La metallurgia è compagna stretta del processo di sviluppo e civilizzazione dell’essere umano. Le più antiche testimonianze di metallurgia a opera dell’uomo risalgono al VI millennio A.C. in luoghi che oggi si trovano in Serbia. La capacità di lavorare i metalli, e successivamente di studiarne la struttura chimica e il comportamento in specifiche condizioni ambientali, è stata così importante da dare il nome a periodi della storia umana: Età del rame, del bronzo, o del ferro. Quando la metallurgia tratta minerali ad alto contenuto di ferro per produrre ferro o, più precisamente, per produrre leghe di ferro e carbonio come acciaio e ghisa, allora si parla di siderurgia, che in greco antico sta esattamente per lavorazione del ferro.
Lo spostamento della produzione dall’Occidente all’Asia
La prima produzione di acciaio così come è conosciuto oggi avviene nella prima metà del XVIII secolo ad opera di Benjiamin Huntsman per far fronte alla richiesta di materiali più resistenti dell’ordinario ferro, nell’Inghilterra della prima rivoluzione industriale. La grande versatilità di applicazioni dell’acciaio, l’abbondanza sulla crosta terrestre di ferro e carbone, lo sviluppo di tecnologie per la produzione su larga scala portano l’acciaio a diventare un elemento cruciale lo sviluppo industriale, economico e tecnologico del mondo. La rivoluzione industriale non sarebbe stata possibile come pure la realizzazione di quell’oggetto insostituibile chiamato automobile.
La siderurgia è stata, e rimane ancora, un’attività economica di primaria importanza per ogni paese che abbia, o aspiri a possedere, un minimo di contenuto tecnologico, ed è sempre stata associata al grado di potenza di un paese e base necessaria per assicurare lo sviluppo socioeconomico. L’esempio della Repubblica Popolare Cinese degli ultimi quarant’anni continua a insegnarlo. Per far fronte da un lato allo sviluppo della propria industria e delle proprie infrastrutture, e dall’altro alla domanda globale a prezzi competitivi, la Cina ha infatti ampliato enormemente la propria industria e la propria produzione.
Sebbene l’alba della metallurgia sia sorta in Europa e sebbene l’acciaio sia stato inventato in Inghilterra e i processi industriali per produrlo siano stati sviluppati in Germania, non è l’Europa il continente che produce più acciaio nel mondo. Per la World Steel Association, l’associazione mondiale dei produttori di acciaio, l’Unione Europea ha nel corso dei decenni continuato ad aumentare la produzione di acciaio in termini assoluti toccando l’apice con 205,7 milioni di tonnellate nel 2007, ma la sua quota relativa sul resto del mondo si è andata progressivamente assottigliando per l’avanzata dei produttori asiatici, in primis la Cina.
Nel 2024, l’Unione Europea ha prodotto 129,7 milioni di tonnellate di acciaio, pari al 6,9% della produzione mondiale, detenuta per la maggioranza dalla Repubblica Popolare Cinese (53,3%) – la quale Cina solo 25 anni fa produceva appena il 15% del volume mondiale – a seguire poi a grande distanza è la Repubblica dell’India (7,9%). È opportuno precisare che il medesimo declino è toccato agli Stati Uniti, la cui produzione a metà degli anni 1960 raggiungeva il 25% del valore mondiale espresso in tonnellate, mentre appena dopo la Seconda guerra mondiale copriva quasi la metà della produzione mondiale.
La situazione in Europa
Secondo gli ultimi dati pubblicati da Eurofer, l’associazione delle aziende siderurgiche e delle federazioni siderurgiche nazionali dell’Unione Europea, nel 2023 l’industria europea della siderurgia ha fatturato 191 miliardi di euro contribuendo per l’1,1% alla formazione del prodotto interno lordo comunitario, all’incirca il 5% del settore manufatturiero. Il principale produttore europeo di acciaio è la Germania (28,1%), seguito da Italia (16,7%) e Spagna (9,0%).
