E’ stata una battaglia ideologica quella culminata nella vittoria del socialista Pedro Sánchez. La campagna è stata rapidissima: il 15 febbraio Sánchez, già capo del governo, annunciava il voto anticipato, dopo la bocciatura della sua finanziaria in parlamento. E stabiliva la data del 28 aprile, con la Pasqua di mezzo, a causa della divisione della destra spagnola in tre partiti, tutti competitivi. Una congiunzione astrale mai verificatasi prima, da sfruttare subito prima che si dissolvesse.
Dato centrale del voto è appunto l’irruzione sulla scena di Vox, gruppuscolo di estrema destra fino a non molti mesi fa, ma promosso a partito vero dalla crisi del Partido Popular (PP), e dal risultato clamoroso ottenuto alle regionali dell’Andalusia lo scorso autunno. Grazie all’ascesa di Vox e all’astensionismo degli elettori socialisti, stanchi di un logoro governo regionale scaduto nella corruzione e nel clientelismo più sfacciato, il timone della giunta di Siviglia passava a un’alleanza composta dal PP e dai liberal-conservatori di Ciudadanos, con l’appoggio di Vox.
Se abbiamo vinto in Andalusia, da sempre roccaforte socialista, possiamo vincere anche a livello nazionale. Questo pensarono i tre capi della destra, rispettivamente Santiago Abascal di Vox, Pablo Casado del PP e Albert Rivera di Ciudadanos: pensarono che il voto dell’Andalusia – la seconda regione più grande e la più popolata di Spagna, quella che manda più deputati in parlamento, quella imprescindibile per ogni equilibrio politico – avesse un significato politico e ideologico. Il governo Sánchez era nato da una mozione di sfiducia al precedente esecutivo del PP di Mariano Rajoy, grazie al contributo di Podemos e dei gruppi indipendentisti catalani. Gli andalusi hanno detto no alla sinistra radicale, no ai secessionisti a fare e disfare maggioranze in Spagna, valutarono i tre. No dirà tutto il resto del paese.
Questa premessa ha spinto la campagna elettorale verso la dimensione di “guerra culturale”, e ha imposto l’identità della Spagna come tema dominante. La presenza di Vox, un’onda che si è abbattuta sulle conversazioni pubbliche (in ogni programma televisivo, sulle reti sociali) e private, ha fatto schizzare l’asse conservatore verso destra: la difesa delle tradizioni qualunque esse fossero, l’attacco ai diritti civili in particolare delle donne descritti come lusso da classi agiate, il disprezzo per l’élite progressista, la difesa dello stato centrale contro gli abusi delle autonomie da schiacciare “con ogni mezzo necessario”. Insomma, la declinazione spagnola della narrativa trumpiana: lo slogan “Rendere di nuovo grande la Spagna” non è stato scelto per caso. D’altronde il numero due di Vox è in stretto contatto con l’ideologo conservatore americano Steve Bannon.
A questa spinta ne è conseguita una opposta. La necessità di opporsi al “para-fascismo” della destra ha offerto alla sinistra radicale di Podemos una nuova ragione di vita, dopo un 2018 vissuto pericolosamente, tra abbandoni, scissioni e timori di chiudere bottega. Il voto a Podemos, secondo il leader Pablo Iglesias, sarebbe stata l’àncora che avrebbe legato i socialisti a una coalizione con una forte sinistra radicale, impedendogli di cercare intese future con una destra estremista e anti-democratica. Se a destra l’ispiratore era Bannon, a sinistra si è sentita l’influenza di Bernie Sanders e di una narrativa “popolo contro élite” non del tipo nazionalista, ma piuttosto simile a quella dei documentari di Michael Moore, di certo ben conosciuti dal cinefilo Iglesias (lo si vede chiaro nel video-spot di Podemos).
