I palestinesi senza rappresentanza e senza voce

Il mondo ha deciso. Punta tutto sull’Autorità Palestinese. Per il futuro di Gaza, è l’ipotesi più gettonata. In realtà, prima che il 7 ottobre sviasse i riflettori altrove, era quasi (letteralmente) alla bancarotta. Ha debiti per 3,7 miliardi di dollari – su un PIL di 19. Le cifre non sono proprio precise: il Consiglio Legislativo è stato sciolto nel 2018, e quindi non si ha un bilancio. A Ramallah si governa per decreti. E si spende e basta.

 

Ma in questi giorni tutti guardano a Mahmoud Abbas. A Marwan Barghouti. Mohammed Dahlan. Mustafa Barghouti. Salam Fayyad. I soliti nomi. Gli stessi della Seconda Intifada (dal 2000), e spesso, anche della Prima Intifada (dal 1987). Anche se l’età media, qui, è 21,3 anni: un quarto di quelli di Mahmoud Abbas. E giusto quelli che Marwan Barghouti ha trascorso in carcere.

Il più richiesto dalla stampa è come sempre Mustafa Barghouti. Perché è un medico, è laico, ha studiato a Stanford, legge e rilegge Gramsci, è contro ogni violenza: è molto europeo.  Molto come noi. Ero la sua portavoce. E continuo a intervistarlo per testate di ogni dove. Ma nell’introdurlo, posso davvero dire, come dico, che si è candidato presidente, ed è arrivato secondo dopo Mahmoud Abbas? Tecnicamente, è vero. Ma si è votato nel 2005. O quando dico che è deputato: il Consiglio Legislativo non si riunisce dal 2009. Sta mediando tra Fatah e Hamas per un governo di unità nazionale? Sì. Ma dal 2007. Mahmoud Abbas è “il Presidente”. Certo. Ma il suo mandato è scaduto 14 anni fa. Quanto contano realmente quelli con cui parliamo? Cosa diciamo, quando diciamo: “i palestinesi”?

A cavallo tra anni Ottanta e Novanta, mentre tutto intorno erano al potere i vari Saddam, Gheddafi, Mubarak, e nessuno aveva voce, qui si aveva la Prima Intifada, guidata dai Comitati Popolari; e una società civile viva e vibrante che era ammirata ovunque. Non esiste più niente. Le agenzie dell’ONU e le ONG, arrivate dopo Oslo per oliare il processo di pace con milioni di dollari, hanno via via sostituito la politica con la tecnica, e trasformato gli attivisti in funzionari. Esecutori di agende definite altrove. E Fatah e Hamas hanno travolto il resto. Annientando ogni dissenso. La Cyber Crime Law, voluta da Mahmoud Abbas nel 2017, vieta la diffusione di notizie “che minano la sicurezza dello Stato”: e qualifica come reato anche un tweet, anche un like su Facebook, con pene maggiori che per furto e stupro.

Israele non avrebbe mai immaginato il 7 ottobre; ma neppure i palestinesi. Niente viene più discusso. Niente viene più deciso insieme. Ma anche un altro fattore ha giocato un ruolo di primo piano: il Muro. Che alla divisione tra Gaza e la West Bank, ha aggiunto quella interna alla West Bank. Ormai, qui ogni città è quasi un mondo a sé.

 

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Jenin è un po’ l’icona: è quella che più corrisponde alla nostra idea di Palestina. Perché è la città in cui è stata fondata Islamic Jihad, ed essendo a ridosso della Linea Verde, a ridosso di Israele, è la città in cui si organizzano gli attentati suicidi, è la città più intransigente: in cui è sempre battaglia. Ma in realtà, è una città unica: perché è la città degli Zubeidi. Una dinastia della resistenza. Jenin è come se fosse principato. Con una traiettoria tutta sua, indipendente da Fatah e Hamas.

Nablus apparentemente è simile, è la città dei Lions’ Den, i ventenni che per primi sono tornati alle armi, avviando questa specie di Terza Intifada, è un’altra città di raid continui: e invece è la città di Munid al-Masri. L’imprenditore che, da solo, controlla oltre metà dell’economia della West Bank. E i Lions’ Den sono stati costretti alla resa. Non da Israele, e neppure dall’Autorità Palestinese: da Nablus stessa. Che è una città tutta concentrata sugli affari.

Hebron è il bastione di Hamas. Ed è la città in cui nel 1967 si sono insediati i primi coloni, perché per gli ebrei, è la città di Ma’arat HaMachpelah, le Tombe dei Patriarchi. Tanto che negli accordi di Oslo è stata oggetto di un protocollo a sé. Che ha ripartito la sua Città Vecchia in un’area H1 per i palestinesi e un’area H2 per gli israeliani. Ma il resto di Hebron è come un’area H3. Una città di industria e artigianato, e che però, a differenza di Nablus, produce per l’export: e quindi in società con imprese israeliane. Per questo Hebron è il bastione di Hamas, sì, ma non è mai come Jenin e Nablus.

 

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Betlemme, invece, con la sua Basilica della Natività, più che un’altra città è un altro Paese. Vive di turismo. Così come Jericho vive di contrabbando. Come ogni città di frontiera. Ramallah poi è una bolla. Tutta caffè e bar e musica fino all’alba. Ramallah è la città in cui si ferma larga parte dei fondi internazionali: lì la sera si guarda il calcio in TV anche quando a Gaza si bombarda, e tutti gli altri guardano al-Jazeera.

Ma quanto di tutto questo è visibile? Quanto di tutto questo entra nelle nostre analisi? Esaminiamo le varie correnti di Fatah, i vari leader di Hamas: ma è abbastanza? Perché l’unica certezza, per ora, è che qui nessuno pensa a nuove elezioni. Si pensa al futuro della Palestina. Quello dei palestinesi, non è all’ordine del giorno.

 

 

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