Inoltre, l’industria siderurgica europea genera 303.520 posti di lavoro diretti su un totale di 2,6 milioni comprensivi anche dei posti indiretti e indotti in oltre 500 siti di produzione siderurgica situati in 22 dei 27 stati membri dell’Unione Europea. La maggiore parte dei posti diretti sono collocati nelle tre principali economie dell’Unione Europea, precisamente Germania (26,2%), Francia (10,2%) e Italia (8,3%). Tuttavia, se il numero dei posti di lavoro diretti generati dalla produzione siderurgica è visto da una prospettiva di posti ogni 100mila persone, il quadro diviene ancora più importante per i paesi geograficamente più piccoli come Slovenia (194), Austria (168) e Cechia (157).
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La produzione dell’acciaio è dunque ancora un’attività economica importante per l’Unione Europea. La sua sopravvivenza, e cioè il suo futuro legato ad altre industrie come le costruzioni, le automobili e gli elettrodomestici, passa per la sua sostenibilità ambientale espressa in termini di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, uso di fonti energetiche rinnovabili e riciclo di rottami metallici. Quando si vuole legare la sostenibilità ambientale alla produzione di acciaio si usa l’espressione «acciaio verde», per intendere un acciaio prodotto senza l’utilizzo di combustibili fossili, una condizione necessaria per ridurre le emissioni di CO2, ma non sufficiente per eliminarle completamente.
Più ancora di altri paesi con minori aspettative di protezione dell’ambiente, l’industria siderurgica europea si trova ad affrontare una fase cruciale nel suo percorso verso la decarbonizzazione dei suoi processi industriali. Storicamente una delle basi dell’economia industriale del continente europeo, la siderurgia è responsabile per il 2% del totale delle emissioni di anidride carbonica nell’Unione Europea, secondo quanto pubblicato dall’Agenzia Europea per l’Ambiente. Si tratta di una quota relativamente modesta se comparata, per esempio, con il 28% prodotto dai trasporti su strada, e, forse, la questione concerne più la competitività dell’industria espressa in termini di consumi elettrici, sebbene costi anche emettere anidride carbonica nell’atmosfera.
Tecnologia, investimenti, ambiente e obsolescenza
La questione è, come spesso accade, tecnologica, ossia di investimenti. Per Eurofer, oltre metà degli impianti siderurgici europei utilizza le tecnologie dell’altoforno (blast furnace, BF) e del convertitore a ossigeno (basic oxygen furnace, BOF), la prima per produrre acciaio da minerali ferrosi e carbone, la seconda per produrre acciaio dalla ghisa. Si tratta di due tecnologie che, se da un lato hanno rappresentato per secoli l’orgoglio di paesi industrializzati, dall’altro sono ormai energivore e inquinanti, ovvero due tecnologie obsolete. Utilizzando l’altoforno o il convertitore a ossigeno, in termini di consumi elettrici sono mediamente richiesti 5,5 MWh di energia elettrica per produrre una tonnellata di acciaio, la cui produzione emette nell’atmosfera normalmente 2,3 tonnellate di anidride carbonica.
Nel sistema per lo scambio di quote emissione di gas a effetto serra dell’Unione Europea, il costo per emettere una tonnellata di anidride carbonica nell’atmosfera è storicamente oscillato tra 50 e 100 euro per tonnellata di anidride carbonica, ovvero mediamente di 175 euro per tonnellata di acciaio, una cifra che corrisponde a quasi un terzo del costo per produrre una tonnellata di acciaio in altoforno al netto delle emissioni, costo stimato a circa 540 euro per tonnellata – secondo elaborazioni di Zhu+Rich Sagl, una società di consulenza strategica della Svizzera italiana, una condizione fattualmente insostenibile. In aggiunta, entrambe le tecnologie dell’altoforno e del convertitore a ossigeno lavorano a ciclo continuo, cioè poco efficienti quando la domanda di mercato è variabile, e non possono riciclare rottami metallici in una prospettiva di economia circolare.
