Una volta Donald Trump ha detto che avrebbe potuto sparare sulla folla nella Fifth Avenue all’ora di punta e non avrebbe perso un voto. Nella greve iperbole si nasconde, come spesso capita, qualche brandello di verità. Il presidente naviga di crisi in crisi, la Casa Bianca è in perenne assetto da guerra civile e rimpasto continuo, l’amministrazione riceve bordate critiche sul fronte esterno ma anche su quello interno, dove autorevoli rappresentanti del Partito Repubblicano con crescente nervosismo condannano il governo, ma il consenso della base trumpiana tiene.
Trump è in termini assoluti un presidente impopolare (il modello del famoso sito 538 di Nate Silver dice che soltanto il 42% degli americani approva il suo operato), ma se si considera l’umore della base conservatrice la prospettiva cambia. L’88% dei Repubblicani, secondo un sondaggio del Wall Street Journal e Nbc, sostiene Trump, un livello di popolarità presso il proprio partito superato nella recente storia presidenziale soltanto da George W. Bush dopo l’11 settembre 2001. I dati demografici e i sondaggi dicono che il bacino degli elettori della destra si sta riducendo, ma quelli che non mollano la sponda conservatrice si sono convertiti alla sua versione trumpiana. E nemmeno le performance pubbliche più disastrose del presidente sono riuscite a deprimere l’entusiasmo degli ultrà.
Consideriamo la conferenza stampa di Helsinki dopo l’incontro con Vladimir Putin. La capitolazione pubblica accanto al presidente russo ha suscitato reazioni indignate da parte degli stessi Repubblicani: basta citare come esempio il comunicato durissimo del senatore John McCain, che l’ha definita “una delle performance più disgraziate per un presidente americano di tutti i tempi”. L’ex direttore della Cia, John Brennan, ha evocato addirittura la possibilità di “altro tradimento” da parte del presidente. Eppure le polemiche aperte nei ranghi repubblicani non hanno prodotto, nei fatti, iniziative volte a danneggiare politicamente Donald Trump. Basterebbe la decisione di un solo senatore del Gop per far saltare la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema, eppure l’unico che evoca la possibilità di un voto contrario è il “libertario” Rand Paul, che è abituato a essere fuori linea rispetto alle indicazioni del partito. Trump ha scelto Kavanaugh per sostituire lo “swing vote” Anthony Kennedy, prossimo alla pensione, e il profilo di conservatore integrale ed espressione dell’establishment ha la funzione unificante di cui il presidente in questo momento ha bisogno.
Prima della crisi sul fronte russo c’era stata quella dei dazi, avversati sulla carta dalla gran parte del partito, prima ancora quella delle famiglie di migranti separate al confine, un altro tema su cui i repubblicani a parole sono radicalmente divisi. Nei fatti, però, la sgangherata compagine repubblicana è più compatta di quanto appare.
Quando nel dicembre scorso il Democratico Doug Jones ha sconfitto il Repubblicano Roy Moore nell’elezione supplettiva al Senato nell’ultraconservatore Alabama, sembrava il preludio a una disgregazione istantanea del partito. Quella sfida era la sintesi di tutti i problemi del Gop: il candidato era l’espressione della visione estremista dell’ex consigliere della Casa Bianca Steve Bannon, scelto in opposizione alla volontà di Trump e a quella dell’establishment, e la scellerata manovra aveva portato a una sconfitta incredibile in un feudo incontrastato dei Repubblicani.
Il partito da allora ha cambiato rotta. Bannon, che aveva promesso di dare battaglia da destra a tutti i candidati in cerca di rielezione, ad eccezione di Ted Cruz, è stato esiliato dalle stanze del potere di Washington e ora tenta di reinventarsi federatore dei sovranismi europei. Nel giro delle primarie della primavera scorsa i Repubblicani si sono ricompattati, hanno consolidato alcune roccaforti e hanno evitato debacle totali nelle lande a trazione democratica: innanzitutto in California, dove il prossimo governatore democratico, Gavin Newsom, si troverà a sfidare alle elezioni generali un avversario repubblicano, e non un altro democratico (le regole elettorali permettono anche questa eventualità).
Nel mese di agosto si sono consumate le ultime sfide interne al Partito Repubblicano, a partire dalle sanguinose primarie per il Senato in Arizona e Wisconsin, dove i candidati si sono sfidati a chi giura con più convinzione fedeltà a Trump. Accanto a queste, le primarie per la Camera in Kansas, Michigan, Florida e le suppletive in Ohio determinano l’assetto con cui il partito si presenta al midterm. Capendo molto chiaramente l’importanza di questa sfida per la sopravvivenza del movimento conservatore, i finanziatori repubblicani hanno aperto generosamente i portafogli per sostenere i candidati: i fratelli Koch hanno stanziato 400 milioni di dollari, circa il doppio di quanto hanno dato al midterm di quattro anni fa. A livello di immagine e retorica, il Partito Repubblicano è effettivamente disgregato, in rotta, senza bussola, annichilito dall’egotistico reality show del presidente; ma al di sotto delle immagini, molte forze lavorano per consolidare il partito, a costo di spingere il senso della realpolitik ben oltre i limiti del cinismo.
In mezzo a mille dibattiti, litigi, incomprensioni e follie trumpiane, il Gop ha infine due fattori su cui contare. Il primo è un vantaggio numerico. Per prendere interamente il controllo del Congresso, i Democratici dovranno conquistare due soli seggi, ma dieci Senatori liberal si trovano a difendere la poltrona in Stati in cui Trump ha trionfato alle presidenziali. La geografia elettorale è in salita per i Democratici, almeno al Senato.
Il secondo fattore è politico. Se i Repubblicani sono divisi ed estenuati, i Democratici non sono certo l’immagine dell’unità e della concordia. La clamorosa vittoria della ventottenne Alexandria Ocasio-Cortez alle primarie contro un purissimo rappresentante dell’establishment newyorchese ha gettato altra benzina sul dibattito interno fra i Democratici mainstream e la corrente “socialista” che vuole spostare il partito a sinistra. Anche gli avversari di Trump navigano verso il midterm in acque assai incerte.