Sono dinamiche interessanti quelle che si stanno registrando nel Partito Repubblicano in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre, quando – oltre che per svariate corse governatoriali – si voterà per rinnovare la totalità della Camera e un terzo del Senato degli Stati Uniti.
Donald Trump, che si è da tempo ritagliato il ruolo di kingmaker nel partito, sta infatti sparigliando le carte. Un fattore, questo, che si sta rivelando soprattutto in Ohio e Pennsylvania, dove – nel contesto delle primarie repubblicane per il Senato – l’ex presidente ha dato inaspettatamente il proprio endorsement a degli outsider, snobbando così dei candidati più strutturati (che pure gli erano politicamente vicini).
In Ohio, le primarie sono state recentemente vinte da JD Vance, l’autore di Elegia americana, sorta di manifesto dell’America profonda che si è rivoltata contro l’establishment: proprio a lui Trump aveva dato l’endorsement, preferendolo ad altri contendenti, come il tesoriere ultraconservatore dello Stato, Josh Mandel. In Pennsylvania, Trump ha invece sostenuto il medico e noto volto televisivo Mehmet Oz, anziché l’ex manager David McCormick che, pur di assicurarsi l’appoggio dell’ex presidente, aveva assunto nel proprio staff alcuni suoi storici collaboratori (tra cui Stephen Miller e Hope Hicks). Un appoggio, quello di Trump a Oz, che ha non a caso creato una certa fibrillazione nell’Elefantino
Le mosse dell’ex presidente non sono prive di rischi, perché – qualora le candidature da lui sostenute dovessero fallire – ciò verrebbe inevitabilmente considerato un sintomo di debolezza politica da parte sua: sotto questo punto di vista, la vittoria di Vance in Ohio lo ha appunto rafforzato all’interno del partito. Buoni risultati per Trump sono stati anche le vittorie di Doug Mastriano alle primarie governatoriali della Pennsylvania e di Ted Budd a quelle senatoriali del North Carolina. Di contro, si sono per lui rivelati dei duri colpi la sconfitta di Madison Cawthorn, che cercava una riconferma alla Camera come deputato del North Carolina, e la vittoria di Brad Little alle primarie governatoriali dell’Idaho.
Va comunque rilevato che tali endorsement fuori dagli schemi rispecchiano alcuni tratti essenziali dell’ex inquilino della Casa Bianca, storicamente propenso a sconfessare le cristallizzazioni dell’establishment e a promuovere l’idea del “bombardamento del quartier generale”. D’altronde, nonostante questi scossoni, il Partito Repubblicano resta al momento su posizioni generali in buona parte trumpiste. Questo ovviamente non vuol dire che non si registrino delle eccezioni: il caso più eclatante è quello di Liz Cheney – avversaria giurata di Trump – che corre per la riconferma alla Camera nello Stato del Wyoming. Va tuttavia rilevato che, almeno per ora, i settori più anti-trumpisti del partito restano minoritari. Né deve stupire, a tal proposito, la vigorosa raccolta fondi che proprio Liz Cheney sta portando avanti, visto che può contare su un potente network di finanziatori, gravitante attorno alla famiglia Bush.
Guardando la situazione a livello più generale, i repubblicani si confermano i favoriti per ottenere un buon risultato alle elezioni di novembre. Secondo le rilevazioni di Five Thirty Eight, al momento l’Elefantino sarebbe in testa nelle intenzioni di voto generiche per il Congresso, con un vantaggio di circa il 3% sui Democratici. In sei mesi, va comunque ricordato, potrebbe ancora succedere di tutto.
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Va tra l’altro notato che le elezioni di metà mandato presentano una natura, per così dire, duplice: la logica con cui l’elettore medio si reca alle urne in questo tipo di tornata guarda infatti sia alle dinamiche nazionali sia a quelle strettamente locali. I temi che occupano il centro della scena in tali occasioni tendono pertanto ad offrire questa doppia valenza.
Ma quali sono i dossier specifici su cui il Partito Repubblicano sta cercando di compattarsi? L’Elefantino sta innanzitutto affondando i suoi attacchi contro la Casa Bianca in riferimento al problema dell’inflazione, che ha raggiunto il record nell’arco degli ultimi 41 anni: del resto, proprio per l’impatto che una simile situazione economica ha sui cittadini, si tratta di un tema molto delicato, rispetto a cui l’Asinello risulta al momento particolarmente vulnerabile.
