I sussidi dalla politica industriale alla coercizione economica

La corsa ai sussidi rappresenta, insieme al ritorno dei dazi, un tratto caratterizzante dell’evoluzione del sistema del commercio mondiale. Se negli anni Ottanta e Novanta il paradigma liberoscambista ne metteva in evidenza gli effetti distorsivi sulle dinamiche competitive, oggi le sovvenzioni rappresentano la spina dorsale degli strumenti di politica industriale adottati nei settori chiave per la competizione globale.

Il rinnovato interesse per i sussidi si sviluppa in un inedito contesto politico di rivalutazione dell’intervento pubblico nell’economia, divenuto essenziale per affrontare sfide strutturali come la transizione ecologica e digitale. In passato, il ricorso alle sovvenzioni era confinato a singoli settori, come l’agricoltura e l’aerospazio, ma risultava privo d’una visione di insieme, rispondendo prevalentemente a esigenze contingenti. Oggi, invece, una dimensione strategica talvolta straripante si impone sulla conduzione dell’agenda economica, affidando agli Stati un ruolo di primo piano nella definizione delle priorità nazionali.

La proliferazione delle sovvenzioni si interseca con la crisi del WTO e più in generale delle istituzioni multilaterali. L’Organizzazione mondiale del commercio, nata nel 1994 in un’epoca di grande fiducia verso la liberalizzazione degli scambi, si è dimostrata progressivamente obsoleta, perdendo il suo slancio iniziale sin dal fallimento del Doha Round nel 2001. Con l’impossibilità di esercitare pienamente il suo ruolo di arbitro, il ricorso a misure di difesa commerciale, come strumento per risolvere le controversie tra Stati, è diventato una prassi consolidata, con esiti talvolta paradossali. In questo contesto, poco favorevole a soluzioni di compromesso, emerge il ripensamento dei valori fondanti del rules-based system, da parte di Paesi, come gli Stati Uniti, che più di ogni altro ne sono stati promotori a partire da Bretton Woods.

Sarebbe riduttivo interpretare il progressivo declino del WTO come conseguenza delle traiettorie, spesso in collisione, dei suoi più importanti membri quali USA e Cina, che si concretizza subito dopo l’ingresso di Pechino nell’OMC. Il ritorno all’unilateralismo, come declinazione contemporanea del protezionismo, è il risultato di una profonda sfiducia verso organismi come l’Appellate Body dell’Organizzazione mondiale del commercio, ritenuti a torto o a ragione incapaci di far valere le ragioni di una competizione economica giocata ad armi pari, ma anche di una più profonda riflessione sul futuro della globalizzazione in corso da anni nelle cancellerie mondiali.

A tal proposito, ci si potrebbe domandare in che misura il level playing field sia stato leso dall’applicazione dei principi della Scuola di Chicago ai rapporti tra Stato e mercato. Ancor di più vista la preminenza assunta da Pechino negli anni della liberalizzazione degli scambi. L’ennesima crisi di sovraccapacità della manifattura cinese è più imputabile all’idea chimerica di sviluppo concepita da Xi Jinping, piuttosto che ad un’osservanza dogmatica del laissez-faire. In questo senso, le politiche di contrasto al flusso sproporzionato di merci dalla Cina, con nuovi dazi all’importazione e sussidi a sostegno delle produzioni nazionali, appaiono come la conseguenza e non il sintomo della crisi del rules-based system.  

L’impasse del WTO appare ancor più grave perché affligge sia il suo complesso apparato regolatorio, incapace di innovare una disciplina dei sussidi da più parti considerata obsoleta, che quello di risoluzione delle controversie. Se le falle del multilateralismo riguardassero solo la nomina dei componenti dell’Appellate Body, infatti nulla impedirebbe agli Stati membri dell’OMC di ovviare alla paralisi istituzionale con il ricorso a metodi alternativi. Purtroppo, la creazione di panel sostitutivi non solo è risultata numericamente insufficiente, ma ha portato alla luce la profondità della faglia che attraversa il WTO, con un sostanziale liberi tutti che va ben oltre lo stallo innescato dall’amministrazione americana nel 2019.

