverso un vigoroso programma di modernizzazione e il rifiuto di accordi in materia di controllo degli armamenti che non siano basati sulla completa reciprocità. Si è inoltre sostenuto che Washington intenda altresì recuperare la piena capacità di vigilare sulla tenuta del regime di non-proliferazione nucleare. D’altra parte, anche i critici hanno interpretato in termini di rottura le più importanti decisioni di politica nucleare dell’attuale amministrazione. Il rigetto dell’accordo con l’Iran, il programma di modernizzazione delle forze nucleari delineato nella “Nuclear Posture Review” del febbraio 2018, e il più recente annuncio di ritiro dal trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces, che risale al 1987) sono stati, infatti, visti come un drastico cambio di rotta rispetto all’approccio multilaterale che spesso aveva caratterizzato la politica nucleare statunitense dopo la fine della guerra fredda, in particolare durante l’amministrazione Obama.

 

LE ANOMALIE DI TRUMP. Un esame più approfondito e in prospettiva storica evidenzia come entrambe queste interpretazioni siano limitate. Dopo due anni, sembra delinearsi una fondamentale continuità a livello di contenuti tra la visione dell’amministrazione Trump del ruolo degli Stati Uniti come superpotenza nucleare e quello che, nonostante le molteplici trasformazioni, potrebbe definirsi il “consenso nucleare” consolidatosi nelle élite statunitensi nel corso della guerra fredda. Tale consenso, rimasto essenzialmente inalterato anche dopo il 1991, si fonda su due pilastri: la superiorità dell’arsenale statunitense nei confronti di ogni potenziale avversario e il ruolo degli Stati Uniti come guardiani della porta d’ingresso al “club” nucleare. Entrambi i pilastri sono sempre stati, e continuano sotto l’attuale amministrazione, a essere considerati elementi fondanti della capacità degli Stati Uniti di plasmare il sistema internazionale e preservarne la stabilità.

Allo stesso tempo tuttavia, è emersa anche una fondamentale differenza nella visione del sistema internazionale che potrebbe definirsi come una “anomalia Trump”. L’attuale amministrazione ha deciso, infatti, di continuare a perseguire la superiorità strategica e il ruolo di garante del regime di non proliferazione nel quadro non solo di un rigetto di ogni forma di multilateralismo, ma anche di un rifiuto di qualsivoglia responsabilità di leadership. Ciò a favore di una visione più crudamente realista delle relazioni internazionali, incentrata sulla tutela unilaterale dell’interesse nazionale statunitense, accompagnata dall’uso di toni inadeguati e, spesso, esasperati, che contribuiscono ulteriormente a delegittimare la credibilità di ogni ordine globale. Benché non si sia manifestata in egual misura nei vari aspetti della politica nucleare, tale anomalia ha determinato una forte discontinuità nelle modalità di adozione ed esecuzione delle principali decisioni prese in quest’ambito, andando a incidere in modo particolare sulla dimensione diplomatica.

 

LA MODERNIZZAZIONE DELL’ARSENALE. Già da candidato presidenziale Donald Trump aveva più volte annunciato di voler rivitalizzare l’arsenale nucleare americano. La Nuclear Posture Review 2018 ha sviluppato in maniera sistematica tale intenzione. Il documento delinea un ambiente strategico complesso, caratterizzato non solo dalle minacce rappresentate da aspiranti potenze nucleari regionali, ma anche da un evidente ritorno alla politica di potenza da parte di Russia e Cina, i cui arsenali nucleari sono, da anni ormai, in fase di modernizzazione e ampliamento. Tale evidenza imporrebbe, secondo gli autori del documento, di abbandonare le illusioni dell’era Obama, sviluppare opzioni nucleari flessibili e ampliare lo spettro di capacità tattiche e dual use. Ciò si è tradotto non solo nella decisione di integrare più strettamente la pianificazione operativa delle forze nucleari con quelle convenzionali, ma anche in quella di procedere allo sviluppo di nuovi sistemi d’arma, un nuovo missile balistico con testate low-yield e un nuovo missile cruise, entrambi lanciabili da sottomarini, nonché nella scelta di accelerare l’incorporazione di capacità nucleari nel nuovo caccia multiruolo F-35 JSF.

Nonostante la visione fortemente realista in cui sono state inserite, e l’aggressiva retorica presidenziale che le ha accompagnate, tali decisioni sono lontane dal rappresentare una profonda rottura con il passato.

