I sessant’anni dai Trattati di Roma: verso una rifondazione dell’Unione Europea?

Lo scorso 1° marzo il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha presentato davanti all’Europarlamento il Libro bianco sul futuro dell’UE. È il contributo della Commissione al dibattito aperto in vista delle celebrazioni del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma (25 marzo), quando è prevista una Dichiarazione congiunta sull’avvenire dell’Unione. Le tensioni che attraversano la sua governance, la disaffezione popolare di cui soffre e le varie minacce dal “mondo esterno” rendono infatti improcrastinabile un intervento adeguato.

Il documento delinea cinque possibili scenari. 1) “avanti così”: business as usual. 2) “solo il mercato unico”: integrazione limitata al mercato interno. 3) “chi vuole di più, fa di più”: maggiore integrazione tra quegli stati che si sentono pronti a farlo. 4) “meno, ma più efficiente”: maggiore cooperazione, ma in un numero limitato di materie (mentre altre tornano agli stati). 5) “fare molto di più, insieme”, ovvero la trasformazione dell’UE in una federazione.

A prima vista è una lista incolore di alternative, criticata infatti per mancanza di coraggio e visione. A ben guardare, però, può trattarsi di una mossa politica ben studiata. Ma alla vigilia di turni elettorali che potrebbero ridisegnare i connotati di molti dei paesi fondatori (nonostante il sospiro di sollievo tirato da molti dopo il voto olandese), e in cui lo scontro politico avviene sulla stessa appartenenza alla UE, schierarsi per un’accelerata dell’integrazione senza se e senza ma sarebbe stata una mossa errata e miope. Coloro che identificano nell’UE, e simbolicamente nella Commissione, la causa principale dei mali che affliggono l’Europa, l’avrebbero additato come l’ennesima scelta calata dall’alto. Nelle capitali europee sarebbe stato di conseguenza cestinato e, probabilmente, financo ritenuto responsabile di esacerbare gli animi anti-europeisti. Non a caso, pare che diversi governi avessero fatto pressioni su Juncker perché la presentazione de Libro bianco fosse rinviata.

I capi di Stato e di governo riuniti a Roma

 

Juncker ha invece richiamato i capi di Stato e di governo alle loro responsabilità, mostrando come la scelta sia essenzialmente nelle loro mani. La Commissione si è infatti storicamente prestata ad essere pioniere e al tempo stesso capro espiatorio del processo di integrazione, ma l’ha sempre fatto con il sostegno degli Stati membri. Ne fu un caso emblematico Jacques Delors, che, spalleggiato dall’asse franco-tedesco (allora composto da François Mitterrand e Helmut Kohl) negli anni ’80 introdusse la politica di coesione dell’Unione – prima e unica, vera politica di redistribuzione intra-UE. E anche Romano Prodi (accompagnato da Jacques Chirac all’Eliseo e Gerhard Schrӧder alla Cancelleria), padre della moneta unica e della politica del grande allargamento.

Nemmeno Juncker – che ha già mostrato un attivismo ignoto al suo predecessore Barroso – ha intenzione di rinunciare a questo ruolo. Innanzitutto, il Libro bianco indica una chiara scansione temporale. In settembre (dunque dopo il voto in Olanda e Francia, le elezioni più “a rischio”) il presidente della Commissione indicherà il suo “scenario preferito” in occasione del discorso sullo stato dell’Unione. Il Consiglio europeo di dicembre dovrebbe decidere definitivamente sulla strada da intraprendere, con un orizzonte ultimo fissato al 2025. Ma Juncker non si è fermato ai tecnicismi: ha già affermato di non apprezzare il secondo scenario, invocando invece la necessità dello sviluppo di un’Europa sociale. Inoltre, in linea con il richiamo alla Dichiarazione Schuman del 1950 con cui si apre il Libro bianco, la Commissione presenterà nei prossimi mesi contributi sull’approfondimento della cooperazione, rispettivamente in materia sociale, di unione economica e monetaria, gestione della globalizzazione e difesa comune.

Poiché mancano le condizioni politiche per il perseguimento della quinta opzione, quella federale, il dibattito nei salotti politici europei si concentra su terzo e quarto scenario. E ciò vale, con sfumature appena differenti, tanto per la Commissione quanto per il Parlamento europeo e gli Stati membri.

L’Europarlamento ha adottato lo scorso 16 febbraio tre rapporti sul futuro dell’UE, che delineano un’Unione più integrata in alcuni settori, a partire dal nucleo costituito dall’eurozona. Si prefigura, in prospettiva, un Ministro delle Finanze europeo con potere rafforzato di controllo sui bilanci pubblici degli Stati ed un budget ad hoc con cui prevenire e curare shock economici. Tutte le norme relative al governo dell’eurozona (a partire da Fiscal Compact e Meccanismo europeo di stabilità) così come gli organi decisionali (Eurogruppo in primis) verrebbero inseriti nel quadro giuridico dell’UE, rendendone il funzionamento più trasparente. La Commissione assumerebbe una connotazione più politica anche grazie all’elezione del suo Presidente attraverso il sistema dei capilista (Spitzkandidaten)– di cui quelle del 2014 furono la sperimentazione in embrione. I testi delineano infine, in modo più sfumato, la costruzione di politiche più integrate in ambito di sicurezza, difesa, immigrazione e stato sociale.

