La metafora sembrava perfetta: “noi possiamo affrontare la gravissima crisi del Covid-19 senza il peso aggiuntivo di gravi “malattie pregresse” ed è anche per questo che la prima ondata è stata arginata così bene rispetto ad altri paesi europei”. Una metafora cruda, un punto di vista mai davvero verbalizzato, ma che fino a quest’estate era radicato più o meno consciamente nella società tedesca. Una condizione che sembrava confermare uno specifico desiderio della Germania contemporanea di essere il più impossibile impermeabile agli eventi esterni, agli stravolgimenti geopolitici, alle accelerazioni storiche.
Nell’estate 2020, del resto, la Germania ha visto una particolare attività di piazza dei movimenti Covid-negazionisti, formati da un mix eterogeneo e paradossale di ambientalisti-hippie, complottisti e neonazisti. E se l’ampia maggioranza dei tedeschi ha completamente rigettato queste espressioni, è anche vero che la preoccupazione della società civile è sembrata allora più causata dalla natura estremista e anti-democratica del mix negazionista piuttosto che dal suo contributo diretto e indiretto all’aumento dei contagi da Covid-19.
Nel settembre 2020, intanto, un sondaggio mostrava addirittura che in una speciale classifica delle preoccupazioni i tedeschi avevano più paura di Donald Trump che del coronavirus. Poi, però, è arrivata la seconda ondata. Le catene di contagio si sono riattivate e la crescita è diventata esponenziale. Proprio a causa del pregiudizio fallace sviluppato dopo la prima ondata, il pericolo è stato ampiamente sottovalutato dalla società e dalla politica tedesche. Malgrado la Cancelliera Angela Merkel avesse lanciato fin da settembre un allarme sulla pericolosità del ritorno del virus nei mesi più freddi, i Land e le realtà politiche legate ai territori hanno frenato misure restrittive più decise. La Kanzlerin, da parte sua, non ha potuto e neanche voluto forzare gli equilibri di potere dello stato federale tedesco. Il lockdown light di novembre si è così rivelato inutile e ha letteralmente sprecato quasi tutto il capitale tedesco di resistenza alla piaga del virus accumulato nei mesi precedenti.
A metà dicembre la Germania ha dovuto passare a un regime di lockdown più duro, ma non ha potuto più fermare l’ondata di contagi e decessi che si era messa in moto. I numeri parlano da soli: dal 25 ottobre 2020 al 25 febbraio 2021 la Germania ha avuto 1.992.202 casi registrati e 59.308 decessi, con un tasso di mortalità che sarebbe del 3% (mancano però dalla conta diversi asintomatici, ormai sempre meno tracciati, che abbasserebbero quell’indice). Se si considera che, da inizio pandemia fino al 25 febbraio 2021, le vittime tedesche del Covid sono state in tutto 69.343, emerge un dato impressionante: l’85,5% delle persone uccise dal Covid in Germania hanno perso la vita negli ultimi 4 mesi.
Tra fine dicembre 2020 e inizio gennaio 2021 la Germania ha superato più volte il triste record dei 1000 morti al giorno. Il virus ha raggiunto fatalmente anche le case di riposo, dove ha mietuto vittime come già avvenuto nel resto d’Europa. Stati federali come la Sassonia sono diventati la riedizione tedesca della Lombardia di marzo 2020: i centri di cremazione della regione hanno raggiunto la saturazione e solo una grande cautela comunicativa non ha fatto diffondere sui media scene simili a quelle di Bergamo.
Negli ultimi tre mesi, quella che rimane di fatto una particolare solidità (qualitativa e quantitativa) della sanità tedesca ha però più volte raggiunto i propri limiti, sia per quanto riguarda i posti liberi in terapia intensiva sia per l’endemico problema di mancanza di personale negli ospedali. Anche in Germania è divenuto sempre più chiaro come il pericolo costante posto dalla pandemia sia il collasso della capacità di cura del sistema sanitario.
