“Questo è il momento più importante nella storia dei Socialisti Democratici d’America ”, ha sostenuto recentemente un loro membro, il noto storico Maurice Isserman. E le cifre sembrano dargli ragione. La piccola organizzazione (Democratic Socialists of America, DSA), sorta a inizio anni Ottanta, ha visto il suo numero d’iscritti passare in appena tre anni da 6mila agli attuali 46mila; la sua presenza sul territorio si è fatta più diffusa e capillare, con più di 200 gruppi attivi in tutti i 50 stati; l’età media degli aderenti si è dimezzata, dai 68 anni del 2013 ai 33 di oggi. Soprattutto, la decisione di partecipare a varie primarie democratiche per la Camera dei Rappresentanti e per assemblee legislative statali ha conferito ulteriore visibilità ai DSA, e lanciato sul palcoscenico nazionale figure finora sconosciute a partire da Alexandria Ocasio-Cortez, la 28enne che nel 14° collegio di New York ha sconfitto un pezzo da novanta dei democratici come Joe Crowley.
Come si spiega questo improvviso irrompere dei DSA nella scena politica statunitense e i successi, del tutto inattesi, ottenuti negli ultimi mesi? Le spiegazioni sono plurime e tra loro strettamente intrecciate. Proviamo però per comodità analitica a elencarle una a una.
La prima, la più semplice e banale, si lega a processi di polarizzazione politica ed elettorale fattisi negli ultimi sempre più acuti. Di fronte a un partito repubblicano spostatosi su posizioni estreme e in taluni casi – si pensi alla decisione d’impedire a Barack Obama di nominare un sostituto del giudice Antonin Scalia alla Corte Suprema – ai limiti dell’eversione costituzionale, le posizioni della leadership democratica sono apparse troppo moderate, compromissorie e in ultimo deboli. In un sistema polarizzato, con tassi decrescenti di mobilità del voto, la partita cruciale si sposta dalle elezioni generali alle primarie dei due partiti; un contesto, questo, che favorisce le componenti più radicali in contese elettorali dove votano per la gran parte persone schierate e militanti, come si è visto anche nei sorprendenti successi di Bernie Sanders nel 2016.
Le matrici di questa polarizzazione sono diverse, ma tra queste un peso cruciale lo hanno avuto (e hanno) forme di disuguaglianza nella distribuzione di reddito e ricchezza cresciute senza tregua tra gli anni Settanta e oggi, e solo parzialmente toccate dalle politiche riformatrici di Bill Clinton e Barack Obama. Queste diseguaglianze hanno raggiunto livelli parossistici e non più tollerabili, soprattutto per quelle fasce di reddito medio-basso che non possono beneficiare delle forme di assistenza e di redistribuzione del reddito destinate ai più poveri.
Gli esempi e gli studi ormai si sprecano: dalla percentuale della ricchezza nazionale posseduta dallo 0.1% più ricco del paese, passata dal 7 al 22% tra il 1978 e il 2013, al differenziale di retribuzione tra i CEO e i lavoratori delle principali aziende del paese, il cui rapporto era di circa 20 a 1 a inizio anni Settanta ed è ora superiore a 300 a 1. Fondamentale qui è però l’impatto devastante della crisi del 2007-8, a seguito della quale hanno cessato, almeno temporaneamente, di operare alcuni meccanismi compensativi che avevano occultato tutto ciò o reso quantomeno tollerabile: i consumi a debito e l’idea che l’accesso all’istruzione, sempre più caro e anch’esso vieppiù a debito, offrisse comunque un ineluttabile ascensore sociale. Pur con tutti i loro limiti ed evidenti ingenuità, i movimenti di protesta che ne sono conseguiti, a partire da “Occupy Wall Street”, hanno costituito dei laboratori capaci d’iniziare alla politica una nuova generazione, che ora si ritrova anche nei DSA.
Se le disuguaglianze e gli effetti dell’ultima crisi offrono una seconda spiegazione, la terza ci viene dalla storia profonda della sinistra e del progressismo statunitense. Su questo si è aperta l’immancabile, aspra e divisiva discussione su quanto questa nuova sinistra si differenzi dalle tante che l’hanno preceduta: su quanto si allontani nelle sue proposte e parole d’ordine dalle importanti esperienze di governo locale e nazionale del progressismo liberal, a partire ovviamente dalla tradizione newdealista. E però dalla sanità pubblica universale alla ridefinizione del sistema fiscale e delle aliquote sui redditi, dall’ambiente alle nuove frontiere dei diritti civili, le convergenze tra DSA e liberal sono davvero molte, in un contesto generale dove il terreno della discussione politica tra i democratici pare essersi spostato inesorabilmente a sinistra (secondo un recente sondaggio Gallup, tra gli elettori democratici il 56% avrebbe oggi una visione positiva del socialismo e solo un 46% del capitalismo). Una discussione, peraltro, dove è visibile un altro significativo elemento di contatto con la tradizione del progressismo di governo: il guardare spesso a modelli sperimentati e realizzati fuori dagli USA, in un processo di circolazione transnazionale di expertise, conoscenze e politiche che coinvolge ad esempio oggi negli Stati Uniti molti governi municipali.
