Se leggiamo gli articoli di questo numero di Aspenia, le questioni rilevanti sono essenzialmente quattro.
Primo, l’Europa deve recuperare competitività, cosa che richiede investimenti aggiuntivi importanti (circa 800 miliardi di euro all’anno) e il completamento del mercato interno (unione dei capitali, unione bancaria, politica energetica comune, procurement congiunto della difesa). Questo avviene, tuttavia, in un contesto poco favorevole sia per ragioni interne (le divisioni fra gli Stati membri, l’ascesa di forze politiche sfavorevoli a nuove forme di debito comune o di integrazione delle politiche economiche) sia per ragioni internazionali: la pressione, in particolare, che deriva dalle conseguenze della competizione USA-Cina e dalla frammentazione dell’ordine economico globale. In sintesi: le ricette sulle cose da fare sono abbastanza chiare (rapporti Letta e Draghi); riuscire ad applicarle sarà molto difficile.
Secondo, l’Europa ha il problema di darsi una capacità di difesa, in un contesto segnato dalla continuazione della guerra in Ucraina, dalla conflittualità sul fianco Sud e dalle incognite sul ruolo americano. Di nuovo: le scelte da compiere sarebbero abbastanza evidenti, va costruita una NATO più europea attraverso lo sviluppo di una base industriale della difesa e l’aumento delle capacità militari del Vecchio Continente. Ma anche qui: esistono ostacoli politici, continua a mancare una visione comune di politica estera e si è riaperto il vecchio dibattito sull’alternativa fra “burro e cannoni”. Non sarà certo l’istituzione di un Commissario alla Difesa a risolvere il problema.
Terzo, l’Unione Europea si regge ancora sulla maggioranza parlamentare popolari/socialisti/liberali. Per ora almeno, l’opzione di aprire alla destra europea di Meloni non è riuscita. D’altra parte, le due destre europee (quella più moderata e quella più radicale) non si sono unite. Sulle politiche si formeranno coalizioni variabili. Ma l’urto delle elezioni di giugno, con l’ascesa della destra radicale in paesi-chiave come Francia e Germania, appanna il tradizionale motore dell’integrazione europea. È vero che anche i partiti sovranisti hanno rinunciato a parlare di “exit”, si propongono di modificare l’Unione dall’interno. Ma il rischio di stallo è evidente.
Quarto, esiste il nodo decisivo dell’allargamento ai Balcani occidentali e al trio ex-sovietico (Ucraina, Moldavia, Georgia). Qui, la tesi dominante è che l’allargamento si imponga per ragioni geopolitiche: c’è chi propende, come Giulio Tremonti, per una tesi “tutti dentro”. Resta il fatto che – visto l’impatto che il nuovo allargamento avrebbe sulla struttura del bilancio e su una parte delle politiche, a cominciare dalla politica agricola comune – l’accesso di nuovi membri sarà comunque controverso e costoso.
Se mettiamo insieme questi fattori – economici, politici, strategici – la conclusione possibile è che l’Europa rischia seriamente di entrare in una fase di graduale declino, rafforzata dall’inverno demografico. Non sarà una crisi mortale, la disintegrazione rapida. Ma l’UE potrebbe soffrire una lenta erosione.
È il problema centrale di cui prendere atto, senza cadere nel disfattismo o nel fatalismo.
A noi continua a sembrare improbabile una scorciatoia istituzionale, una riforma dei Trattati che permetta un salto federale, per esempio limitando fortemente l’unanimità nel processo decisionale. Esistono le condizioni per farlo? Non pare.
È più razionale pensare che gli europei, accettato il principio che dell’Unione hanno comunque bisogno per riuscire a competere nel sistema internazionale di oggi, compiano una serie di scelte, in parte rivedendo la divisione delle competenze (l’Unione deve concentrarsi su alcuni punti chiave per il futuro) e in parte costruendo un assetto che sommi al nucleo federale dell’Unione economica e monetaria, completato da una politica fiscale degna di questo nome, uno spazio confederale allargato ai Balcani occidentali e all’Ucraina. È l’Unione necessaria per salvare il futuro di Stati membri che non riuscirebbero a competere da soli nel XXI secolo. Non l’Europa pur che sia; ma l’Europa che serve.
