La fiammata del ritorno di Covid-19 in Cina, all’inizio dell’estate, ha creato timori in tutto il mondo e in particolare in Asia orientale, dove si teme che nuovi focolai di infezione riportino indietro le lancette dell’orologio. Non ovunque: il Giappone per esempio ha tolto lo stato di emergenza e Paesi come Taiwan o la Corea del Sud sono abbastanza tranquilli sulla capacità di governare possibili nuovi picchi, forse anche grazie al loro relativo isolamento geografico. Nel Sudest asiatico, la vasta regione al confine meridionale della Cina, le cose sono un po’ diverse.
I Paesi hanno reagito sin dall’inizio della crisi con modalità differenti e la paura non è certo passata, specie in Indonesia e Malaysia, che presentano ancora i tassi più alti di infezione. Ma il timore di una ripresa è contagioso anche per chi ha meno infetti e riguarda in particolare quelli che potremmo chiamare i “Paesi della cintura”: Paesi che non hanno molti casi di contagio ma che proprio per questo continuano a tenere alta la guardia.
Sono in particolare i quattro Stati che confinano con la grande Cina Popolare – dunque i più vicini geograficamente al primo focolaio di Wuhan,e quindi, a rigor di logica, i più esposti. Come un po’ ovunque nel Sudest, vi abitano comunità cinesi della diaspora e, soprattutto, sono crocevia di un intenso via vai commerciale e di una grossa circolazione di persone da e verso la Cina, e si trovano sulla rotta di lavoratori stagionali impegnati nei grandi lavori della Nuova Via della Seta.
Eppure, Cambogia, Laos, Vietnam e Myanmar sono tra gli Stati meno colpiti al mondo. E’ una sorta di mistero perché si tratta di Paesi poveri, con evidenti casi di sottosviluppo, malnutrizione, povertà e, soprattutto, con una struttura sanitaria di base – fatta forse esclusione per il Vietnam – fragile e, in diverse aree, inesistente. Come è possibile dunque che siano tra i pochi Stati al mondo a essere sostanzialmente immuni dal virus? Con l’esclusione del Myanmar, che ha avuto sei decessi, sono tutti Paesi dove il virus non ha ufficialmente fatto vittime e dove la somma dei casi di infezione non arriva a mille. Davvero poco su un totale di circa 180 milioni di abitanti. Qual è il segreto del “mistero della cintura”?
Alcune misure di sicurezza sono state prese con estrema celerità appena si è capito che il virus scoperto a Wuhan, non meno di quello della Sars del 2002-4, poteva diffondersi a macchia d’olio. Con l’esclusione della Cambogia (interessata da un fenomeno particolare che vedremo più avanti) tutti hanno chiuso subito le frontiere con la Repubblica Popolare, con una scelta commercialmente dura ma intelligente. Chiuse le vie d’accesso terrestri e in seguito aeree, son stati isolati anche interi villaggi appena un solo caso di contagio veniva registrato (in Vietnam succedeva già in febbraio) e allestite quarantene in luoghi come i monasteri (in Myanmar) sapendo di avere strutture cliniche troppo fragili.
In tutti i Paesi i positivi sono stati subito isolati negli ospedali o in luoghi approntati ad hoc ma anche identificati e resi noti (senza il nome) per età, sesso e residenza. Ciò ha permesso di identificare le aree a rischio mentre chi era del posto poteva capire se fosse entrato in contatto col malato e autodenunciarsi. Questo sistema, attivo soprattutto in Vietnam e Myanmar, ha permesso di prendere tempo: tempo necessario a rifornirsi di mascherine, respiratori e medicinali.
In Laos si è seguito lo stesso modello mentre la Cambogia (l’unico Paese sui cui c’è qualche dubbio sulla trasparenza dei dati) ha seguito una strada ondivaga: ha inizialmente sottostimato il rischio e tenuto aperte le frontiere consentendo ai cinesi addirittura di passare per la capitale Phnom Penh se dovevano raggiungere dalla Cina altri Paesi. Ma è anche vero che a inizio 2020 le autorità cambogiane avevano registrato un esodo di massa della comunità cinese valutato in 447.676 persone – di cui oltre 300mila con visto long-term – che avevano lasciato il regno al 1° gennaio.
