Paesi Bassi, Francia, Germania: il 2017 vedrà i tre Paesi del «cuore carolingio» dell’Unione europea andare al voto. Una coincidenza che rende quest’anno politicamente molto denso nel Vecchio continente. A misurarsi sarà la tenuta dei partiti delle famiglie politiche di governo, e cioè socialisti, liberali e conservatori, di fronte alla sfida lanciata dal populismo di destra.
Comuni ai tre stati, infatti, sono lo scenario e la dinamica del confronto fra le forze in campo: governi espressione della grande area centrista che va dai popolari ai socialdemocratici, i quali si trovano come avversario principale i movimenti «anti-sistema» di destra – il Partito della Libertà di Geert Wilders, il Front National di Marine Le Pen e l’Alternative für Deutschland di Frauke Petry. Salta agli occhi la differenza con i Paesi della periferia dell’Unione le cui vicende elettorali avevano catturato l’attenzione generale negli scorsi due anni: Grecia e Spagna, soprattutto, ma anche Irlanda e Portogallo. In quei casi, a «sfidare l’establishment» erano state le forze della sinistra radicale, con Syriza e Podemos nel ruolo dei nuovi punti di riferimento continentali delle forze progressiste antiliberiste.
Si potrebbe dunque sostenere che il dissenso verso l’indirizzo fondamentale che segue l’Unione europea si stia articolando in maniera geo-politicamente opposta: a destra nel cuore del continente, e a sinistra ai suoi margini geografici. Una tendenza che, per le forze della sinistra alternativa, rappresenta attualmente il principale problema con cui fare i conti. Una tendenza non certo nuova, se si pensa alla Francia: lì sono quasi tre decenni che il Partito comunista (Pcf) ha perso terreno a beneficio del Front National fra i settori operai e popolari dell’elettorato, senza trovare il modo di risalire la china. I «perdenti della globalizzazione» scelgono chi promette loro di ripristinare le frontiere perdute e non chi parla il linguaggio «antico» dell’emancipazione di classe e della solidarietà internazionale.
Il fatto nuovo, che indubbiamente connota questa stagione politica europea, è che anche sulla sponda destra del Reno sta avvenendo la stessa cosa: in Germania la critica più insidiosa allo status quo giunge da dove mai nulla di significativo era accaduto nella storia della Repubblica federale tedesca: l’area a destra dell’Unione democristiana (la CDU e i bavaresi della CSU).
Il primo stato-membro della UE da cui verranno indicazioni circa la reale portata della sfida del populismo di destra saranno i Paesi Bassi, che andranno alle urne il 15 marzo. E in quella circostanza si misurerà anche la tenuta del Socialistische Partij, la forza più a sinistra dello spettro politico olandese, che nella precedente tornata ottenne il 9,7% dei consensi risultando la terza lista più votata.
Conosciuto anche come «partito del pomodoro», alleato in Europa di Syriza e Podemos, il movimento guidato da Emil Roemer è dato dai sondaggi in lieve calo rispetto alle scorse elezioni. È ovviamente molto critico nei confronti del laburista Partij van den Arbeid, attualmente in coalizione come partner minore con il liberal-conservatore VVD del premier Mark Rutte: la sostanza dell’accusa è di avere compiuto scelte non di sinistra, e in particolare di aver assecondato la linea neoliberale della UE – si tenga a mente che il presidente dell’Eurogruppo è proprio un laburista olandese, Jeroen Dijesselbloem.
Ciononostante, l’atteggiamento dei socialisti verso i laburisti, che saranno probabilmente puniti duramente dalle urne insieme ai loro alleati di governo, non è di chiusura totale: se i numeri lo consentissero – così affermano – quelli del «pomodoro» potrebbero esplorare la strada di un’intesa post-elettorale fra tutte le forze «a sinistra del centro», formula nella quale rientrano anche i verdi e i liberali progressisti.