Non sarà un disegno facile da realizzare, ma un disegno aggiornato è indispensabile. Specie in un contesto di (in)sicurezza globale che sarà caratterizzato dal problema del contenimento a lungo termine della Russia; dal potenziale allargamento dei conflitti in Africa e in Medio Oriente; e dagli effetti della competizione tecnologica tra USA e Cina, che vede gli europei costretti a scelte difficili di “de-risking”. Insomma: due guerre maggiori (insieme ad altre minori) e una costosa frammentazione dell’economia globale.
Su tutto questo si staglia l’incognita delle elezioni americane di novembre, che per l’Europa, paradossalmente, avrà un risultato abbastanza certo: l’UE sarà comunque “più sola”, chiunque vinca. Verrà il momento della responsabilità europea, nella sicurezza e difesa. Saremo in grado di gestire questo passaggio della storia?
Il quadro interno all’UE deve quindi essere visto, necessariamente, in stretto collegamento con il contesto internazionale. Economia e sicurezza interagiscono in modo diverso dal passato; e in modo più netto. Sarebbe solo un’illusione immaginare di potersi chiudere a riccio e godersi i benefici residui di un “modello europeo” che sta perdendo, uno dopo l’altro, i suoi tradizionali presupposti. Non esiste, nella realtà, un’opzione “Europe first” intesa in questo senso.
E la questione vera è se l’Unione necessaria sia anche l’Unione possibile.
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Vediamo meglio, scorrendo gli articoli di questo numero. I risultati delle elezioni europee hanno dato un messaggio piuttosto chiaro: la buona performance della destra in Francia e la batosta storica subita dalla SPD in Germania, dove continua a salire Alternative für Deutschland, dimostrano che è anzitutto l’insicurezza economica a contare, per i cittadini europei. Una insicurezza combinata, nei due paesi-chiave del Vecchio Continente, al rigetto dell’immigrazione e alle proteste contro il Green Deal. Il cordon sanitaire è destinato a sfumare perlomeno nei contesti nazionali. Le contorsioni della Francia lo dimostrano, insieme ai risultati delle elezioni regionali in Germania. Mentre l’Italia, con il governo Meloni, ha già dato prova che la destra al potere, nei paesi europei, è ormai nelle carte.
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La somma di questi fattori sta grippando il famoso “motore franco-tedesco”, cosa che pone l’intera costruzione europea – che ha sempre avuto bisogno di movimento per tenersi in equilibrio – in una posizione difficile. L’Italia ha un’opportunità di rilancio (pur avendo perso la tradizionale sponda britannica, che a volte era stata assai utile), ma ha un periodo critico da affrontare rispetto al tempo residuo in cui beneficerà del PNRR (fine 2026) e dopo avere deciso di non votare la conferma di Ursula von der Leyen (con i relativi rischi politici).
Naturalmente, il destino europeo non dipende soltanto dalle tre maggiori economie né dal gruppo dei fondatori storici: esistono inquietudini politico-sociali in Spagna e Grecia, e c’è senza dubbio, nonostante le correzioni di rotta in Polonia, un problema di fondo in molti paesi dell’ex blocco sovietico – che purtroppo, a distanza di una generazione, a volte sembra necessario definire ancora così nonostante gli innegabili progressi fatti e la complessiva sensatezza strategica dell’allargamento a Est.
Nonostante lo stallo del motore franco-tedesco che fu e il generale indebolimento del “nucleo duro” pro-integrazione, la destra sovranista non è in grado di espugnare il Vecchio Continente, perché è divisa e perché a Bruxelles resiste il ruolo di un triangolo istituzionale ancora dominato dal rapporto fra Partito popolare, socialisti e liberali. È un’osservazione fattuale ma anche parziale. Metterla così – le cose stanno cambiando negli equilibri nazionali europei ma nulla cambierà per l’UE – non è infatti particolarmente produttivo. Perché l’Europa non ha affatto il problema di restare com’era; ha il problema di evolversi, e anche rapidamente, per potere affrontare le molte sfide dell’età della “policrisi”.