La peculiarità cambogiana sembra legata in realtà a un fatto particolare: il decreto che a fine 2019 ha dichiarato illegali il gioco d’ azzardo online a Sihanoukville città in cui dal 2017 imprese cinesi hanno iniziato a costruire casinò, alberghi, sale da gioco in gran parte rese attraenti proprio dalla possibilità del gioco d’azzardo. Quando però diventa chiaro che il governo fa sul serio, a fine 2019 i cinesi lasciano Sihanoukville: ve ne vivevano stabilmente 80mila, cui vanno aggiunti i lavoratori stagionali e soprattutto i giocatori che fino a quel momento avevano usufruito di pacchetti vacanza-gioco valutati al ritmo di 200 voli a settimana dalla Cina. Più del Covid ha potuto il gioco.
A parte il caso cambogiano e la bolla speculativa di Sihanoukville, diventata una sorta di città fantasma con centinaia di edifici in costruzione abbandonati, restano le domande sui Paesi della cintura. La tesi più semplicistica è che si tratta di regimi autoritari (Laos e Vietnam), di dittature mascherate (Cambogia) o di “democrazie” imperfette come nel caso del Myanmar, dove i militari, al potere per decenni e che si avvalevano di una struttura di spie diffusissima probabilmente ancora in essere, continuano a dettare legge. Ma è una tesi, che pur avendo le sue basi, risulta riduttiva.
Nella maggior parte dei casi sembra semmai aver funzionato una logica cultural-tradizionale di autodisciplina di villaggio dove la salute resta un bene collettivo da preservare. In Myanmar, ad esempio, in ogni quartiere è stato allestito un posto di blocco – gestito dalla comunità – dove era obbligatorio fermarsi per lavarsi le mani. Stupiva l’assenza di polizia per far rispettare gli ordini e l’uso della mascherina, ancora in vigore nei luoghi affollati o nei ristoranti che – con un divisorio tra avventori – hanno riaperto quando, circa un mese fa, le direttive di lockdown sono state allentate. Una sorta di disciplina e autodisciplina collettiva collegata anche alla pregressa esperienza della Sars col vantaggio che le autorità hanno preso misure immediate veicolate soprattutto (tv, social media, telefoni) con messaggi chiari e univoci (lo stesso non è avvenuto nelle Filippine, in Indonesia o in Malaysia).
Infine sembra essere stato rilevante l’aiuto cinese: non solo in termini di forniture ma di “consigli” su come gestire la pandemia, una scelta condivisa da subito tra tutti i Paesi dell’Asean (l’organizzazione regionale di 10 Paesi del Sudest asiatico) anche se poi ognuno ha seguito una via “nazionale”. Quanto alla Cina, Pechino ha tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti coi Paesi avanguardia della One Belt One Road, i confinanti appunto alla sua frontiera meridionale.
Va aggiunto un altro elemento: la trasparenza sui casi di Covid-19, cui già abbiamo accennato. Osservatori, diplomatici e accademici sono abbastanza concordi nel ritenere che la verità sia stata una scelta comune, intelligente quanto necessaria. Lo conferma, nel caso del Vietnam, il dibattito sviluppatosi nel Vietnam Studies Group, un gruppo online di accademici e ricercatori, che ha sostanzialmente confermato il fatto che il Paese non ha nascosto i dati.
La paura della seconda ondata non è comunque passata. E’ connessa soprattutto al fatto che gli ultimi casi di Covid-19 registrati sono in gran parte persone che rientrano nel Paese d’origine. E’ il motivo per cui il Myanmar ha deciso di prolungare la chiusura degli aeroporti e praticare una strettissima sorveglianza su chi rientra via terra. Con una complicazione in più: mentre tutti gli altri Paesi hanno frontiere, seppur porose, fortemente controllate, il Myanmar ha a che fare con interi buchi neri lungo il confine: città e aree che sfuggono al controllo del governo centrale quando non sono apertamente in guerra, come nel caso degli Stati del Rakhine e del Cin. Spinti dall’emergenza virus che ha suonato l’allarme anche nei campi profughi di Cox Bazar, molti rohingya (la minoranza perseguitata e sempre problematica) rifugiatisi in Bangladesh hanno tentato clandestinamente di tornare a casa: intercettarne alcuni ha permesso di scoprire che vi erano dei positivi. Lo stesso vale per gli sfollati interni nel Rakhine: circa 150mila che vivono in condizioni precarie di assistenza. E’ un tema su cui al momento sappiamo poco anche perché le aree di guerra sono sotto il controllo dell’esercito, che agisce sicuramente con meno trasparenza del governo civile anche perché il Rakhine e isolato da Internet e l’accesso per le organizzazioni umanitarie avviene col contagocce.
In sostanza, un quadro composito quello della “cintura” asiatica meridionale, che comunque merita di essere ancora monitorato: la vicenda del Covid-19 non è finita, né nel suo originario epicentro cinese né altrove.