Dal 1969, quando l’Unione Sovietica raggiunse la parità nucleare con gli Stati Uniti, varie amministrazioni statunitensi hanno cercato di assicurarsi un vantaggio qualitativo. Nonostante una congiuntura economica sfavorevole le amministrazioni guidate da Richard Nixon, Gerald Ford e Jimmy Carter tentarono ripetutamente di introdurre forme di strategia e opzioni flessibili nell’eventuale uso dell’arsenale nucleare. Nei primi anni della presidenza di Ronald Reagan, il governo statunitense procedette con lo sviluppo e lo schieramento di sistemi d’arma che, realizzando un’effettiva modernizzazione delle componenti aerea, missilistica e sottomarina (la cosiddetta “triade”) dell’arsenale nucleare, avrebbero consentito di raggiungere la flessibilità e l’efficacia ricercate nel decennio precedente. Allo stesso modo, gli anni tra il 1969 e il 1980 videro il passaggio da una politica di difesa nucleare incentrata sul mero mantenimento della superiorità tecnologica a una più dinamica, orientata a mantenere un vantaggio sull’Unione Sovietica attraverso cicli estremamente frequenti di modernizzazione della triade.

Appare altrettanto infondato il tentativo di quanti cercano di presentare queste decisioni come una profonda svolta rispetto alla fase post-1991 della politica nucleare americana, e in particolare rispetto alle decisioni prese durante i due mandati presidenziali di Barack Obama.

Oltre a una serie di investimenti approvati al fine di mantenere la piena funzionalità dell’arsenale, infatti, l’amministrazione Obama si è adoperata per integrare più strettamente la pianificazione e le operazioni nucleari nella strategia di sicurezza nazionale statunitense, nonché per sviluppare capacità più avanzate. Brad Roberts, vice sottosegretario alla Difesa per gli Affari nucleari e la Difesa missilistica tra il 2009 e il 2013, ha sottolineato come l’amministrazione Obama si sia attivata quasi immediatamente al fine di sviluppare “opzioni limitate” di ricorso al nucleare per affrontare avversari regionali, ovvero Corea del Nord e Iran. Inoltre, come negli ultimi anni hanno documentato diversi rapporti del Congressional Budget Office, l’allontanarsi della prospettiva di ulteriori accordi per la riduzione degli armamenti strategici a seguito del deterioramento delle relazioni con la Russia nel 2014 spinse l’amministrazione Obama verso un nuovo corso d’azione. Non solo si cominciò a procedere con le modernizzazioni previste dalla Nuclear Posture Review 2010 (rispetto alla cui effettiva esecuzione l’amministrazione si era mostrata talvolta riluttante), ma la Casa Bianca decise anche di incrementare in maniera significativa i finanziamenti per lo sviluppo di nuove testate e delivery systems: il Ground-Based Strategic Deterrent, destinato a rimpiazzare i vecchi missili intercontinentali Minuteman iii; il nuovo sottomarino nucleare classe Columbia in sostituzione degli Ohio, e il bombardiere strategico B-21 armato con i nuovi Long-Range Stand-off Weapon a integrazione della esile flotta di B-2 dotati di air-launched cruise missiles.

 

LA FINE DEL CONTROLLO DEGLI ARMAMENTI. Nell’ambito del controllo degli armamenti, Trump non ha risultati da offrire. Al contrario, l’impressione è che l’amministrazione possa addirittura disfare la delicata struttura di prassi, accordi e trattati messa insieme a partire dagli anni Settanta. La visione crudamente realista del sistema internazionale ha spinto Trump e i suoi collaboratori a presentare la competizione con le altre “grandi potenze”, anche nel campo delle armi nucleari, come la principale sfida a cui dovranno rispondere gli Stati Uniti nei prossimi anni. In questo contesto, l’amministrazione ha scelto di sospendere ogni iniziativa di controllo degli armamenti per permettere agli Stati Uniti di ristabilire il primato dell’arsenale atomico e negoziare in futuro da una posizione di forza. Come conseguenza, il destino del “New start” – l’ultimo trattato per la riduzione dell’arsenale intercontinentale di Stati Uniti e Russia, firmato nel 2010 e in attesa di rinnovo nel 2021 – rimane incerto. Inoltre, nell’ottobre 2018 l’amministrazione Trump ha annunciato la sua intenzione di ritirarsi dall’inf, il trattato firmato nel 1987 da Mikhail Gorbacev e Ronald Reagan che prevedeva l’eliminazione di tutti i missili a raggio intermedio (da 500 a 5.500 km) esistenti all’epoca e proibiva lo schieramento di nuovi.