La realtà, come si diceva, è che l’Europa è alle prese con il rischio di un declino strutturale, non congiunturale: potrà essere più o meno lento, più o meno brutale, ma di declino si tratta. La traiettoria demografica, in un continente che vive una sindrome giapponese sul piano allargato, è il primo campanello d’allarme: nessuna società in rapido invecchiamento riesce a restare vitale sul piano economico o a difendere, in modo particolare, i sistemi di welfare. Il secondo segnale è la mancanza di risorse per attuare le due transizioni – energetica e tecnologica – in cui l’Europa è impegnata: se si sommano insieme le reticenze ad attivare strumenti di debito comune, confermate da Berlino, i vincoli fiscali dei bilanci nazionali (con il ritorno in vigore del Patto di Stabilità e di Crescita, seppure riformato) e la riluttanza a investire il risparmio privato nella crescita industriale europea, il problema “risorse” è evidente. La traiettoria negativa è confermata da una comparazione fra l’andamento dell’economia americana e statunitense: nel 1992, i due Continenti avevano una quota simile di PIL mondiale, oggi l’Europa è nettamente dietro agli Stati Uniti, con un reddito medio pro capite dei suoi cittadini inferiore di circa un terzo a quello americano.
Si aggiunge, ma non certo come semplice addendum, il riflesso della guerra in Ucraina. Dal punto di vista della sicurezza, l’Europa torna ad avere una minaccia diretta ai suoi confini orientali: il lungo sogno kantiano è finito, archiviando l’era dei “dividendi della pace”. Il problema è che l’Unione Europea è stata concepita come un’organizzazione per tempi di pace, non per tempi di guerra, e proprio su quei “dividendi” ha edificato il suo sistema di welfare unico al mondo. Le sue capacità di difesa restano largamente affidate alla NATO, che ha appunto consentito quella vantaggiosa distribuzione delle risorse perfino all’apice della Guerra Fredda.
Ma è ormai evidente che l’America non ha più intenzione di sostenere l’onere principale della difesa europea: le sue priorità, nell’epoca della competizione sistemica con la Cina, sono altrove, nell’Indo-Pacifico. E quindi: o la NATO diventerà più europea o non reggerà. Questo significa un aumento delle spese militari – che è in corso ma che sarà difficile alimentare nel medio termine – e lo sviluppo di una base industriale della difesa europea, che è solo agli inizi. Di qui un circolo vizioso, sulle priorità di bilancio: sostenere il peso del welfare all’europea e insieme spendere sulla difesa non è semplice. Se i governi europei provano a farlo, rischiano la sconfitta elettorale. E si entra in un nuovo trilemma: welfare, democrazia, competitività. In assenza di nuove e consistenti risorse comuni, gli europei perderanno qualcosa o parecchio su almeno uno dei tre lati.
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Si è aperto così un dibattito diverso, rispetto al recente passato, sul rapporto tra economia e sicurezza. Una politica industriale a tutto tondo (che l’UE come tale non ha mai avuto) sembrerebbe essere la soluzione per superare i trade-off, ma essa incontra almeno due ostacoli: da una parte, la volontà dei governi nazionali di conservare il controllo diretto di alcune produzioni e filiere “strategiche” nel campo della difesa (e dunque dell’alta tecnologia); dall’altra, l’inadeguatezza di misure puramente difensive per promuovere le produzioni europee, visto che l’innovazione richiede un ecosistema efficiente e dinamico e non soltanto dazi sulle importazioni.
Sul piano della sicurezza, è comunque difficile concepire una capacità di difesa europea senza una politica estera comune: le posizioni su come gestire la Russia di Putin sono forse meno divaricate negli ultimi anni ma non sono certo univoche. E non lo saranno, vedi ancora l’Ungheria di Orban, sulle dinamiche di un futuro allargamento ai paesi dei Balcani occidentali od eventualmente all’Ucraina. Il problema vero è culturale e politico: siamo disabituati a pensare che la pace va difesa, e che la difesa ha – appunto – un costo.
La guerra in Ucraina non pone solo problemi di sicurezza. Ha dimostrato proprio l’entità del contagio fra sicurezza ed economia. Prendiamo l’energia: la fine del legame con Mosca ha danneggiato uno dei famosi pilastri del modello tedesco: l’import di gas a basso costo dalla Russia. La crisi di competitività dell’Europa, rispetto all’America, ha molto a che fare con lo scarto fra i prezzi dell’energia. L’Europa ha perso il serbatoio di risorse collegato all’asse euro-asiatico. Deve ricostruirlo sull’asse Nord-Sud, guardando al ruolo dell’Africa. Cosa semplice a dirsi (il piano Mattei) ma meno semplice a farsi, visto che presuppone capacità diplomatiche e investimenti notevoli. E implica una capacità di recupero. Come dimostra la crisi libica, abbiamo per anni lasciato troppo spazio a Russia e Turchia. Come conferma l’espulsione della Francia dal Sahel, siamo stati divisi sulla questione africana, con le sue conseguenze in termini di flussi migratori. E come indica infine la presenza rilevante della Cina, abbiamo a lungo trascurato il fatto che risorse essenziali per l’agricoltura o la transizione energetica hanno bisogno di nuove partnership con l’Africa. Si misurerà qui, e non solo sul fronte orientale, la capacità dell’Europa di darsi una visione strategica.