Quarto elemento da considerare è l’esperienza riformista delle due amministrazioni Obama: i suoi successi così come i suoi fallimenti. Un’esperienza, questa, che ha mostrato cosa si possa ottenere, ma anche tutti i limiti di un’azione di governo che si muove dentro il solco di logiche tradizionali, di compromessi regolatori con un mercato in ultimo incapace di fornire servizi efficaci e completi in ambiti nodali, la sanità su tutti, e di un processo legislativo spesso paralizzato dal rigido ostruzionismo della controparte.
Il caso di “Obamacare” è per molti aspetti paradigmatico. La riforma ha raggiunto molti degli obiettivi che si poneva e con Obama la percentuale di americani priva di copertura sanitaria è passata dal 18 al 10%. Ha però fallito nel creare un mercato competitivo di assicurazioni capace di abbassare i costi e migliorare le prestazioni, la spesa sanitaria di suo continua a prendersi quasi un quinto del PIL del paese e, soprattutto, l’effetto più importante di “Obamacare” pare essere stato quello di ampliare l’accesso alla sanità pubblica, attraverso condizioni più vantaggiose per poter beneficiare di “Medicaid”, il programma destinato a persone con redditi più bassi e amministrato a livello statale. Oggi molti stati hanno tra il 20 e il 30% dei propri abitanti che accedono a Medicaid (il record è il 34% del New Mexico).
Il cavallo di battaglia dei DSA e della sinistra democratica di creare un sistema nazionale con un fornitore ultimo, il Pubblico, di prestazioni sanitarie – il modello “single payer” – pare quindi meno utopico e raccoglie consensi ampi e politicamente trasversali: Gallup ci dice che una netta maggioranza degli americani – 54 a 42 – ritiene che sia una responsabilità del governo federale garantire l’assistenza medica ai suoi cittadini; vari stati, a partire da New York, stanno discutendo la possibilità d’introdurre modelli “single payer” e vagliando modifiche progressive dei loro sistemi fiscali con cui finanziarli.
Il dibattito, spesso molto tecnico e complesso, sulla sanità ci porta alla quinta e ultima possibile spiegazione dell’ascesa dei DSA. E cioè che, paradossalmente, la progettualità “socialista” che essi offrono sembra dare risposta ad alcuni dei limiti più evidenti della proposta politica della sinistra o, meglio, delle sinistre liberal degli ultimi decenni. Da un lato, le parole d’ordine socialiste (o progressiste) sono sufficientemente generali e ampie da risultare attraenti a segmenti diversi dell’elettorato e della popolazione: liberano cioè la sinistra da un approccio eccessivamente “identitario” o troppo centrato su temi etici e diritti civili. Dall’altro, rimettendo i temi economici e sociali al centro della discussione e dell’agenda politica sembrano confrontarsi direttamente con il malessere che ha contribuito all’ascesa di Trump e del trumpismo.
È chiaro come i successi dei DSA e, anche, le esperienze di governo municipale di alcuni sindaci di sinistra stiano avendo un impatto sulla discussione dentro il partito democratico e sulla sua proposta politica. Parimenti chiari, però, sono anche i limiti e i problemi che accompagnano questi fenomeni. L’inesperienza alquanto naif di alcuni dei rappresentanti dei DSA è solo in parte compensata dalla loro freschezza e dal loro entusiasmo. Sentire la Ocasio-Cortez che parla di socialismo induce al meglio a sorridere per la grossolana banalità delle parole e delle categorie che usa.
Permane, ovviamente, il perenne dilemma di come finanziare questi progetti ovvero di come rendere accettabili aumenti della pressione fiscale – a livello statale così come federale – che rimangono oggi un tabù in tanta parte d’America, dove l’egemonia di un discorso e di una proposta anti-tasse è stata solo in parte scalfita dalla crisi del 2007-8 e da quello che ne è seguito.
Infine, vi è una realtà – quella del partito democratico – che non ha per varie ragioni la coesione ideologica, oggi estrema, della sua controparte repubblicana. Che deve, in altre parole, gettare una rete assai più ampia per catturare un elettorato più composito e differenziato. Che, insomma, ha bisogno anche dei DSA, ma di certo non può permettersi di offrire un messaggio politico dominato dai nuovi socialisti d’America.