A partire da fine gennaio comunque la curva dei contagi e decessi ha iniziato a scendere e si sono visti i risultati diretti delle chiusure di dicembre – benché le restrizioni tedesche non abbiano mai raggiunto i divieti estremi della scorsa primavera italiana: scuole e negozi non essenziali sono sì chiusi, ma aperte restano le fabbriche, i luoghi di lavoro, gli uffici (seppur con ampia diffusione della modalità home office). In Germania non esiste inoltre un obbligo completo di mascherina negli spazi esterni e non ci sono limitazioni generali alla mobilità da e nei propri luoghi di residenza. In altre parole, anche in quest’occasione l’esecutivo (anzi, gli esecutivi) tedeschi hanno comunque cercato di non fermare del tutto la catena produttiva e dei consumi. Un blocco totale è notoriamente più efficace per bloccare in maniera drastica la diffusione del virus, ma è sempre stato considerato da Berlino un’opzione insostenibile, visti i costi già alti e ripetuti dei sussidi e degli aiuti che vengono al momento dati a numerose aziende, professionisti, attività commerciali.
La fine dell’eccezionalità tedesca
L’attuale lockdown è ora previsto fino al prossimo 7 marzo e molti dei governatori locali che a novembre frenavano per le chiusure si sono trasformati in sponsor di una strategia a maglie sempre più strette. Angela Merkel è andata più volte in televisione a spiegare che, com’è noto, la situazione è di nuovo grave soprattutto per l’arrivo delle cosiddette mutazioni inglese, sudafricana e brasiliana, che possono spingere velocemente una terza ondata. Dopo i primi mesi di lentezza e trascuratezza interna, e a conferma del fatto che la società tedesca riesce ad attivarsi al meglio quando percepisce un pericolo chiaramente proveniente dall’esterno, sono state proprio le nuove varianti ad aver fatto infine accelerare la messa in sicurezza anti-Covid della Germania.
Quello che è certo è che l’eccezionalità tedesca della prima ondata è ormai soltanto un ricordo. Oggi Berlino sta affrontando problematiche comuni a tutti i suoi partner europei. Eppure le cose in Germania sarebbero potute andare lo stesso meglio, al di là della stessa seconda ondata e nonostante l’irrompere delle varianti. Lo scorso novembre era arrivato infatti l’annuncio dell’efficacia al 95% del vaccino BNT162b2, frutto del lavoro della multinazionale USA Pfizer e di BioNTech, piccola azienda farmaceutica di Mainz (Renania-Palatinato). Un risultato epocale che aveva tutte le carte in regola per aprire il 2021 nel nome di un miracolo nazionale tedesco.
Creata e diretta da Uğur Şahin e Özlem Türeci, una coppia di medici-ricercatori figli dell’immigrazione turca in Germania, finita su tutte le prime pagine dell’Occidente, BioNTech è quanto di meglio potesse produrre l’eccellenza e l’innovazione del tessuto delle PMI tedesche. Tuttavia, pur essendo paese produttore di uno dei vaccini anti-Covid più efficaci al mondo, a fine febbraio la Germania continua a trovarsi indietro nel suo piano di vaccinazioni, così come lo sono tutti i suoi partner europei.
Berlino ha infatti deciso di condividere con gli altri 26 paesi una gestione UE delle vaccinazioni che potrà forse rivelarsi sostenibile sul lungo periodo, ma che al momento è impossibile non definire fallimentare. Questi specifici ritardi vengono criticati sempre più apertamente dall’opinione pubblica tedesca. Sui social e in tutti i media si sprecano ogni giorno i confronti tra la curva dei vaccini in Germania e quella di Regno Unito, USA e, ancora di più, Israele. L’insoddisfazione verso il piano UE è grande ed è forse in qualche modo moderata solo dal fatto che a guidare la Commissione ci sia proprio la tedesca, e merkeliana di ferro, Ursula von der Leyen.