Nei Paesi Bassi emerge con maggiore chiarezza, rispetto agli altri due stati carolingi, ciò che davvero separa nel profondo la sinistra radicale da quella moderata: il rapporto con l’UE. I socialisti olandesi, infatti, sono i più «euroscettici» all’interno dell’area che nel Parlamento di Strasburgo siede nel gruppo della Sinistra unitaria Gue/Ngl: un punto qualificante della loro azione è la rivendicazione costante del «no» con cui il Paese dei tulipani respinse il Trattato costituzionale nel 2005 (un referendum che ebbe peraltro lo stesso esito di quello francese).
Con toni e contenuti parzialmente diversi, è sempre il giudizio sulla UE a rendere lontani, in Francia, l’area che candida Jean-Luc Mélenchon (11,1% nel 2012, dopo la fondazione nel 2008 del Front de Gauche) e il Partito socialista del premier e aspirante candidato presidenziale Manuel Valls, così come in Germania la Linke dalla Spd.
A giudizio di Mélenchon la Francia deve «riconquistare la propria libertà» proprio riacquisendo spazi decisionali oggi condizionati dalle istituzioni comunitarie. Una legge-simbolo della legislatura al tramonto, la Loi Travail, può essere presa come emblema di ciò che la sinistra radicale rifiuta di quella moderata: una modifica delle norme sul mercato del lavoro suggerita nelle periodiche raccomandazioni di Bruxelles. La possibilità che le due sinistre possano tornare a collaborare, come all’inizio del quinquennio di François Hollande, è probabilmente legata al destino di Arnaud Montebourg, aspirante candidato presidenziale del Ps con una piattaforma in netta discontinuità con la linea di Valls: se l’ex ministro alla re-industrializzazione dovesse prevalere nelle primarie, allora il mondo attorno a Mélenchon, in testa i pragmatici comunisti del Pcf potrebbe deporre l’ascia di guerra.
In Germania, a guardar bene, le divergenze sull’UE attraversano la stessa sinistra radicale al proprio interno. Da tempo la Linke è sostanzialmente divisa in due, ciascuna guidata da uno dei due padri nobili del partito: una parte che segue Oskar Lafontaine nel considerare più opportuna la fine dell’euro e la ri-nazionalizzazione di alcuni poteri, l’altra che concorda con Gregor Gysi (nel frattempo eletto leader del Partito della Sinistra europea) nel voler rivedere criticamente l’impalcatura comunitaria senza tuttavia rinunciare alla moneta comune né «restituire sovranità» agli Stati.
In un delicato gioco d’equilibri, la Linke – che stando ai sondaggi potrebbe lievemente migliorare l’8,6% raccolto alle elezioni federali di quattro anni fa – si presenta al voto di settembre con due Spitzenkandidaten in ossequio al principio della parità di genere, ma soprattutto per garantire a ciascuna corrente adeguata visibilità e influenza: Sahra Wagenknecht per i lafontainiani e Dietmar Bartsch per quelli che la stampa tedesca chiama «i realisti». Le differenze interne sull’Europa si riflettono su altri temi, e soprattutto sul nodo strategico di fondo: la disponibilità ad un’eventuale alleanza con i socialdemocratici dell’ex presidente del Parlamento europeo Martin Schulz. Nessuno nella Linke la esclude categoricamente, ma non è certo un mistero che l’area di Wagenknecht sia molto fredda al riguardo, mentre la corrente di Gysi e Bartsch considera necessario che il partito possa presentarsi come forza di governo.
I prossimi mesi disegneranno dunque la mappa dell’Europa del futuro, e diranno quale ruolo vi giocherà la sinistra radicale. Ma non saranno solo le tre cruciali elezioni a farlo: per capire il destino della sinistra del Vecchio continente occorrerà continuare a guardare anche alla “periferia”.
E quindi occorrerà guardare sia alla tenuta del governo di Alexis Tsipras in Grecia, sia agli sviluppi delle intense battaglie congressuali che in Spagna vedono impegnati Podemos e il Partito socialista (Psoe).