L’alternativa è fornita dalla tecnologia dei forni elettrici ad arco (electric arc furnace, EAF), con la quale sono richiesti mediamente 0,5 MWh per produrre una tonnellata di acciaio, cioè il 90% in meno rispetto a un altoforno, durante la cui produzione sono emesse nell’atmosfera 0,4 tonnellate di CO2, dunque l’80% in meno rispetto all’altoforno. In aggiunta, con i forni elettrici ad arco, diversamente dall’altoforno, si può utilizzare energia elettrica generata da fonti rinnovabili come si possono rifondere rottami metallici come pure è possibile governare con maggiore efficienza i picchi e le vali dell’andamento della domanda di mercato. Se poi la tecnologia dei forni elettrici ad arco è combinata con la tecnologia del preridotto (direct reduced iron, DRI), che può utilizzare idrogeno prodotto da elettrolisi alimentata con corrente elettrica generata da energie rinnovabili, ovvero il cosiddetto idrogeno verde, le emissioni di anidride carbonica si riducono del 95% rispetto all’altoforno, anche se, di converso, i consumi di energia elettrica di riducono solo del 40%, in quanto è necessaria energia elettrica aggiuntiva per produrre idrogeno rispetto alla sola tecnologia dei forni elettrici ad arco.
Ancora secondo l’Eurofer, la capacità produttiva dell’industria siderurgica europea si fonda per circa il 55% sulla tecnologia dell’altoforno e del convertitore a ossigeno, spesso si tratta di impianti vetusti la cui unica destinazione d’uso è, letteralmente, il rottame metallico per alimentare i forni elettrici ad arco, in particolare in Paesi appartenuti al vecchio blocco socialista, come Polonia (Cracovia, Dąbrowa Górnicza, Zdzieszowice), Cechia (Czestochowa), Ungheria (Dunaujvaros) e Romania (Galați).
Considerando i tre principali produttori europei di acciaio, in Germania sono installati 15 altoforni, che rappresentano i tre quarti della capacità produttiva dell’industria siderurgia tedesca, in Italia è rimasto un solo altoforno attivo (a Taranto) che assorbe il 24% della capacità produttiva nazionale, e mentre in Spagna vi sono due altoforni, la cui capacità produttiva ammonta al 28% della capacità totale sul territorio spagnolo. Meritano considerazione anche altri paesi come l’Austria e i Paesi Bassi, la cui quota di impianti siderurgici energivori e inquinanti è la totalità, come la Svezia, la Slovacchia, con quote dell’80-90%.
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Sebbene l’industria siderurgica risponda solo del 2% dell’anidride carbonica emessa sul territorio dell’Unione Europea, rimane sostanziale la questione dei consumi di elettricità, che pongono l’acciaio tra i materiali più energivori sia per le alte temperature necessarie per processare le materie prime sia per il tempo per mantenere tali temperature ai valori richiesti, generalmente 2200 °C nel cuore del crogiolo, costantemente e senza interruzioni per circa 20-25 anni. Parenti energivore dell’industria siderurgica sono l’industria del cemento, della ceramica, del vetro, dell’alluminio e altre ancora.
Le difficoltà della transizione energetica
Il recente rapporto sulla transizione ecologica dell’industria siderurgica europea pubblicato da Third Generation Environmentalism (E3G), un centro studi sul cambiamento climatico che si prefigge di accelerare la transizione globale verso un futuro a basse emissioni di carbonio, e da Beyond Fossil Fuels (BFF), un’associazione di organizzazioni della società civile che si propone di favorire la creazione di un sistema energetico europeo fondato solo su energie rinnovabili entro il 2035, indica che nell’Unione, sono stati formalmente dichiarati almeno 33 progetti orientati sia alla riconversione di vecchi impianti siderurgici in impianti di nuova generazione sia di costruzione di nuovi siti, utilizzando la tecnologia dei forni elettrici ad arco, di cui 20 casi prevedono la combinazione con la tecnologia del preridotto, un numero, tuttavia, apparentemente esiguo. Il maggiore numero di progetti è previsto in Germania (12), seguita da Svezia (4) e Francia (3).