Nel complesso, l’operato della Cancelliera ha infatti ancora la fiducia dei tedeschi. Da un sondaggio della tv pubblica, il 51% dei tedeschi approva in pieno le attuali misure anti-Covid, il 28% le vorrebbe ancora più restrittive e solo secondo il 18% sarebbero esagerate. Ma anche Merkel sa che le prossime saranno settimane decisive per il sostegno sociale del suo governo e per lo stesso destino di tutta la sua legacy. A metà febbraio la Kanzlerin ha addirittura messo in campo tutta la propria autorevolezza per promettere che a ogni tedesco verrà offerta la possibilità di vaccinarsi entro la fine di quest’estate.
Verso elezioni decisive
La fiducia dei tedeschi nella persona di Merkel resta ancora alla base delle attuali intenzioni di voto per le prossime elezioni nazionali del 26 settembre, che saranno le prime senza di lei. Al momento la CDU-CSU viene quotata al 37%, i Verdi al 19%, la SPD al 15%, la FDP al 7%, la Linke al 7% e AfD all’8% (sondaggio Forsa). Ma se fino a qualche mese fa si ipotizzava che a partire dalla primavera 2021 i tedeschi avrebbero iniziato ad occuparsi delle proprie elezioni non pensando troppo al Covid, ora è chiaro che la pandemia sarà comunque politicamente determinante.
La lotta al Covid sarà ad esempio cruciale nel decidere chi sarà il candidato Cancelliere della CDU-CSU. I destini del neo-eletto Presidente CDU Armin Laschet, rappresentante del post-merkelismo, sono legati all’operato dell’attuale governo (da cui Laschet sembra però già determinato a distanziarsi tatticamente). L’hype politico-mediatico nato attorno al ministro-presidente CSU Markus Söder potrà invece funzionare solo se nella sua Baviera la pandemia verrà gestita al meglio e al di là delle altisonanti dichiarazioni dello stesso Söder. Inutile poi aggiungere che l’intero destino politico del ministro della Salute Jens Spahn (a lungo considerato altro papabile Cancelliere del dopo-Merkel) sia oggi legato al contenimento di un’eventuale terza ondata e alla contemporanea efficacia della campagna vaccinale.
La fine del merkelismo era già destinata a portare nell’eterogeneo corpo sociale tedesco di oltre 83 milioni di individui interrogativi epocali sul futuro della Germania e sul senso della sua dimensione nazionale (o post-nazionale). Ma lo shock devastante della pandemia e il suo persistere sembrano in grado di esacerbare e accelerare questo stesso processo.
Per anni il merkelismo è stato un perfetto contenimento e un’attenta gestione in sicurezza delle contraddizioni storiche che la Germania è destinata ad affrontare con la fine dei vecchi equilibri geopolitici. L’abbandono di questa gestione in sicurezza sembra ora destinata a diventare più chiara anche a tutta la società. Se ad esempio prima i tedeschi potevano pensare alla questione dell’europeismo sublimando le varie posizioni in narrazioni soprattutto ideali e morali (e moraliste), la nascita obbligata del Recovery Fund nel 2020 e i suoi potenziali sviluppi stanno mostrando a tutti i tedeschi come l’UE sia per la Germania anche un dossier immediatamente materiale ed esistenziale.
La stessa cosa vale per un tema come l’ambientalismo, anch’esso a lungo introiettato (o rifiutato) dalle varie espressioni della società tedesca in termini innanzitutto psicologico-identitari. Ora che un tradizionale sondaggio tra i decisionmaker della Germania mostra come quest’anno anche i top-manager tedeschi puntino per la prima volta apertamente su un governo Schwarz-Grün (cioè con il nero di CDU-CSU e i Verdi), l’ambientalismo verrà potenzialmente assorbito nella responsabilità di governo nazionale proprio in una fase delicatissima come quella pandemica/post-pandemica. Questo significa che gli stessi Grünen dovranno sviluppare una nuova grammatica ambientalista (e produttivista) del potere, con cui interagire sia con la Realpolitik globale sia con il proprio elettorato.
Gli altri partiti della sinistra come la SPD e la Linke, che fino a un anno fa immaginavano di impostare tutt’altra campagna elettorale, stanno intanto provando a organizzarsi per una proposta politica che trovi sostegno in quelle aree sociali in crescente sofferenza a causa della pandemia (e, in prospettiva, in una fase di post-pandemia). Il superamento del rispetto del dogma costituzionale della Schwarze Null (il pareggio di bilancio) è solo uno dei temi politici che saranno sempre più caratteristici delle nuove urgenze della società tedesca dei prossimi anni.