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L’Unione Europea è figlia dei tempi di ieri. Va adattata ai tempi di oggi, che vedono una transizione del potere internazionale – fasi sempre rischiose e conflittuali nella storia – e una deglobalizzazione parziale, con il suo impatto sulle catene del valore. In parallelo, l’UE deve affrontare la “doppia transizione” – verde e digitale – il che significa la creazione di un nuovo modello di crescita e di sviluppo sostenibile.
L’Europa, che importa materie prime e deve esportare, ha bisogno di mercati relativamente aperti per vivere. E deve posizionarsi rispetto alla competizione del secolo: la rivalità fra Stati Uniti e Cina, giocata largamente sul predominio tecnologico, come dimostrano le restrizioni sui semiconduttori o gli investimenti rispettivi nell’intelligenza artificiale. Sicurezza e scelte democratiche spingono verso un’America che ha tuttavia tentazioni isolazioniste e protezionistiche. Le priorità economiche anche: l’entità dell’area transatlantica per commercio e investimenti tende a essere regolarmente trascurata.
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Al tempo stesso, esiste l’interesse europeo a mantenere in vita i legami con la Cina, al di là di un limitato “de-risking” in campo tecnologico. Sono sempre più evidenti, d’altra parte, le vulnerabilità collegate a dipendenze eccessive. Attuare il Green Deal, per come è stato impostato, non ha solo le conseguenze economiche e sociali che spiegano una parte dell’esito elettorale di giugno (una percezione diffusa è che i costi si scarichino sui consumatori, mentre le aziende europee restano comunque poco competitive, con poche eccezioni, in chiave globale). Un rischio ulteriore è di passare dalla dipendenza da Mosca per il gas alla dipendenza da Pechino per i materiali e le tecnologie collegate alle energie rinnovabili. I risultati elettorali produrranno quasi certamente un’agenda più pragmatica in materia di transizione climatica. Ma sarà un’agenda che funzionerà?
L’Unione Europea dovrà al tempo stesso impostare con Washington un rapporto più “transattivo”, come fa l’America stessa. Per esempio: gli Stati Uniti non possono chiederci di serrare i ranghi sui trasferimenti di tecnologia alla Cina e intanto decidere nuove tariffe sull’import europeo. Resta il fatto che l’Europa, come dimostra l’evoluzione del governo italiano in materia di rapporti con la Cina, non è nelle condizioni di permettersi ammiccamenti eccessivi verso i rivali autoritari delle democrazie occidentali.
Fra economia e sicurezza, l’Europa potrà combattere il declino relativo del vecchio continente solo a tre condizioni: cambiare agenda, capendo anzitutto che l’istinto per la regolazione non può sostituire investimenti veri nell’innovazione e sviluppi ulteriori del mercato unico; cambiare approccio alle politiche fiscali e della concorrenza, come condizioni di una vera ripresa industriale, anche nel settore della difesa; e riuscire a compiere scelte decisionali molto più rapide, cosa che probabilmente richiede forme di “integrazione differenziata” e quindi una maggiore flessibilità nel funzionamento interno dell’Unione – anche se, come si notava, il superamento della regola dell’unanimità non appare realistico, e forse neppure sarebbe risolutivo di per sé.
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A fronte di queste sfide e di questi progetti incompiuti, come si presenta allora l’Europa all’avvio della nuova legislatura e della nuova Commissione? Come si è visto, esiste un parziale disallineamento tra le spinte elettorali che attraversano vari paesi chiave e l’assetto politico delle istituzioni di Bruxelles. Mentre crescono i segni di una protesta contro l’establishment a diversi livelli, il vertice della Commissione è stato confermato per il prossimo quinquennio, e il decimo Parlamento europeo (con la riconferma anche della Presidente uscente) non ha visto modificate le sue maggioranze (con il PPE primo partito, in lieve crescita, e S&D secondo partito, in lieve calo).