Questi sono anche, mutatis mutandis, i temi individuati il 6 marzo nel vertice a quattro di Versailles – tra Francia, Germania, Italia e Spagna – quali obiettivi di cooperazioni rafforzate. Già in febbraio, Angela Merkel aveva indicato nell’Europa a più velocità (il terzo scenario) l’unica via per far uscire l’UE dallo stallo insostenibile in cui si trova oggi. Lo stesso messaggio forte e chiaro è uscito da Versailles: o ci muoviamo, o crolla tutto. A distanza di qualche giorno, però, già si è registrata una battuta d’arresto.

Dopo essersi, inutilmente, opposta alla rielezione del connazionale Donald Tusk a Presidente del Consiglio europeo, la premier polacca Beata Szydło si è infatti rifiutata di sottoscrivere le conclusioni del Consiglio europeo  – diramate infatti a nome del suo Presidente. Szydło si è dichiarata contraria all’opzione dell’UE a più velocità, ponendosi quale leader naturale dei paesi del gruppo di Visegrád – Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, che una nuova cortina di ferro rischia di allontanare dal resto dell’Unione.

L’Europa a più velocità in realtà esiste già (euro e Schengen sono infatti cooperazioni rafforzate) ma è la prospettiva di proseguire su questa strada a dividere le due parti. I paesi centro-orientali – per nulla propensi a cedere ulteriore sovranità a Bruxelles dopo la dominazione subita nel recente passato ad opera sovietica – temono infatti che ciò comporti per coloro che “rimangono indietro” un affievolimento del potere di influenza sulle decisioni comuni. In particolare, temono le ricadute sulle regole del mercato interno e sull’attribuzione di fondi europei, principali storiche spinte economiche al loro ingresso nell’Unione.

La dichiarazione di Roma dovrà quindi ribadire l’intangibilità del mercato unico e del principio di unità; ma nasce qui un problema di coerenza organica. La dimensione sociale di cui l’Europa ha estremo bisogno per riconnettersi ai bisogni dei suoi cittadini, e che viene posta quale primo nuovo passo dell’integrazione da compiere, costituisce infatti l’altra faccia della medaglia del mercato unico. Non estenderla a quella parte di Unione significherebbe di fatto rimangiarsi l’allargamento, e cristallizzare la situazione di dumping sociale  che da allora pervade l’Unione.

Ma i membri centro-orientali non sono l’unico ostacolo, né la dimensione sociale l’unico aspetto problematico. Anche all’interno del gruppo dei “volenterosi”, infatti, una volta che si tratterà di assumere impegni precisi nasceranno inevitabilmente contrastiin primis sul senso stesso dell’Unione economica e monetaria. L’idea tedesca portata avanti dal potente ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble è infatti quella della creazione di una sorta di Fondo monetario europeo a partire dal MES, che sia chiamato a controllare i bilanci dei paesi dell’eurozona, proseguendo ed inasprendo quindi il paradigma dell’austerità. Non vi è traccia in questo disegno di mutualizzazione del debito né di una vera politica economica europea, che è ciò che permetterebbe invece all’Unione di sistemare il meccanismo inceppatosi a Maastricht con la costruzione della sola politica monetaria comune.. Non solo. Lo sviluppo voluto da Schäuble acuirebbe il deficit di trasparenza e democraticità di cui è colpevole l’Unione agli occhi di molti cittadini europei.

Insomma, quand’anche l’UE superasse indenne lo scoglio delle elezioni del 2017 – la campagna tutta eurofoba di Marine Le Pen, che continua a volare nei sondaggi, non promette niente di buono – la strada sarà tutta in salita. Benché l’intento di Juncker sia chiaro, rimane poi da vedere quanto il suo approccio funzionalista verrà coadiuvato da un più ampio progetto politico, e se gli Stati membri decideranno di farsene carico.

È probabile che la Dichiarazione di Roma sembrerà poco più di una dichiarazione di intenti, ma dopo le elezioni tedesche non sarà più possibile evitare di affrontare i due elephant in the room, profondamente interconnessi nella UE. Da un lato la trasparenza e la democraticità del suo sistema istituzionale e dei suoi processi decisionali; dall’altro l’insostenibilità di una politica monetaria decisa sulla base di regole asettiche e della mancanza di una politica economica e sociale comune. Pena, l’implosione dell’Unione.

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