Se è vero che il merkelismo ha saputo gestire per anni i conflitti sociali interni, la Germania rimane un paese in cui il decimo più ricco della popolazione possiede il 67% del capitale privato complessivo e l’1% più ricco ne detiene il 35%. Il 50% più povero della popolazione tedesca, invece, possiede soltanto l’1,3% della ricchezza privata del paese (dati BPB, DIW). Questa faglia sociale interna si interseca poi con differenze territoriali sparse, ad esempio sull’asse Ovest-Est (in cui continua a insinuarsi l’estrema destra identitaria di AfD), nella differenza fra centri urbani e aree non urbane più abbandonate, nelle complessità dell’integrazione di comunità di origine straniera nel tessuto socio-economico tedesco.
Il contenimento di tutte queste conflittualità sociali in Germania è stato per anni permesso innanzitutto dalla performance del surplus commerciale tedesco nel mercato globale. Performance i cui presupposti strutturali sono però appunto diventati molto più visibili nel drammatico anno della pandemia. Dossier che un tempo erano solo per gli addetti ai lavori sembrano quindi destinati a essere sempre più apertamente socializzati nel 2021.
L’arrivo della geopolitica nel dibattito pubblico?
Nel dibattito pubblico tedesco sul Nord Stream 2 diventa ad esempio più difficile continuare a parlare solo di principi morali e non del ruolo che l’energia a basso costo ha per l’industria tedesca (a scapito dei partner UE centro-orientali). Al tempo stesso, i rapporti tedeschi con gli Stati Uniti dovranno essere tematizzati sempre più pubblicamente nella loro reale dimensione. Dimensione che non è solo quella dell’intensità dell’affinità culturale-ideologica, ma che va dall’assoluta necessità tedesca di affidarsi ancora all’ombrello militare della NATO e giunge fino al bisogno dell’export tedesco della protezione della US Navy sulle rotte marittime extra-europee.
Esempio emblematico di questa tendenza generale alla nuova socializzazione di tematiche a lungo trattate in Germania con discussioni molto astratte sarà poi quello dell’immigrazione. Per anni il tema è stato affrontato con la già citata impostazione morale-identitaria, in questo caso all’interno di un’aspra lacerazione sociale tra cosmopoliti e fautori del multiculturalismo e chi vuole invece rispondere all’immigrazione e al multiculturalismo con l’imposizione di una Leitkultur (cultura guida) di fatto occidentalista.
L’emergere di una discussione pubblica che sia più ancorata alla reale contingenza socio-economica tedesca potrebbe però presto sottolineare aspetti cruciali come il fatto che la Germania sia innanzitutto un paese con una popolazione sempre più anziana, la cui bilancia demografica è in declino permanente e viene tenuta in attivo dall’immigrazione fin dall’anno 1972. Un dato che, all’interno della già citata necessità tedesca di restare campione globale dell’export per garantire la propria pace sociale interna, è sempre meno trascurabile per una nazione che voglia continuare a essere il 4° paese al mondo per PIL nominale e il 3° paese al mondo per esportazioni.
Dopo 16 anni di calibrata schermatura della Germania dagli stravolgimenti globali da parte di Angela Merkel, anche la drammatica pandemia sembra quindi aver accelerato un processo di progressiva presa di coscienza da parte della società tedesca delle complesse dinamiche in cui tutto il paese dovrà muoversi nei prossimi anni. Presa di coscienza che non significherà ovviamente che le molteplici complessità verranno risolte con più facilità, anzi. Ma il 2021 è forse il primo anno in cui la trattazione della politica in Germania sembra destinata a mutare per sempre.
Se la geosofia è la dottrina geografica che studia la percezione di se stessi che i soggetti e i popoli hanno nello spazio terrestre, a partire dal 2021 la società tedesca potrà avere una percezione sempre meno astratta del suo particolare e unico ruolo geopolitico.