 

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Non si può ignorare poi, che le sfide della transizione ecologica e digitale impongono decisioni lungimiranti su una serie di temi impossibili da trattare in modo unilaterale. Dall’e-commerce ai sussidi alla pesca, passando per i servizi digitali e la regolazione dei Foreign direct investment, le questioni del nostro tempo che giacciono in attesa di negoziati risolutivi sono sempre più numerose e l’assenza di soluzioni si riverbera in primo luogo sui paesi in via di sviluppo, che beneficerebbero di un quadro regolatorio ben definito per infondere fiducia agli investitori internazionali. Una sfida assai ardua senza stabilire prima le regole del gioco.

Il presidente americano Trump (2018) alla posa della prima pietra di un impianto Foxconn finanziato dallo stato

 

Una storia complessa e un presente incerto

Nel trentennio successivo alla caduta del muro, la regolazione del commercio globale è stata ispirata dai principi Washington Consensus. L’istituzione del WTO, al culmine dell’Uruguay round nel 1994, ha rappresentato il punto di arrivo della visione liberoscambista, all’insegna dell’apertura dei mercati e della rimozione delle barriere al commercio tra Stati. La logica alla base del modello di Bretton-Woods, che risultava più incline al riconoscimento del ruolo di questi ultimi come regolatori degli scambi, venne superata negli anni Ottanta da un approccio incentrato esclusivamente sul mercato, solo in parte temperato dalla presenza di istituzioni multilaterali. La nascita dell’OMC si configurò così come il punto di arrivo di un lungo percorso imperniato su una competizione tra Stati, senza ostacoli al commercio o discriminazioni di sorta e che mal sopportava il ricorso al supporto pubblico per sostenere le filiere nazionali.

La differenza si coglie rispetto alla filosofia originale del GATT del 1947, in cui i sussidi venivano a malapena menzionati. Solo negli anni 80’, dopo il fallimento del Tokyo round, si posero le basi per una regolazione delle sovvenzioni, che verrà perfezionata nell’Uruguay Round con l’accordo SCM. Per descrivere questo mutamento, il noto economista Robert Z. Lawrence individuò il passaggio dal concetto di shallow integration, caratterizzato dalla rimozione delle barriere tariffarie ad uno di deep integration, all’insegna di una limitazione dell’intervento statale nell’economia e di un sostanziale rigetto della politica industriale per i suoi effetti distorsivi.

A partire dalla crisi del 2008 e in seguito all’emergenza pandemica, è emersa con maggior vigore la necessità di riequilibrare il level playing field del commercio mondiale. Un’esigenza avvertita sin dalla mancata istituzione dell’ITO in seno a Bretton Woods. Il terzo pilastro del sistema di governance che avrebbe dovuto accompagnare la liberalizzazione degli scambi con un’intensa attività di regolazione, ben oltre la mera riduzione dei dazi doganali. Nel corso degli anni, l’insoddisfazione verso gli eccessi della globalizzazione ha portato ad un rinnovato interesse da parte delle economie più avanzate verso un processo di armonizzazione normativa, finalizzato a promuovere una concorrenza il più possibile ad armi pari e a eliminare le distorsioni causate dalla corsa al ribasso nelle normative sociali e ambientali.

In particolare, è noto il caso dei labour standards, che non hanno trovato concreto accoglimento nel GATT nonostante gli sforzi dell’International Labour Organization. Se la liberalizzazione degli scambi si è concentrata prevalentemente su obblighi negativi, che si sono sostanziati in una deregulation impossibile da inseguire nei Paesi più sviluppati, il ripristino del level playing field individua uno standard minimo di tutela orientato ad un canone di equità, la cui implementazione può avvenire anche su base unilaterale.

Nel caso delle sovvenzioni, l’attuale complesso normativo appare inadeguato per rispondere a tali incertezze. Le regole del WTO, oltre a non applicarsi a servizi e investimenti esteri, presentano numerose criticità, sintetizzabili in un meccanismo di notifica che non viene rispettato dalla maggioranza degli Stati, nell’inefficacia degli strumenti di difesa contro gli effetti pregiudizievoli dei sussidi e nella mancanza di un limite massimo agli aiuti erogabili a favore delle imprese, comprese quelle di proprietà statale. Inoltre, non vi è alcuna distinzione sulla finalità delle sovvenzioni, con il rischio concreto di ostacolare misure di sostegno alla transizione ecologica e alle tecnologie per la decarbonizzazione, a svantaggio dei paesi in via di sviluppo.

In assenza di un compromesso sulle modifiche all’accordo SCM, l’Unione Europea si è affermata ancora una volta per il suo ruolo di regolatore, con misure unilaterali volte al raggiungimento del level playing field e al contemporaneo perseguimento di politiche di settore. Come emerso nel rapporto Draghi, il nodo principale riguarda la salvaguardia degli equilibri nel mercato interno, promuovendo la competitività economica del Blocco.

