“Il risultato delle elezioni nel suo complesso è un rifiuto della Große Koalition”. È la sera del 24 settembre 2017 e a pronunciare queste parole è Martin Schulz, il cui partito, la SPD, ha raccolto solo il 20,5% dei voti, il peggior risultato elettorale dal 1949. Poco dopo Schulz sentenzia: nessun nuovo accordo con Angela Merkel, i socialdemocratici ora andranno all’opposizione. Due mesi dopo, sono ormai fallite le trattative per l’inedita coalizione ‘Jamaika’ (CDU-CSU, Verdi, liberali FDP). In quell’occasione (siamo al 20 novembre) Schulz dichiara nuovamente: “Non temiamo nuove elezioni. Non siamo disponibili a entrare in una Große Koalition”. Il colpo di scena arriva il 12 gennaio: Martin Schulz, Angela Merkel e Horst Seehofer (il capo dei cristiano sociali bavaresi) annunciano il primo passo concreto verso una nuova Große Koalition tra CDU-CSU e SPD, presentando già 28 pagine di accordo preliminare.
Un’inversione a U
Anche le dichiarazioni subito smentite dai fatti possono far parte di una calcolata strategia politica. Ma, in questo caso, il cambio di rotta della dirigenza SPD in merito alla “GroKo” colpisce particolarmente. Alla base di una decisione così contraddittoria si possono individuare almeno tre fattori cruciali:
In primo luogo, rimasta unica forza risolutiva nel gioco delle alleanze, la SPD è stata fatta oggetto di un’insistente pressione istituzionale per garantire al più presto stabilità al paese. Pressione di cui il Presidente della Repubblica federale, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, è stato fin da subito l’attore più determinato ed evidente. Se da un lato l’ottimo stato dell’economia tedesca sembra dimostrare che un paese solido possa fare anche a meno di un governo per mesi, l’impasse politica tedesca è stata da tanti percepita come un’onta al country branding della Germania, fatto da sempre di efficienza, stabilità, governabilità. Una buona parte del mondo industriale ed economico si è espressa contro nuove elezioni e avventurismi di altro genere, mentre i partner internazionali hanno caldeggiato una soluzione rapida e indolore. Per una forza di governo come la SPD è stato quindi difficile sottrarsi alla richiesta di anteporre le necessità del sistema-paese alla salvaguardia della propria ragion di partito.
Secondo fattore dietro il cambio di strategia: da un punto di vista meramente matematico, malgrado le spavalde dichiarazioni di Schulz sulle nuove elezioni, una nuova tornata elettorale rischierebbe di portare ben poco beneficio alla SPD. Se si tornasse a votare fra un paio di mesi gli equilibri potrebbero rimanere immutati: forse, i soli partiti capaci di sfruttare la situazione sarebbero la destra populista di AfD e/o i liberali FDP. Questi ultimi hanno fatto saltare l’accordo ‘Jamaika’ proprio perché sicuri di poter prendere qualche punto percentuale in più con una riedizione del voto e, magari, sperando anche nella possibilità di trattare con una CDU svincolata dall’eterna leadership centrista della Cancelliera Merkel.
Terzo fattore, decisivo per il ripensamento personale di Martin Schulz, è stato l’eventualità di poter valorizzare il proprio europeismo in anni che saranno cruciali per il destino dell’Unione Europea. Per l’agenda politica di Schulz l’occasione della presidenza francese di Emmanuel Macron non può essere sprecata: due governi dichiaratamente pro-Bruxelles sono oggi una fortuna insperata per chi crede nella centralità dell’asse franco-tedesco. La narrazione di una nuova GroKo in funzione europeista, del resto, è probabilmente la sola carta che Schulz voglia davvero provare a giocare di fronte al suo partito (ma probabilmente non di fronte al proprio potenziale elettorato, che è molto meno euro-entusiasta di quanto Schulz vorrebbe). Il 7 dicembre scorso, chiedendo un primo nulla osta all’apertura delle trattative con Merkel, Schulz ha d’un tratto rilanciato la prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, da realizzare già nel 2025. Ma virare verso gli Stati Uniti d’Europa da un governo che include la CSU bavarese è sostanzialmente impossibile: infatti nelle 28 pagine dell’accordo accordo non c’è nessun riferimento al federalismo europeo, ma semplici dichiarazioni sulla necessità di rafforzare l’UE, anche economicamente.
