Agli inizi degli anni Novanta, l’implosione e disarticolazione dell’impero sovietico avevano indotto molti a ritenere che ormai la storia del mondo non dovesse più riservare grandi sorprese, almeno per l’orizzonte temporale in quel momento prevedibile. Il modello di sviluppo connotato da democrazia politica ed economia di mercato aveva prevalso su quello autoritario con economia pianificata, dimostrando non solo la forza, ma l’inevitabile mancanza di alternative di quel modello. Il politologo Francis Fukuyama si era espresso in termini millenaristici, parlando di “fine della storia”, e in molti ci avevano creduto.
Trent’anni dopo, il quadro che abbiamo davanti, e che ci resterà di fronte per molti altri anni a venire, non potrebbe essere più diverso. Non solo il modello di sviluppo che sembrava inevitabile non ha trionfato ovunque, ma la grande tela degli eventi mondiali si è strappata in più punti e ci troviamo oggi a fronteggiare una crisi globale per la quale le formule di risoluzione appaiono ogni giorno più lontane e più complesse. Non potrebbe essere che così, perché una crisi può anche essere globale, ma richiede comunque azioni risolutive su molteplici scale locali. Ma poi, e soprattutto, l’espressione “crisi globale” va meglio specificata per non dare l’impressione errata. Non si tratta infatti di una crisi, ma di molte crisi, ognuna con le proprie caratteristiche, il proprio quadro temporale e le proprie complessità. Sono crisi a vasto raggio e, quando si sommano, creano un rischio globale.
Nel rapporto Macrotrends 2024 (uno studio annuale sui trend futuri, realizzato da Harvard Business Review Italia) le definiamo, non a caso, “policrisi”, o crisi multifattoriali, e delineano un nuovo quadro di diversa globalizzazione, con crescenti tensioni interne che evidenziano una sempre più acuta frammentazione in un quadro multipolare. Quali siano le crisi in atto è sotto i nostri occhi e sono senza ombra di dubbio le gravissime tensioni geopolitiche a porsi davanti, e sopra, ogni altra.
Se, fino al 7 ottobre scorso, la crisi più recente, violenta e condizionante era rappresentata dalla guerra imperialistica russa ai danni dell’Ucraina, è oggi di certo il rinnovato conflitto mediorientale a rivendicare il poco invidiabile primato. Due crisi con un connotato comune, poiché si tratta di conflitti che vanno ben oltre il confronto diretto tra due contendenti (nel primo caso Russia e Ucraina, nel secondo caso Israele e Hamas) per debordare verso quello che Putin stesso ha evocato come uno “scontro di civiltà”, utilizzando l’espressione coniata trent’anni fa da Samuel Huntington.
Sul lato “anti-occidentale”, la Russia non è, infatti, sola poiché ha, talvolta alle spalle e talvolta a fianco, altri Paesi come la Cina, la Corea del Nord, l’Iran e altri fiancheggiatori poco amanti dell’Occidente a guida USA. Analogamente, nell’aspro conflitto mediorientale, Hamas gode del sostegno iraniano e di alcuni Paesi arabi, ma nei fatti anche dell’intera galassia islamica, con un consenso che arriva a coinvolgere ampie fasce di opinione pubblica occidentale, specie a sinistra.
Sull’altro lato, un fronte composto da Paesi che, sia pure diversi fra loro, condividono il modello di sviluppo occidentale e, molto spesso, partecipano ad alleanze sia di tipo militare (NATO) sia a istituzioni economico-commerciali generali (WTO, IMF, altre), sia finanziarie e monetarie. Si intensifica, così, un confronto che, ben lungi dal tendere a risolversi in un ragionevole negoziato fatto di compromessi da ambo le parti, si sta pericolosamente estendendo e allargando, lasciando il resto del mondo a sperare che non si debba mai arrivare a un confronto globale decisivo.
In un contesto globale già incrinato da tempo dal confronto tra USA e Cina, le onde d’urto dei conflitti in atto riverberano in molti altri settori influenzando i rapporti commerciali, le scelte di politica economica, le strategie e le politiche energetiche (che, a loro volta, impattano su quelle relative al cambiamento climatico), la ricerca scientifica, le opzioni tecnologiche, i mercati delle risorse, le stesse scelte d’investimento di istituzioni e persone, e le opzioni a disposizione delle imprese.