Contrastare gli effetti distorsivi delle sovvenzioni estere con il Foreign Subsidies Regulation e ridurre le emissioni di gas climalteranti a livello globale, a partire dalle importazioni intra UE, nel caso del CBAM. Questi sforzi segnano un’evoluzione in senso extraterritoriale del diritto dell’Unione, che amplia la sua portata applicativa con pesanti ripercussioni sul piano politico. Non potendo competere su quello economico, infatti, per via delle rigide regole fiscali imposte nel blocco, la risposta di Bruxelles si è collocata su un piano prettamente regolatorio, difficilmente integrabile in una strategia organica di politica industriale. Una simile mossa porta con sé l’indubbio vantaggio di evitare i numerosi difetti che una corsa ai sussidi inevitabilmente comporta, dall’allocazione delle risorse alle inefficienze diffuse. È pur vero, tuttavia, che così facendo non l’Unione non contribuisce a stimolare la competitività della manifattura europea, che trova un porto sicuro solo nelle barriere commerciali e non nella produttività di cui avrebbe disperatamente bisogno.

 

Tanti vizi e poche virtù

Per valutare costi e benefici della corsa ai sussidi non si può prescindere dall’analizzare il caso cinese. Sin dall’apertura al mercato, avviata da Deng Xiaoping nei primi anni Ottanta, il modello individuato da Pechino ha promosso il ricorso a sovvenzioni su larga scala per sostenere l’incremento delle proprie capacità produttive. Questa strategia ha permesso il raggiungimento di indubbi traguardi di crescita che sono il vanto della leadership del Partito Comunista. Un benessere raggiunto promuovendo gli investimenti pubblici e privati, senza doversi affidare al traino dei consumi, espressione di una concezione capitalista che fatica a trovare spazio ancora oggi. In passato le multinazionali estere hanno delocalizzato in Cina parte delle proprie catene del valore, sfruttano i minori costi e il generoso supporto pubblico, a partire dalle zone economiche speciali. Col tempo le imprese cinesi, anche grazie alla valanga di sovvenzioni dei governi locali, hanno sviluppato capacità produttive autonome in settori ad alto valore tecnologico, come i veicoli elettrici e le turbine eoliche, ma anche più tradizionali a partire dall’acciaio sino alla chimica di base.

Le conseguenze di questo processo hanno portato il surplus commerciale della Cina a livelli mai registrati in precedenza. A titolo esemplificativo, l’avanzo commerciale manifatturiero con i paesi dell’ASEAN è raddoppiato dal 3% pre-pandemico al 6% del 2023, concentrandosi sui semilavorati, e la stessa tendenza rialzista ha coinvolto il Messico, porta di ingresso dell’ex NAFTA (dal 2,5 al 3,8%) e l’Europa (+0,5%), mentre è rimasto stabile con gli Stati Uniti. Gli effetti della sovraccapacità cinese si sono manifestati anche nelle esportazioni a livello mondiale. In questo caso, sono state le economie più avanzate a pagare il prezzo più alto, con la quota di export manifatturiero che è diminuita di 2,7 punti tra il 2019 e il 2022 a vantaggio della Cina.

 

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Oggi Pechino è costretta ad inondare i mercati esteri con i propri prodotti per compensare le enormi inefficienze prodotte da anni di sovvenzioni più che generose. La sovraccapacità industriale ha portato ad investire in linee produzione in eccesso che nessun partner commerciale potrà mai assorbire. L’eccedenza si riflette in un crollo dei prezzi dei beni, che a sua volta innesca una spirale deflattiva e una crisi di liquidità delle imprese pesantemente indebitate con le banche statali, che ne hanno finanziato gli investimenti. Anziché concentrare i propri sforzi sul sostegno ai consumi, il Partito Comunista ha risposto con ulteriori incentivi fiscali, con la conseguenza che i governi locali e il sistema creditizio hanno ulteriormente allargato le maglie scatenando una competizione al ribasso, spesso sulle stesse linee di prodotto già sussidiate in precedenza.