Diventa quindi chiaro che con l’annuncio sugli Stati Uniti d’Europa Schulz abbia tentato di dare una nuova visione al proprio partito: l’idea è quella di vincolare un’identità sempre più incerta alla narrazione europeista più convinta, e suggerendo quindi che la nuova coalizione sia un passaggio strategico necessario nel percorso verso un potente rilancio del progetto europeo.
Il fantasma della “pasokification”
Ma la responsabilità istituzionale nazionale e la narrazione europeista sono sufficienti per restituire un’identità vincente alla SPD tedesca? Probabilmente no.
Circa 600 delegati SPD sono ora chiamati ad approvare l’effettiva creazione della GroKo, a cui seguirà anche un referendum aperto ai 450 mila iscritti. La dirigenza del partito confida in una maggioranza a proprio favore e i numeri del congresso dello scorso 7 dicembre, in cui Schulz è stato rieletto segretario con l’83% dei voti, confermerebbero questa tendenza. Ma non c’è davvero niente di scontato e il malcontento di alcuni settori socialdemocratici resta palpabile e ben poco silenzioso.
Già pochi minuti dopo l’annuncio del 12 gennaio, Kevin Kühnert, presidente degli Jusos, l’ala giovanile della SPD, fortemente contraria a una nuova GroKo, scriveva in un tweet: “Sia Schulz sia Seehofer giudicano l’accordo raggiunto come ‘eccellente’ per i loro partiti, vuol dire che almeno uno dei due si sbaglia”. Nelle ore successive, alla voce degli Jusos si aggiungevano quelle di diverse realtà locali della SPD e, rapidamente, anche lo scetticismo di alcune figure di primo piano del partito, come il sindaco di Berlino Michael Müller e Ralf Stegner della corrente interna di sinistra. Molti socialdemocratici iniziano a parlare della necessità di rivedere l’accordo preliminare, tanto che il 14 gennaio la CDU si sente in dovere di replicare che “Quello che è stato deciso è deciso. Tutto il resto non è serio”.
Il fantasma che si aggira tra chi è ostile a una nuova GroKo, tutto sommato, è quello del declino di tanti partiti storici della sinistra europea: una tragedia politica che è stata battezzata pasokification, dal nome del Pasok, il partito socialista greco che, da grande forza di governo, in pochissimi anni si è ridotto all’irrilevanza.
Tra declino e scontro interno
La progressiva erosione dell’elettorato della SPD non è stata fino a ora drammatica come quella dei socialisti greci (o come quella dei francesi nell’ultimo anno), ma è da tempo una costante innegabile. Nel 1998 la SPD tedesca aveva il 40,9% dei voti, nel 2017 ne ha raccolti solo la metà, dieci milioni in meno. In mezzo c’è stato il potente e rilevante cancellierato socialdemocratico di Gerhard Schröder, che ha promosso l’epocale Agenda 2010: un pacchetto di riforme che ha favorito la competitività internazionale della Germania, ma che ha al tempo stesso smantellato una buona parte del welfare novecentesco tedesco.
Dopo l’era Schröder, paradossalmente, mentre la SPD si è contorta su se stessa per giustificare proprio la mutilazione dello stato sociale, a raccogliere i frutti della rinnovata competitività globale è arrivata la cristiano-democratica Angela Merkel, di cui i socialdemocratici sono stati due volte alleati di minoranza al governo, prima nel 2005 e poi nel 2013. Due cicli di grande coalizione, interrotti da quattro anni di blanda opposizione: dodici anni in cui la SPD si è sempre più ridotta al ruolo di comprimaria della vera forza di governo, la CDU, e ha lentamente perso la propria riconoscibilità e unicità politica. Guardando la storia recente del partito riecheggia la frase dello stesso Willy Brandt, padre nobile dei socialdemocratici, che disse: “Se il prezzo è non essere più socialdemocratici, per i socialdemocratici non ha senso raggiungere una maggioranza”.