Gli effetti di scomposizione, o frammentazione, del quadro di prevalente globalizzazione non sono iniziati con la guerra russo-ucraina, poiché sono in atto da almeno vent’anni, ma l’accelerazione è indiscutibile. Nel contesto globale, quel multilateralismo che a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale aveva consentito una crescita senza pari di tutti i Paesi del mondo, sia pure con profonde differenze, aveva già preso ad allentarsi. Il nuovo confronto a tutto campo tra Cina e Stati Uniti, in progressione da molti anni, stava già generando la ricomposizione delle alleanze in chiave regionale e il risorgere di un protezionismo commerciale fatto di obiettivi di salvaguardia dell’economia e della tecnologia nazionali, ma anche di sanzioni punitive tese a indebolire e isolare l’avversario. Un gioco a somma negativa che, inevitabilmente, non riguarda solo le due superpotenze, ma si ribalta anche sui comprimari: l’Unione Europea, il Giappone, l’Australia e altri Paesi più timorosi di una prospettiva egemonica cinese che di un condizionamento, o in qualche caso vassallaggio, legato alla potenza economica e militare statunitense.
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L’intreccio di elementi geoeconomici, geopolitici e tecnologici è, come dovrebbe sembrare chiaro, del tutto inestricabile e sta connotando questo primo quarto di XXI secolo, con ottime probabilità di caratterizzare anche il secondo quarto.
I nuovi “non allineati”
Quando, nel Rapporto, si parla di globalizzazione frammentata o di ri-globalizzazione si fa esplicito riferimento al quadro ora accennato. Rispetto al quale va aggiunta una ulteriore componente, quella che definiamo dei Paesi “nuovi non allineati”, di norma collocati in quello che oggi è definito il “Sud globale”. Nuovi perché non combaciano di norma con quelli che cinquanta-sessant’anni fa componevano il fronte dei non allineati, decisi a non farsi condizionare dallo scontro diretto USA-URSS e alla ricerca di una “terza via” che aveva caratteri tanto politico-ideologici quanto militari ed economico-commerciali. Le potenze medio-piccole di allora avevano come primo obiettivo di non farsi stritolare come vasi di coccio dallo scontro tra i grandi e potenti vasi di ferro, ma avevano scarse possibilità di rappresentare un polo realmente consistente a causa della debolezza, individuale e di gruppo, in termini sia politici che economici.
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Oggi i nuovi allineati hanno caratteristiche assai più rilevanti, poiché se decenni fa i campioni erano costituiti da Indonesia, Jugoslavia ed Egitto, oggi hanno la caratura di India, Brasile, Turchia e Sud Africa, cioè Paesi che o sono già o sono in procinto di divenire grandi (perfino giganteschi) protagonisti dell’evoluzione del mondo. La scelta di evitare un eccessivo apparentamento con uno o l’altro dei fronti delle grandi potenze odierne comporta, come in passato, il rifiuto di schierarsi apertamente, ma induce, più che in passato, ad approfittare opportunisticamente dei vantaggi che l’uno o l’altro dei grandi poli possono offrire per ampliare la propria orbita. Scelte opportunistiche che sono spesso solo temporanee, in attesa che si manifesti un miglior offerente, ma sempre spregiudicate, per trarre vantaggio da una situazione crescentemente conflittuale e frammentata.
Cambiamento climatico e transizione energetica
Se questa è la grande tela geostrategica ormai prevalente, con un numero crescente di piccoli e grandi strappi al proprio interno, su di essa irrompono molti altri punti di crisi di diversa intensità che rendono la situazione globale sempre più complessa e meno governabile. Al primo posto è ragionevole porre la crisi climatica e la connessa transizione energetica. Il tema è straordinariamente ampio e complesso e non a caso qualunque indagine o sondaggio di opinione nell’uno o nell’altro Paese lo mette in testa a tutto. Certo, non in modo permanente o esclusivo, perché spesso in ballottaggio con un altro grande timore dei cittadini di tutto il mondo, quello delle diseguaglianze, della pauperizzazione incombente e delle incertezze sul lavoro, su cui torneremo più avanti.