Molti osservatori hanno interpretato la tendenza di Washington ad abbandonare il controllo degli armamenti come un ritorno ai primi decenni del conflitto bipolare, quando gli arsenali nucleari delle due superpotenze erano cresciuti senza controllo. L’atteggiamento degli Stati Uniti presenta però alcuni aspetti di continuità sia con gli anni della guerra fredda sia con il passato più recente. La convinzione che gli Stati Uniti possano permettersi di negoziare solo da una posizione di forza ha stabilmente permeato l’approccio statunitense al controllo degli armamenti. Peace through strength – pace attraverso la forza – era, dopotutto, il motto di Reagan, il presidente che aborriva le armi nucleari e che, nella seconda metà degli Ottanta, divenne il campione dei negoziati per la loro riduzione, ma solo dopo che la sua amministrazione aveva portato a compimento la modernizzazione delle forze nucleari iniziata nel decennio precedente.

L’assenza di iniziativa nei confronti del controllo degli armamenti dell’attuale amministrazione trova precedenti anche in anni più recenti. L’amministrazione Obama, che all’inizio del suo mandato aveva promesso un consistente impegno sul tema del disarmo, ha deluso le aspettative di chi si aspettava un rapido progresso su questo fronte. Già prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, la stessa sorte dell’inf sembrava compromessa a causa dell’inadempienza russa. Nel 2014, il periodico rapporto presentato dal dipartimento di Stato al Congresso per verificare il rispetto degli accordi di controllo degli armamenti, disarmo e non proliferazione aveva denunciato la violazione degli obblighi previsti dall’inf da parte della Russia attraverso i nuovi missili cruise ssc-x-8. L’opportunità di tenere in piedi il trattato è stata anche messa in dubbio dallo sviluppo e dallo schieramento in alcuni paesi, inclusa la Cina, di missili a raggio intermedio con capacità nucleari o dual use. Molti analisti ritengono che proprio l’arsenale cinese, ancor più di quello russo, sia il motivo della decisione statunitense di ritirarsi dall’inf e che l’amministrazione Trump stia rispondendo all’esigenza di ripristinare a favore degli Stati Uniti l’equilibrio di forze, alterato dai sistemi a raggio intermedio schierati dalle altre potenze.

Nonostante la politica di Trump nel campo del controllo degli armamenti abbia rappresentato una rottura con il passato meno drammatica rispetto a quanto rilevato da alcuni osservatori, resta del tutto anomalo il rifiuto, o forse l’incapacità, di preservare la leadership statunitense in questo contesto. La mancanza di iniziative da parte degli Stati Uniti e l’assenza di alternative al negoziato hanno infatti creato un clima d’incertezza nella comunità internazionale, soprattutto tra gli alleati degli Stati Uniti, senza che la “linea dura” dell’amministrazione abbia per il momento avuto alcun effetto restrittivo nei confronti della Russia e della Cina.

Il ‘Trinity Test’ del Manhattan Project, nel 1945, fu la prima esplosione di un’arma nucleare

 

UNA CONTROVERSA NON PROLIFERAZIONE. L’aspetto forse più controverso della politica nucleare dell’amministrazione Trump sembra essere quello della politica di non proliferazione, in particolare per quanto riguarda le relazioni con la Repubblica popolare della Corea del Nord e con l’Iran. Nel primo caso, l’amministrazione Trump ha esordito con una minacciosa campagna mediatica di una violenza parossistica, e spesso grottesca, nei confronti del leader nordcoreano Kim Jong-un, dopo che il governo di Pyongyang aveva compiuto crescenti progressi verso il potenziamento del proprio arsenale nucleare. Per quasi tutto il 2017 Trump e Kim Jong-un si sono provocati a vicenda, per poi arrivare a un improvviso punto di svolta nel giugno 2018: si sono infatti incontrati a Singapore e hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che dovrebbe teoricamente avviare a soluzione il problema della minaccia nucleare nordcoreana.

È ancora presto per stabilire che risultati possa produrre l’incontro di Singapore. Molti analisti hanno però sottolineato che nella sostanza quell’intesa non differisce dagli impegni presi in passato dalla Repubblica popolare nordcoreana, e poi regolarmente disattesi a fronte di vere o presunte violazioni compiute dagli Stati Uniti. Al terzo punto della dichiarazione congiunta rilasciata alla fine del vertice, infatti, il governo nordcoreano si impegna a lavorare per la completa denuclearizzazione della penisola coreana – una formula straordinariamente vaga e ambigua e non particolarmente diversa da quella usata già nel 1994 all’epoca del primo accordo tra Washington e Pyongyang. Nei mesi successivi alla firma della dichiarazione di Singapore si sono poi alternati segnali discontinui, che non consentono di intravedere quale possa essere il futuro dell’intesa.