I giovani socialdemocratici sono allineati con una parte dell’ala sinistra interna della SPD, che da tempo si oppone a quella che considera una pericolosa e controproducente omologazione tra socialdemocratici e cristiano-democratici.
La SPD, dicono, ha sì conquistato, nell’accordo del 12 gennaio, alcuni provvedimenti sociali sui temi della sanità, delle pensioni e degli investimenti, ma ha rinunciato a cavalli di battaglia come l’aumento delle tasse per le fasce di reddito più alte, una riforma davvero strutturale del sistema di sanità pubblica e il rifiuto di forme più o meno esplicite di limitazione all’accoglienza di migranti e rifugiati. Le contestazioni sono pertinenti se si guarda all’attuale incapacità di SPD di cogliere un profondo malessere sociale che continua a esistere in Germania, malgrado i numeri record di crescita e occupazione. Emblematico in questo senso è come, nelle scorse elezioni, i socialdemocratici abbiano perso quasi 450mila voti in favore della sinistra radicale Linke.
C’è di più. Anche se dentro il partito il dissenso arriva solo da sinistra, nel paese reale l’emorragia di voti della SPD non va solo in quella direzione. Se le urgenze sociali sono innegabili, una parte di elettori socialdemocratici ha considerato il partito troppo blando sulle politiche per l’immigrazione, spostandosi verso l’estrema destra AfD. Uno spostamento che nelle ultime elezioni è stato di quasi mezzo milione schede e si è concentrato ad esempio nelle vecchie aree industriali un tempo roccaforti rosse e operaie.
Insomma: da un lato, la socialdemocrazia alleata con la CDU non sembra in grado di parlare agli strati sociali più deboli del paese e sfruttare la propria tradizionale vocazione popolare, dall’altro lato, una parte delle rivendicazioni sociali viene sempre più spesso assorbita dalle dinamiche di etnicizzazione del dissenso proposte della destra identitaria.
Ai voti persi verso gli estremi a destra e sinistra, inoltre, si aggiunge una perdita di credito della SPD presso l’elettorato liberal, che nelle ultime elezioni si è invece in parte riorientato verso partiti dal profilo più definito e riconoscibile, come i Verdi (per chi è più sensibile ai temi ambientali e dei diritti) e la FDP (per chi predilige un’impostazione liberista e meno euro-entusiasta).
L’impressione generale è che, nel tentativo di accontentare tutti, la SPD non riesca più a convincere molti, e che proprio le ricorrenti responsabilità di governo non le abbiano permesso di interrogarsi profondamente sulla propria identità politica e, di conseguenza, su quale sia una proposta convincente per la Germania contemporanea.
La scommessa di Schulz è chiara: la congiuntura economica favorevole potrebbe permettergli di non doversi scontrare troppo con l’alleato cristiano-democratico, riuscendo così a lanciare il brand di una SPD non subordinata che sappia far valere la propria agenda. In questo senso potrebbe essere decisivo conquistare ministeri cruciali come quello degli Esteri e, ancora di più, quello delle Finanze.
Ma Schulz deve anche tenere conto di due aspetti. Il primo è che scommettere su una buona congiuntura economica non è mai sufficiente, neanche in Germania, soprattutto in tempi turbolenti come quelli attuali. Il secondo è che, eventualmente, questo sarebbe l’ultimo governo Merkel: non un governo che apre, ma un governo che chiude, non un governo del rilancio, ma un governo che cercherebbe di mettere in sicurezza il paese di fronte ai cambiamenti geopolitici che si susseguono sempre più velocemente. Che duri quattro anni o addirittura di meno, il destino di un’eventuale nuova GroKo non sarebbe di creare qualcosa di nuovo, bensì di traghettare verso la fine un’intera era della storia tedesca, quella della Cancelliera Angela Merkel.
Questo significa che se il governo avrà successo ne beneficerà soprattutto la CDU-CSU e non i suoi alleati. Il post-Merkel sarà poi un’incognita che promette grandi stravolgimenti e in cui per posizionarsi politicamente sarà necessaria un’identità precisa, riconoscibile, al passo con i tempi. Di fronte allo scenario di governare far nuovamente parte di una Große Koalition, il dilemma per la SPD rischia di essere esistenziale.