Macrotrends ha analizzato, fin dal 2014, il trend crescente della crisi climatica e delle politiche energetiche richieste per superare più o meno indenni un ipotetico punto di svolta più volte annunciato dalle istituzioni e dalla scienza come imminente. E nel corso degli anni si è dato conto della miriade di iniziative e azioni messe in atto per realizzare un passaggio incredibilmente difficile, ossia quello della decarbonizzazione del modello di sviluppo prevalente da oltre duecento anni nel breve orizzonte temporale posto come obiettivo, ossia i prossimi dieci, quindici, massimo vent’anni. Di fronte a quello che oggi appare come un fenomeno di riscaldamento globale in corso e del tutto non evitabile, occorre prendere atto che le misure adottate sono largamente insufficienti e che nell’arco temporale prevedibile (dieci anni?) non sarà possibile raggiungere gli obiettivi considerati minimali per evitare conseguenze irreversibili.
Occorre, infine, aggiungere il grande, e spesso poco definito, tema sanitario. Non c’è dubbio che la grande pandemia degli anni passati, peraltro non ancora del tutto esaurita, abbia avuto un ruolo sia attivo che passivo nel quadro di policrisi. Tenendo sempre in primo piano, per i suoi costi umani ed economici, i milioni di vittime generati in tutto il mondo, vanno sottolineati i costi ancora più ampi proiettati sui sistemi sanitari colti all’epoca sostanzialmente impreparati e oggi chiamati ad affrontare nuove possibili pandemie dello stesso o di altri tipi. Le politiche sanitarie hanno subito un impatto negativo del sovrapporsi del conflitto imperialistico russo ma, a loro volta, vanno sempre più coordinate con le politiche relative al cambiamento climatico e alle esigenze poste dalla transizione energetica.
Lavoro, economia e tecnologia
Il quadro economico-finanziario e quello commerciale globale risentono in modo specifico degli effetti delle crisi finora richiamate ed esercitano specularmente la loro influenza. Per il futuro prevedibile, sulle prospettive di crescita pesano alcuni fattori che hanno assunto maggiore importanza negli ultimi anni quali un elevato livello di debito interno ed esterno in molti Paesi, un ritorno dell’inflazione legato al rincaro delle risorse, ma anche alla pressione dei costi di diversi servizi internazionali (logistica, trasporti) e un conseguente irrigidimento delle politiche monetarie dopo un decennio di allentamento, con inevitabile e connesso incremento dei tassi d’interesse. Più a lungo termine, agiscono fattori più strutturali quali l’invecchiamento della popolazione nei Paesi più avanzati (ma ormai anche in Cina), l’accelerazione delle politiche di contrasto al cambiamento climatico e l’intensificazione dei programmi di transizione energetica, come già menzionato. Dunque, un quadro di minore crescita e maggiore complessità, in un contesto globale meno coeso e in un mercato globale più frammentato, nel quale le imprese devono realizzare le loro strategie di crescita e di competitività.
Un ulteriore fattore di ampia e intensa portata va tenuto presente e inserito nel quadro, ed è quello rappresentato dallo sviluppo tecnologico, sempre più rapido e pervasivo, e con al centro un’accelerazione della penetrazione del digitale e, in particolare, dell’intelligenza artificiale.
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Sugli effetti a largo raggio dell’impatto delle tecnologie non vi è, per la verità, un consenso generale. Si confrontano, e non da oggi, due visioni contrapposte che vedono, nella versione meno ottimistica, un effetto limitato di tecnologie anche rivoluzionarie sulla produttività e sullo sviluppo economico, e in quella invece più ottimistica effetti estremamente virtuosi in termini non solo di produttività, ma anche di liberazione del lavoro da compiti pesanti e poco gratificanti, essenzialmente frutto di una forte introduzione dell’intelligenza artificiale, in particolare quella generativa, nelle imprese sia di produzione che di servizi.
Il dibattito su questo tema così rilevante è intenso e aperto, senza che questo consenta oggi di avere certezze sugli effetti a lungo termine sulle imprese e sul lavoro di tecnologie in rapidissima evoluzione.