La questione appare esistenziale, sia in termini di sostenibilità ambientale sia in termini di competitività dell’industria europea. Nei prossimi dieci anni molti degli impianti siderurgici alimentati con energie fossili, cioè altoforni e convertitori a ossigeno, raggiungeranno il termine di vita utile, dopo il quale dovranno essere ristrutturati oppure dismessi o, meglio ancora, riconvertiti per la produzione di acciaio verde. Si tratta di un decennio critico, poiché se le aziende siderurgiche decidessero di rinnovare gli impianti produttivi conservando le vecchie tecnologie per il solo fine di mantenere i costi degli investimenti bassi, allora potrebbero essere compromessi gli obiettivi di emissioni nette zero che i paesi dell’Unione Europea si sono prefissati di raggiungere entro il 2050, ovvero portare a compimento quel piano chiamato «Patto verde europeo», che la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha dichiarato essere per l’Europa «come lo sbarco dell’uomo sulla Luna».
Tuttavia, sono effettivamente pochi i progetti di riconversione e ancora più pochi i progetti di riconversione in corso, appena sette sui 33 annunciati, tra i quali l’Oxelösund mini-mill di SSAB AB e lo Stegra Boden Phase 1 di Stegra AB in Svezia, il cui completamento è previsto per il 2026, oppure il SALCOS μDRAL project di Salzgitter AG e il tkH2Steel di Thyssenkrupp AG in Germania, il cui termine dei lavori è atteso anche per essi nel 2026, o ancora i due Greentec Steel di Voestalpine AG in Austria, la cui ultimazione è supposta entro il 2027.
I ritardi nell’attuazione dei progetti in corso o dei progetti che devono ancora essere avviati sono dovuti a diversi fattori, a volte strutturali e a volte congiunturali. Per esempio, l’idrogeno prodotto con energie rinnovabili necessario per i nuovi impianti è ancora molto costoso e poco disponibile come pure le infrastrutture per la produzione (impianti di elettrolisi) e per il trasporto, lo stoccaggio e la distribuzione (reti) sono solo in una fase iniziale in Europa. E poi la fornitura di energia elettrica da fonti rinnovabili non assicura ancora i volumi necessari per alimentare i nuovi impianti, alla quale si associano anche prezzi ancora elevati e volativi dell’elettricità, che rendono difficile la pianificazione degli investimenti entro un certo grado di incertezza. Oppure i tempi per ottenere le approvazioni ambientale e industriali, che spesso sono incompatibili con le scadenze progettuali o di raggiungimento degli obiettivi fissati dalla Commissione. Oppure, non esiste ancora un modo per integrare nella filiera siderurgica la fornitura dei rottami metallici, per esempio provenienti dalle automobili o dagli elettrodomestici dismessi, senza i quali i nuovi impianti siderurgici non possono funzionare. Mancano poi finanziamenti privati a causa dei rischi di mercato ancora alti e dell’incertezza normativa ancora esistente, mentre i sussidi attuali sono principalmente pubblici, ma spesso senza condizioni ambientali vincolanti. Inoltre, mancano obblighi di legge che tendano a favorire l’uso di acciaio verde, per esempio una certa quota in peso o in valore economico in mezzi di trasporto come le automobili o in costruzioni pubbliche come ponti o reti ferroviarie.
Sussiste dunque uno scollamento tra gli obiettivi di decarbonizzazione che la Commissione intende ambiziosamente raggiungere e le risorse effettivamente disponibili sul territorio dell’Unione Europea, una sorta di vuoto politico ed economico che Bruxelles deve rapidamente colmare se vuole continuare a costruire satelliti artificiali, carri armati e treni ad alta velocità con acciaio sostenibile prodotto a Duisburg, a Piombino, a Gijón, e non altrove.