Così, Ciudadanos e partito socialista (PSOE), i partiti che fino a poco tempo prima puntavano al centro dell’arena politica per dirigere il Paese avendo mani libere sulle alleanze, senza condizionamenti ideologici, magari in accordo l’uno con l’altro, hanno dovuto fare malvolentieri una scelta. Albert Rivera l’ha fatta per primo, cercando comunque di disputare a Sánchez qualcuno dei suoi elettori, accusando senza sosta il capo socialista di “intelligenza col nemico”, ossia con chi vuole distruggere la Spagna: gli indipendentisti che governano la Catalogna. Pedro Sánchez è stato più restio: ma i sostenitori socialisti andati a festeggiare durante la notte elettorale sotto la sede del partito, con i loro cori continui “con Rivera no” lanciati al leader affacciato al balcone hanno mostrato che l’interpretazione ideologica del voto era quella prevalente tra la gente.
Cinque partiti, dunque, ma due schieramenti. A destra Vox, PP e Ciudadanos. A sinistra PSOE e Podemos. La legge elettorale spagnola, che premia con più seggi il partito più votato in ogni singola provincia, ha aiutato la sinistra ad avere una vittoria più netta di quella che sarebbe stata proporzionale ai numeri. Lo si comprende bene confrontando due mappe.
La mappa elettorale del partito più votato per provincia offre l’immagine di un Paese dominato dal PSOE. Certo: la presenza di tre partiti a destra ha frammentato l’elettorato di quella parte politica, impedendo che una tra Vox, PP e Ciudadanos riuscisse a essere la forza più votata in molte province: ci è riuscito solo il Partido Popular, e solo in quattro casi: Lugo e Ourense in Galizia (nord-est), e Salamanca e Ávila in Castiglia.
I socialisti a sinistra avevano solo la concorrenza di Podemos, partito sbilanciato: un elettorato forte nelle grandi città e nelle aree meno “omogenee” della Spagna (come Paese Basco e Catalogna), ma debole altrove. Una concorrenza ideale, perché compensativa: il PSOE, meglio distribuito sul territorio nazionale, è forte lontano dalle città. Questa doppia combinazione gli ha consentito di essere il partito più votato quasi ovunque, riempiendo di rosso la mappa.
Tuttavia la mappa cambia quando si contano insieme i voti dei due schieramenti. La somma nazionale di Vox, PP e Ciudadanos tocca il 42,9%. Quella di PSOE e Unidas Podemos (questo il nome ufficiale del cartello elettorale) arriva al 43%. La guerra culturale insomma ha visto scontrarsi due blocchi di dimensione simile, e anche sulla mappa restituisce l’immagine di un paese attraversato da spaccature profonde.
Come si vede, lo schieramento di destra è dominante in un’ampia area centrale della Spagna, che occupa tutta la Castiglia e oltre. Madrid ne è il centro non solo geografico. Include quasi tutta quella Spagna “vaciada” (svuotata, di popolazione e risorse) di cui si è parlato in campagna elettorale e dove la destra si scopre maggioranza sociale. Si tratta di regioni in cui Vox va ben oltre il suo risultato medio nazionale del 10,3%, e relega spesso Podemos (14,3% nazionale) al ruolo di ultima forza. L’area della destra raggiunge infine zone costiere di tradizionale radicamento conservatore: la Cantabria e parte della Galizia a nord, Murcia e l’Andalusia mediterranea a sud. Il partito socialista è risultato la forza più votata in quasi tutte queste province; ma la somma dei tre partiti dello schieramento conservatore colloca senza dubbio quest’ampia porzione di Spagna a destra.
Lo schieramento di sinistra s’impone nell’altra Spagna – alcuni la definirebbero “plurale”. Sue sono la Catalogna e il Paese Basco. Sue sono altre regioni di lingua e cultura più variegate come la Navarra, la Galizia marittima, le Isole Canarie, e per un soffio la Comunità Valenciana e le Isole Baleari. Ma soprattutto, sue restano le province dell’Andalusia di Siviglia, Cadice, Cordoba, Huelva e Jaén. Quest’ultimo risultato era inatteso, considerando il voto regionale che aveva punito i socialisti, e invece la resistenza della sinistra in Andalusia è una delle chiavi del risultato finale. Non era stata dunque politica la natura del voto che aveva cambiato il governo a Siviglia, come pensavano i tre leader della destra che da lì avevano lanciato la loro marcia su Madrid. Gli andalusi non avevano voluto votare contro Sánchez, Podemos e i catalani, ma contro il corrotto governo regionale socialista. Invece, il 28 aprile hanno voluto sì votare contro Vox. Questo errore di valutazione è costato caro a Rivera e a Casado, che hanno perso così la guerra culturale in cui si sono imbarcati con Abascal.