Facile intuire dunque perché i meccanismi di difesa dei partner commerciali della Cina si siano rivelati inefficaci. In parte la magnitudine del problema ha raggiunto una dimensione tale da rendere le misure unilaterali un palliativo. A questo contribuiscono i lunghi tempi di gestazione e la necessità per l’Unione europea di rispettare la rule of law nell’imposizione dei dazi antisovvenzionali. Anche il ricorso a strumenti alternativi come il Foreign Subsidies Regulation e il CBAM non può risolvere disequilibri strutturali che andrebbero affrontati alla radice.

Colpire le merci cinesi senza modificare la rule of origin , porta solo a rimodellare le catene nel valore nel sud est asiatico, trasformando Paesi come il Vietnam in esportatori di prodotti finiti che poggiano in larga parte su beni intermedi made in China. Le prospettive future appaiono persino peggiori. Il ricorso a politiche industriali simili a quelle di Pechino, come nel caso dell’Inflation Reduction Act, rischia di incrementare ulteriormente la sovraccapacità manifatturiera a livello mondiale con una corsa ai sussidi che nessuno Stato può permettersi e che non farà altro che ingenerare nuove inefficienze da sommare a quelle già esistenti.

 

Se il futuro è tutto da scrivere

Nell’epoca del ritorno alla politica industriale, tracciare una linea rossa tra sovvenzioni ammesse e proibite sarebbe un’impresa difficile, se non impossibile. Un simile sforzo verrebbe poi frustrato dallo stallo del WTO che si trascina dal 2019. Con la vittoria di Donald Trump alle elezioni Presidenziali, la paralisi dell’Appellate Body si estenderebbe all’intera architettura istituzionale dell’OMC, con una delegittimazione forse definitiva del rules-based system per come è conosciuto oggi. La soluzione alternativa che prevede il ricorso ai ben noti strumenti di difesa commerciale ha un carattere tuttora residuale, non tanto per la sua natura unilaterale, quanto per l’impossibilità in un’economia globalizzata di tagliare i fili dell’interdipendenza. Anche riuscendoci poi, con l’arma dei dazi, sarebbero i consumatori a vedere peggiorare la propria condizione economica tra fiammate inflazionistiche e caro prezzi.

 

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L’Unione Europea, fedele alla sua missione internazionalista, ha concepito una terza via che affianca alle regole del gioco tradizionali un complesso apparato regolatorio in grado di ristabilire almeno sulla carta il level playing field contrastando le sovvenzioni ritenute distorsive. Se i tempi non sono ancora maturi per valutare l’efficacia di CBAM e FSR, maggiori dubbi possono sorgere sul tentativo di superare l’impasse del WTO. È sufficiente pensare che il multi-Party Interim Appeal Arbitration Arrangement promosso da Bruxelles conta appena su 53 membri, compresi i 27 dell’Unione europea, rispetto ai 166 componenti dell’Organizzazione mondiale del commercio. Inoltre, l’assenza di Stati Uniti, India e Indonesia dal MPIA lo rende privo di una portata globale e la presenza della Cina non ha impedito all’UE di concepire nuovi strumenti di difesa commerciale, la cui compatibilità con la disciplina dell’OMC è quanto mai dubbia.

Viste da questa prospettiva, le fondamenta del WTO sembrano irrimediabilmente compromesse più dallo scetticismo dei suoi membri, che dalle differenze interpretative sui vari accordi istitutivi, che appaiono incapaci di tenere il passo con le dinamiche degli scambi a livello mondiale. Questo in ragione dei lunghi tempi di gestazione più volte richiamati e dell’inevitabile tendenza al compromesso. Una soluzione realistica al problema non può dunque prescindere da una radicale riforma della disciplina dei sussidi in seno all’OMC. Con l’efficacia dei dazi che appare quantomai in dubbio sul piano economico e sociale, per sbrogliare la matassa del libero scambio è necessario ripensare alla natura e alle funzioni delle istituzioni internazionali, tenendo conto dei radicali cambiamenti, forse irreversibili, rispetto al Washington Consensus.

Il rinnovato interesse per la politica industriale non deve però costituire un alibi per ripetere l’esperienza cinese in chiave occidentale. Le difficoltà nell’attuazione di IRA e Green New Deal dovrebbero consigliare maggior prudenza ai governi nel ricorso alle sovvenzioni per sostenere attività economiche la cui reddittività è incerta. Combinare politiche di intervento pubblico con il ricorso a capitali privati, stimolando al contempo l’innovazione non sono attività in contrasto tra loro, ma devono essere alla base di una soluzione di compromesso tra Stato e mercato da cui dipenderà l’agenda dell’Europa del futuro.

 

 

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