Nel caso dell’Iran, invece, l’amministrazione Trump non ha mai nascosto di voler affossare il Joint Comprehensive Plan of Action (jcpoa), il trattato firmato dall’amministrazione Obama con il governo di Teheran nel 2015. Quell’accordo prevedeva la riduzione del programma nucleare iraniano e la sottoposizione delle sue capacità di arricchimento dell’uranio a un piano di verifiche da parte dell’iaea, in modo da allontanare, ma senza azzerare del tutto, la possibilità che Teheran potesse dotarsi di un’arma nucleare. Già da candidato Trump aveva ripetutamente criticato quell’intesa, e nel maggio 2018 ha unilateralmente deciso di non rispettarla più e di voler reintrodurre un pesante regime di sanzioni contro il governo iraniano. Nonostante alcuni limiti e qualche ambiguità da parte del governo iraniano, l’intesa in sé limita effettivamente le capacità nucleari di Teheran e sembra arduo poter costringere il governo iraniano a ulteriori rinunce senza ricorrere all’uso della forza. Il vero nodo del problema, in realtà, sembra essere non tanto, o non solo il programma di arricchimento dell’uranio di Teheran, quanto il fatto che – nonostante il JCPOA lasci in vigore le sanzioni statunitensi rivolte contro il programma missilistico iraniano, le violazioni dei diritti umani, e il sostegno al terrorismo – l’accordo non incida sulla capacità dell’Iran di potenziare il suo arsenale missilistico e più in generale sulla sua ambizione di divenire la potenza principale della regione attraverso il sostegno di Hezbollah e di regimi quali quello di Bashar al Assad in Siria.

In una rinnovata edizione della politica del linkage di kissingeriana memoria, Trump sembra infatti criticare il jcpoa soprattutto perché non vincola l’Iran a una politica complessivamente più moderata. Sostituendo la linea diplomatica di Obama con una di pressioni e di minacce, la nuova amministrazione sembra intenzionata a adottare una politica intimidatoria volta a un contenimento più aggressivo del regime di Teheran.

 

UNA PERICOLOSA INCERTEZZA. È chiaro che la politica nucleare adottata dall’amministrazione Trump non rappresenta una svolta totale rispetto al passato. Sia nel corso della guerra fredda, sia dopo la fine del confronto bipolare, il governo statunitense non ha infatti mai rinunciato a preservare la credibilità e la supremazia del proprio arsenale. L’attuale crisi del controllo degli armamenti è stata, d’altro canto, almeno in parte la conseguenza di questioni lasciate insolute dalle amministrazioni precedenti. Per quanto decisamente più tracotante e violento che in passato, neanche l’uso spregiudicato del linguaggio che ha caratterizzato gli esordi della politica nucleare dell’amministrazione Trump è del tutto nuovo – dalla brinkmanship di John Foster Dulles alla teoria del pazzo di Richard Nixon, molti politici repubblicani nel corso della guerra fredda sembrano aver creduto che il fulcro dell’arte della strategia nucleare consista nell’apparire come pericolosamente intenzionati a usare davvero le armi nucleari. Tuttavia, in un contesto così rarefatto e spaventosamente fragile come quello della deterrenza, questi spericolati equilibrismi verbali non sono cost free e contribuiscono a rendere più instabile, e molto più rischioso, il precario equilibrio dei rapporti di forza.

Nel caso di Trump, un atteggiamento fatto d’intimidazioni, toni esasperati e assenza di un chiarimento delle intenzioni statunitensi, anche con gli alleati, ha minato la credibilità della leadership statunitense. La minaccia di abbandonare trattati o accordi preesistenti, come nel caso dell’INF o del JCPOA, senza proporre nuove soluzioni ha infatti creato un clima di pericolosa incertezza. Questo unilateralismo esacerbato degli Stati Uniti ha finora contribuito a indebolire le prospettive di una ripresa del dialogo sul tema del controllo degli armamenti e della non proliferazione. Resta però da chiarire quali iniziative alternative all’aggressione verbale l’amministrazione Trump intenda intraprendere per limitare la corsa al riarmo e impedire la creazione di nuovi arsenali nucleari.

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