Almeno per il momento. Il PSOE ha vinto le elezioni con il 28,7% dei voti: risultato discreto, se si considera la frammentazione della politica spagnola; ottimo, se si considera il panorama della sinistra europea; insufficiente, se si aspirava a governare con comodità: 123 seggi su 350 non bastano. Sánchez ora deve decidere: governare con Podemos (Iglesias è determinato ad entrare nella stanza dei bottoni), i nazionalisti baschi e gli indipendentisti catalani significherebbe fare una scelta coerente con lo spirito del voto. Ma il leader socialista, uomo a cui piace piacere, non ama l’idea di ergersi a campione di un solo blocco: l’altro blocco passerebbe in toto a un’opposizione senza tregua, mentre i numeri risicati in parlamento e le trappole della coabitazione complicherebbero le cose. Altrimenti, il PSOE potrebbe tentare un governo monocolore di minoranza, cercando appoggi diversi legge per legge: un tentativo sottile per sfuggire alla logica delle due Spagne. Ma serve abilità politica e capacità di resistere a una potenziale opposizione di tutti gli altri partiti, da destra e da sinistra.
La terza opzione, l’alleanza con Ciudadanos, supererebbe la logica dello scontro tra blocchi e avrebbe buoni numeri in parlamento. Però, come detto, per ora è esclusa. Non solo per i cori dei militanti socialisti (“con Rivera no”). Ma anche perché Ciudadanos, con il suo 15,9%, è arrivato a un soffio dal PP, che ha perso la metà dei propri voti. L’ex partido Alfa di José Maria Aznar si è ridotto al 16,7%, e Pablo Casado non riesce a tappare le falle da dove scappano elettori e amministratori locali. La lotta per la supremazia che ora si aprirà a destra potrebbe stabilire il nome del prossimo capo del governo, se il vincitore riuscisse a imporsi come egemone: la divisione in tre è costata una trentina di seggi. L’ambizioso Rivera, che accarezza da tempo l’idea di salire alla presidenza per poi finire sempre scornato, ha annusato la debolezza di Casado. Non è il momento di fare da stampella a Sánchez, pensa.
Allo stesso tempo, la destra spagnola ha un altro problema: quello dell’irrilevanza in regioni fondamentali come Catalogna (dove la somma di Vox, PP e Ciudadanos sfiora il 20%) e Paese Basco (13%). Il discorso ferocemente anti-autonomista adottato dai tre, in particolare dopo la dichiarazione d’indipendenza del governo catalano ma anche da molto prima, ha portato la destra a crescere nella Spagna “omogenea”, ma a prosciugarsi nella Spagna “plurale”. Il gioco non è valso la candela, visto che le elezioni le ha vinte Sánchez. Per di più, in Catalogna il partito più votato è stato quello che ha il suo leader in carcere da un anno e mezzo (Oriol Junqueras, Sinistra Repubblicana di Catalogna), ora sotto processo per sedizione; e gli elettori hanno sgonfiato Ciudadanos che solo un paio d’anni fa sembrava in rampa di lancio per vincere a Barcellona, città d’origine di Albert Rivera. Il grosso aumento dell’affluenza alle urne (+12%) ha reso ancora più eloquente il segnale da parte dei cittadini catalani di rifiuto della mano dura, delle soluzioni unilaterali di chiusura e della tensione continua propugnate a voce altissima dalla destra.
Per le prossime mosse, i protagonisti attenderanno la notte del 26 maggio. Si conosceranno allora i risultati delle elezioni europee, delle municipali in tutti i comuni inclusi Madrid e Barcellona, e delle regionali in 12 comunità autonome, che si terranno tutte lo stesso giorno, e che saranno decisive nel dare il via alla legislatura.