Russia ed Egitto un’altra volta dalla stessa parte. Nella partita #Usa2016, il governo del Cairo sembra uno dei pochi a tifare per lo stesso candidato sostenuto dal Cremlino. Infatti, l’istrionico tycoon Donald Trump ha fatto breccia non soltanto tra chi negli ultimi anni ha maturato una crescente antipatia nei confronti dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, ma soprattutto tra i funzionari impegnati nell’opera di restaurazione in atto. Molti sono convinti che la prima candidata donna della storia statunitense sia stata una strenua sostenitrice dell’ascesa della Fratellanza Musulmana, il movimento islamista che quegli stessi funzionari hanno dovuto polverizzare, per tornare al potere.
Anche in occasione dell’ultima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il presidente egiziano Abdel Fattah Al-Sisi si è mostrato più a suo agio a colloquio con Donald che con Hillary. Nonostante la lettera con la quale un gruppo di accademici e attivisti statunitensi (tra i quali anche alcuni rappresentati del mondo conservatore) hanno suggerito ai due candidati di non concedere una photo opportunity all’ex-generale andato al potere con un golpe non pacifico nel luglio 2013, sia Clinton che Trump hanno deciso altrimenti: hanno così ricevuto Al-Sisi, ritenendolo il leader di un Paese troppo importante, in una regione dall’equilibrio precario, per poterselo inimicare.
Dopo aver mostrato apprezzamenti per Al-Sisi, descrivendolo nella sua autobiografia, Hard Choices, come un leader che ha la classica tempra dell’uomo forte mediorientale, Clinton ha confermato, con la scelta di incontrare il raìs egiziano, la sua tendenza a rassicurare gli alleati regionali che fino ad ora hanno garantito la stabilità (almeno quella di breve periodo). Tuttavia, non ha perso l’occasione del faccia a faccia per mostrarsi anche un’attenta, e per alcuni aspetti preoccupata, osservatrice del contesto interno egiziano :oltre all’enfasi (peraltro condivisa dallo stesso Trump) sulla lotta al terrorismo, Clinton ha così enfatizzato il rispetto dello stato di diritto.
In particolare, ha chiesto ad Al-Sisi il rilascio di Aya Hegazy, cittadina egiziana con nazionalità statunitense incarcerata dalle autorità del Cairo con l’accusa di aver sfruttato bambini di strada; in effetti si tratta di minori che la Hegazy, dopo la rivoluzione del 2011, aveva deciso di aiutare, creando un’apposita onlus. A causa di questa richiesta, Clinton è stata accusata dalla stampa egiziana di interferenza esterna, proprio come era avvenuto quattro anni fa quando, in qualità di responsabile della politica estera del presidente Barack Obama, venne persino considerata dal regime una traditrice che aveva abbandonato l’alleato nel momento del bisogno.
Diversamente da altri membri dell’amministrazione, che hanno ritenuto le primavere arabe un’incredibile opportunità per dare un senso compiuto al cambiamento tanto millantato dallo stesso Obama (tutti ricordano il suo discorso all’Università del Cairo del giugno 2009), Clinton ha avuto in realtà idee decisamente meno naïf. In più occasioni si è mostrata scettica sul possibile successo dei ragazzi di piazza Tahrir, sentendosi in dovere di non abbandonare quelli che per decenni erano stati gli storici alleati degli Stati Uniti – iniziando proprio da Hosni Mubarak, al quale era legata personalmente anche per i rapporti diretti che aveva con sua moglie Suzanne.
Se gli attivisti egiziani – quelli del 2011 come quelli di oggi – ben ricordano questi dettagli, molti dirigenti del governo attuale sembrano però averli dimenticati. Nella loro memoria, la candidata democratica è legata in primis alla figura dell’ex presidente Mohammed Morsi, leader della Fratellanza Musulmana che Hillary avrebbe aiutato – secondo loro – a vincere le elezioni del 2012, le prime presidenziali libere del post-Mubarak.
In linea con le diffuse teorie cospiratorie che dominano il dibattito locale, tali analisi affondano le radici in una contorta interpretazione di quanto detto dalla Clinton in quel preciso momento storico. Secondo l’allora ministro della Difesa egiziano, Hussein Tantawi, le parole con le quali il Segretario di Stato americano aveva invitato i militari a consegnare il potere al legittimo vincitore delle urne erano un’interferenza esterna mirata a minare la stabilità egiziana, favorendo l’ascesa degli islamisti. E così era già stata interpretata, nell’estate 2012, la visita che Clinton fece al tycoon degli islamisti Khairat al-Shater. L’evento causò lo scoppio di proteste antiamericane, con tanto di lancio di pomodori verso l’allora Segretario di Stato.
Durante questa campagna elettorale 2016, numerosi organi di stampa hanno poi arricchito la tesi cospiratoria chiamando in causa una delle principali collaboratrici della Clinton da circa vent’anni, Huma Abedin – musulmana, di origine mista indo-pakistana e con un’infanzia trascorsa in Arabia Saudita. La Abedin è stata descritta come un membro segreto della Fratellanza Mussulmana. Secondo i media governativi, la stretta relazione tra le due donne sarebbe, dunque, anche una prova tangibile della vicinanza della Clinton alla Fratellanza. La propaganda antiamericana è arrivata a coinvolgere anche la moglie dell’ex-presidente Morsi, che lo scorso anno avrebbe promesso di rilasciare “comunicazioni segrete” e rivelatorie della relazione speciale tra suo marito – ora in carcere – e Hillary.
Quanti tifano contro l’ex-First Lady l’accusano inoltre di essere stata una delle principali responsabili della nascita dell’autoproclamatosi “stato islamico”, a causa anzitutto del suo voto – poi rinnegato – a favore dell’intervento in Iraq nel 2003, quando era senatrice.
Pertanto, facendo dell’antiamericanismo un’arma di battaglia politica utile a creare consenso interno, la propaganda di regime ha ritratto Hillary Clinton come una minaccia alla stabilità nazionale; ciò anche a causa delle sue critiche – peraltro sempre moderate nei toni – nei confronti dei militari, etichettate come interferenze. La simpatia nei confronti di Trump, nell’establishment egiziano, è quindi nata più per reazione che per convinzione.
Sebbene le sue battute sui musulmani abbiano raccolto per lo più disapprovazione, le sue sparate non hanno destato troppa preoccupazione in vista di una eventuale presidenza. Anzi, per editorialisti del calibro di Mohamed Kamal, ex parlamentare e membro del comitato politico del partito del vecchio faraone, le dichiarazioni del miliardario newyorchese sarebbero spesso in linea con le posizioni attuali dello stato egiziano