È arduo sintetizzare l’insieme degli elementi che ha dato vita, consolidato e costantemente trasformato la struttura e la missione dell’ISIS, perché il dato di fondo è il suo carattere locale e frammentato. Proprio per questa caratteristica peculiare, il miglior punto di partenza è quello di individuarne i tratti salienti attraverso l’evoluzione nel tempo.
La prima fondamentale considerazione sull’ISIS – a dispetto di ogni ipotesi di universalità – è che si tratta di una struttura essenzialmente irachena, sorta poco dopo il collasso dello Stato centrale baathista e consolidatasi grazie all’infinita serie di errori commessi dalle forze americane e dalle autorità di governo sciite, dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. L’esperienza siriana costituisce quindi solo un’estemporanea opportunità di consolidamento, mentre la presunta diffusione in Medio Oriente e in Africa è riconducibile alla spendibilità del brand – così come fu per Al-Qaeda – e non già alla reale capacità di propagazione di una struttura coesa.
La storia non si fa con i se – recita il principale mantra della ricerca storica. Eppure, se gli Stati Uniti non avessero disciolto l’esercito iracheno, se gli sciiti avessero compreso la lezione della storia ed impostato una formula partecipativa di gestione dello Stato e se si fosse investito in infrastrutture e sviluppo economico invece che in sicurezza, oggi probabilmente non parleremmo più da parecchio di Al-Qaeda, e non avremmo mai conosciuto l’ISIS. Al contrario, dopo decenni di dominio politico della minoranza sunnita, l’unica soluzione individuata è stata quella della sostituzione dei ruoli (appunto, tra Al-Qaeda e ISIS), nella migliore tradizione della politica a somma zero, tanto cara alla gran parte delle élite mediorientali.
La seconda considerazione deve invece necessariamente tener presente la composizione delle forze che, dal 2004 ad oggi, hanno costituito l’ossatura di un’organizzazione con undici anni di storia e un nome mutevole. Le radici dell’odierno ISIS affondano infatti nelle traumatiche ultime fasi del regime di Saddam Hussein, quando numerosi ufficiali della Guardia Repubblicana, dell’intelligence e degli altri apparati di vertice della sicurezza compresero l’imminenza del collasso e si prepararono alla gestione del futuro, approntando depositi clandestini di armi e organizzando una rudimentale rete di resistenza costituita da unità clandestine di varia grandezza e natura. Tra queste, l’Esercito degli Uomini dell’Ordine del Naqshbandi è stata certamente una delle più efficaci, trasformando – ad opera del generale Izzat Ibrahim al-Douri – una preesistente setta sufica in una sorta di milizia baathista, installatasi poi nel governatorato dell’Al-Anbar (ma anche nelle altre province a maggioranza sunnita) e potendo contare su una solida rete di sostegno popolare.
Con l’avvento dei governi sciiti – e soprattutto con l’avvio di una politica speculare a quella precedente, costruita in questa nuova fase sulla non-inclusione dei sunniti e sulla loro sistematica vessazione – fu proprio questo gruppo ad attrarre jihadisti in Iraq nel nome di Al-Qaeda, dando avvio a quella sanguinosa fase di violenze che si protrasse dal 2004 sino alla fine del 2006.
Abbandonato l’iniziale obiettivo di ristabilire il ruolo del partito Baath, l’organizzazione ha puntato sul proprio consolidamento politico ed economico locale, definendo alleanze e sinergie con le numerose milizie jihadiste presenti sul territorio e sviluppando un meccanismo di finanziamento sempre più articolato ed efficiente.
Il vero salto di qualità è stato tuttavia offerto dal conflitto in Siria, nell’ambito del quale l’organizzazione si presenta con il suo nuovo nome di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, abbandonando quello di Al-Qaeda in Iraq e progressivamente ponendosi in diretta competizione con l’organizzazione al comando di Ayman al-Zawahiri.
L’esperienza bellica siriana, e il ricco bottino economico lì generato, permette all’ISIS di conseguire un ulteriore obiettivo, che la stampa internazionale conia come la “conquista” di un terzo del territorio iracheno. Più che di una invasione, si tratta al contrario di una presa del potere da parte dell’ISIS e della cacciata delle forze governative centrali, con il pieno sostegno della popolazione a maggioranza sunnita delle province interessate, che nell’ISIS individuano un’alternativa di gran lunga migliore a quella delle forze centrali sciite. In altre parole, ciò che chiamiamo ISIS ha raccolto forze che erano già sul campo per cambiare gli equilibri locali.
Il resto è storia nota, con la proclamazione del Califfato e la propagazione di decine di nuovi gruppi che in Africa, in Asia e nel Medio Oriente manifestano la propria adesione all’organizzazione.
Al vertice dell’ISIS siede tuttavia un autoproclamato sceicco dalla scarsa – se non nulla – credibilità teologica e giuridica. D’altra parte, è un personaggio estremamente abile nella gestione della comunicazione e nell’uso dei media, al quale deve essere riconosciuto l’indiscusso merito di aver attribuito all’organizzazione una enorme visibilità ed un’immagine di potenza senza precedenti.
Attraverso una sapiente campagna mediatica costruita su esecuzioni brutali, retorica radicale e proclami epocali, l’ISIS ha così costruito un’immagine di sé funzionale al proprio interesse di consolidamento nelle aree a maggioranza sunnita dell’Iraq e in parte della Siria. In queste zone è stata accolta in modo tutto sommato amichevole dalla popolazione non già per i suoi proclami, quanto per la capacità di offrire servizi e stabilità, oltre che una parvenza di struttura amministrativa, in aree devastate da oltre dieci anni di conflitti, settarismo e miopia politica.
Militarmente l’ISIS ha manifestato in effetti buone capacità solo nelle aree in cui può contare sul sostegno della popolazione civile, risultando al contrario alquanto carente quando all’offensiva in aree socialmente non compatibili con la propria estrazione.
Ciononostante, la capacità di propagazione del messaggio ideologico dell’ISIS è ampia e costante, riuscendo a penetrare in ambiti ove non sussiste alcun reale radicamento dell’organizzazione e dei suoi quadri direttivi, come nel caso della Nigeria o della Libia. Potendo tuttavia contare sull’effetto domino nella propagazione mediatica dell’immagine del gruppo, anche grazie alla costante incapacità d’analisi di gran parte degli interlocutori occidentali. Le carenze altrui sono dunque la vera forza dell’organizzazione.
Mutatis mutandis, ciò che l’ISIS riesce oggi ad imporre su vasta scala è esattamente lo stesso prodotto a suo tempo largamente commercializzato dalla rete di Al-Qaeda: il brand. Segno evidente di un costante incremento della capacità di comunicazione in direzione delle diverse audience di riferimento, in parte attratte e in parte allarmate dalla presunta capacità d’azione e dalla incrollabile volontà di distruzione.
Al di fuori del suo contesto geografico e sociale, tuttavia, l’ISIS deve ancora dimostrare di possedere tutte le capacità che sbandiera nella sua propaganda, dovendosi oggi misurare con la difficile ed insidiosa sfida del confronto con le realtà locali dei suoi presunti sostenitori globali.