Ulteriore fattore coesivo per i repubblicani è quello dell’immigrazione clandestina. A marzo 2022 è stato registrato il picco di arrivi alla frontiera meridionale degli Stati Uniti da 22 anni a questa parte. Un problema non di poco conto per Joe Biden che, quando è chiamato a dover affrontare questo dossier, si ritrova sovente davanti a profonde spaccature in seno al suo stesso partito tra le correnti centriste e quelle più spostate a sinistra. Un terzo fattore coesivo per i repubblicani è l’opposizione all’insegnamento della Critical Race Theory nelle scuole e la difesa della “libertà di educazione”: si tratta di un elemento significativo che, appena lo scorso novembre, ha contribuito a far vincere l’Elefantino in occasione delle elezioni governatoriali in Virginia. Un quarto fattore riguarda poi l’aborto, tornato al centro del dibattito dopo la recente fuga di notizie che ha interessato la Corte Suprema. Sia i Repubblicani sia i Democratici hanno intenzione di dare battaglia sul tema in vista delle Midterm, per quanto, a ben vedere, l’interruzione di gravidanza è una questione che, più che spostare voti, viene generalmente usata dai partiti per serrare i ranghi e mobilitare i rispettivi elettorati.
Più complicata e articolata appare invece la situazione sulla crisi ucraina, rispetto a cui emergono delle differenze interne. Molti esponenti dell’Elefantino, a partire dal senatore Lindsey Graham della Carolina del Sud, con un passato da legale militare dell’aviazione di stanza nell’ex Germania Ovest, sono a favore di una linea dura contro Mosca e, anzi, hanno ripetutamente criticato Biden per essere stato troppo irresoluto, soprattutto durante le prime settimane dell’invasione russa. Dall’altra parte, Repubblicani come il senatore Rand Paul del Kentucky sono decisamente contrari a un coinvolgimento troppo stretto degli Stati Uniti nella crisi in corso. Trump, dal canto suo, ha finora scelto una via di mezzo: ha accusato Biden di essersi fatto turlupinare da Vladimir Putin, ha inoltre definito un “genocidio” quello che sta accadendo in Ucraina, ma ha al contempo detto di auspicare che la crisi possa concludersi con un accordo. In tutto questo, alcune delle posizioni di Trump hanno suscitato reazioni piccate da parte dello stesso Graham.
È comunque scarsamente probabile che la crisi ucraina avrà un impatto diretto sulle scelte degli elettori alle Midterm: i dossier di politica internazionale, per quanto gravi e tragici, difficilmente riescono in se stessi a produrre delle conseguenze su un voto che, come abbiamo visto, segue una logica non poco legata alle dinamiche locali. Questo tuttavia non vuol dire che non possano esserci delle conseguenze indirette. Quando a inizio marzo Biden decretò l’embargo energetico alla Russia, The Hill riferì che il presidente americano aveva ceduto alle pressioni del Congresso, vista la sua iniziale reticenza, dovuta a un timore dell’aumento del costo dell’energia.
È infatti vero che gli Stati Uniti sono meno dipendenti dall’energia russa rispetto all’Unione Europea. Ma è altrettanto vero che Washington sta combattendo contro il caro benzina (almeno) dallo scorso agosto. Ecco perché Biden e altri Democratici temono che l’embargo possa portare a un aumento dei prezzi energetici per i consumatori americani e favorire indirettamente i Repubblicani al voto novembrino. “Sia chiaro: i Repubblicani faranno il tifo per il divieto del petrolio e del gas russi e poi criticheranno l’amministrazione Biden per l’aumento dei prezzi dell’energia”, dichiarò a inizio marzo il senatore democratico del Connecticut Chris Murphy.
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Proprio per far fronte a questo problema, l’inquilino della Casa Bianca ha inviato in quel periodo una delegazione in Venezuela, sperando di ottenere un aiuto in materia energetica. Una mossa rischiosa, in vista delle Midterm, soprattutto per quanto riguarda la Florida: uno Stato sempre più filo-repubblicano, in cui il regime di Nicolas Maduro è fortemente impopolare. In Florida, a novembre, si gioca la riconferma il governatore Ron DeSantis: una figura che nutre serie ambizioni in vista delle primarie presidenziali repubblicane del 2024. Ma questa è un’altra storia, da seguire soprattutto oltre l’appuntamento elettorale dell’8 novembre prossimo.