Non solo: le stesse linee principali di policy finora annunciate in termini generali sembrano in forte continuità. Ciò vale per il “green deal”, sebbene destinato ad alcuni aggiustamenti per contestualizzarlo come parte integrante di un’ambiziosa politica industriale; vale per l’allargamento, con tempi lunghi e la promessa di accessione all’Ucraina che si spera forse di gestire come un canale speciale; vale per l’immigrazione, in buona parte “outsourced” a paesi esterni di dubbia affidabilità; e vale infine per il commercio con il resto del mondo, oscillando tuttora tra consapevolezza del suo carattere insostituibile e volontà di regolarlo in modo più vantaggioso e restrittivo.
Il dilemma di fondo resta lo stesso di sempre: l’assetto dell’UE (con l’eurozona, il Mercato Unico e Schengen a fare da nuclei duri ma non coerenti) è in qualche modo zoppo, soprattutto quando l’Unione e i suoi membri devono rapportarsi alle maggiori potenze globali o ad attori internazionali problematici se non apertamente ostili.
Tutto questo conduce a un’unica conclusione: nella sua configurazione attuale l’UE non sfrutta fino in fondo il suo potenziale “aggregato” e rischia costantemente di ridursi al minimo comune denominatore fino quasi a perdere consistenza – rischio su cui certamente puntano deliberatamente alcune controparti esterne.
Su questo sfondo, è possibile che un maggiore consenso converga finalmente attorno all’idea di competitività (aggregata) europea. Ossia, attorno alla consapevolezza dei costi sistemici della frammentazione in campo finanziario, tecnologico ed energetico. Su tale presupposto, si potrà forse costruire una più stretta integrazione in settori come quello dei capitali e del debito, senza la quale sarà impossibile finanziare i costosi progetti a cui abbiamo accennato sopra. D’altra parte, la difesa e la politica estera continueranno a richiedere un approccio di tipo “confederale”, che dovrà però garantire maggiore efficienza nel mettere a disposizione risorse concrete (denaro e asset operativi) e nell’impiegarle sul campo quando necessario.
Non ci sembra realistico affidarsi a riforme più radicali verso la piena statualità, come alcuni legittimamente suggeriscono con grande convinzione, ipotizzando una nuova fase “costituente”. L’alternativa migliore è tuttora un mix di livelli di governance differenziati, per superare ad esempio l’impasse che è emersa sul tema decisivo dell’Intelligenza Artificiale: Bruxelles ha puntato moltissimo, nel gestire la prima fase “operativa” dell’AI che stiamo vivendo, sulla sua capacità di definire regole e standard che anche altri avrebbero alla fine adottato; ci si è però presto resi conto che si può forse regolare in termini legislativi, ma le norme non sono sufficienti a generare le risorse necessarie per rendere l’UE competitiva in chiave globale. I problemi posti dai rapporti Letta e Draghi restano irrisolti in questo campo come in altri: massa critica (cioè stretta integrazione) e risorse consistenti (circa 800 miliardi di euro all’anno) sono insostituibili.
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Torniamo così alla natura strutturale dei rischi che corre l’Europa. La ripresa prepotente di conflitti violenti e di grave instabilità non lontano dai confini comuni – Medio Oriente, Sahel, e naturalmente Russia-Ucraina, il che vuol dire dai Baltici al Mar Nero – avviene mentre mostra tutti i suoi limiti il modello su cui si è basata la competitività europea – al cuore, un modello tedesco-francese. E tutto ciò coincide con un riorientamento complessivo, per alcuni aspetti incerto, delle priorità strategiche americane: è per questo che, nonostante la persistente centralità del rapporto transatlantico, dobbiamo analizzare lo scenario che in questo numero di Aspenia abbiamo definito di un’Europa “più sola”. In sostanza, si tratta di assumersi maggiori responsabilità dirette rispetto al recente passato: la delega non è più possibile.
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È venuto il momento di passare dalla constatazione dei problemi, registrata ad esempio dal senso di scontento descritto nel “Watch” di Lorenzo Pregliasco (la percezione dei cittadini europei è perfino peggiore di quello che suggeriscono i dati quantificabili), al passo successivo: la ricerca di soluzioni funzionali e innovative. E soprattutto la ricerca dei modi e delle condizioni per riuscire ad attuarle, evitando la crisi annunciata di un’Unione Europea che funzionerà solo se aiuterà gli Stati membri a competere nel mondo di oggi. È l’Unione necessaria. Ma è anche l’Unione possibile?
Editoriale del numero 3-2024 di Aspenia