Una decina di anziani giacciono su letti d’ospedale fuori dal Caritas Medical Center di Sham Shui Po, uno dei distretti più poveri di Hong Kong. Dall’altra parte della strada, un altro gruppo di persone siede in tende blu di isolamento in attesa di essere valutato dal personale medico. Sono alcune delle immagini circolate tra fine febbraio e inizio marzo 2022, quando il numero dei contagiati nell’ex colonia britannica ha superato il mezzo milione. In quel periodo i decessi sono stati almeno 3.000, ovvero 3,28 morti ogni 100.000 cittadini. Un tasso di mortalità più alto del Regno Unito nel suo momento pandemico peggiore.
Lo stesso scenario da incubo potrebbe verificarsi anche nella Cina continentale, se il governo decidesse di abbassare la guardia. Ne sono convinti consulenti ed esperti cinesi che negli ultimi due anni hanno provato a calcolare i possibili danni di un ritorno alla normalità. Secondo una ricerca della prestigiosa Fudan University di Shanghai, oltre un milione di persone morirebbe se la Cina abbandonasse la “Zero Covid”, politica che fa uso di lockdown chirurgici, test di massa, limitazione dei viaggi internazionali, e tracciamento dei positivi attraverso l’impiego di app obbligatorie.
Con l’annuncio della quarantena di Wuhan nel gennaio 2020, la Cina è stata il primo paese a chiudere e sarà probabilmente anche l’ultimo a riaprire. A onor del vero, non è mai stato un isolamento totale. Il cordone sanitario ha interessato aree specifiche per contenere i focolai sul nascere. La politica Zero Covid ha subito ritocchi e cambiato vari nomi. I giorni di quarantena obbligatoria per gli arrivi internazionali sono stati progressivamente ridotti e le procedure di immigrazione snellite. Durante l’estate 2022 gli studenti stranieri di alcuni paesi hanno fatto ritorno in Cina oltre due anni dopo la sospensione dei visti. Ma l’impatto della Zero Covid oggi non è meno destabilizzante di allora: l’isolamento repentino di città intere continua a mettere in difficoltà l’economia nazionale, crea tensione tra la popolazione, e inibisce gli scambi commerciali e diplomatici con il resto del mondo. Raggiungere la Cina dall’Italia è ancora difficilissimo, tanto per le lungaggini burocratiche quanto per i prezzi dei biglietti aerei.
Come siamo arrivati a questo punto?
RAGIONI E COSTI DI UNA POLITICA ULTRARIGORISTA. Sebbene la Cina abbia approvato la pillola antivirale di Pfizer Inc., non ha mai consentito la somministrazione di vaccini mrna di fabbricazione straniera, notevolmente più efficaci rispetto ai sieri realizzati in casa. All’estero la spedizione dei vaccini “made in China” è diventata un’arma diplomatica utilizzata per corteggiare i paesi emergenti e riaffermare la superiorità del modello gestionale cinese. Ma, proprio in patria, dove il dispiego di preziose risorse oltremare è mal visto, la campagna di immunizzazione è proceduta a rilento: molti anziani hanno rifiutato il vaccino, memori degli scandali che negli ultimi anni hanno coinvolto il settore farmaceutico cinese. Risultato: a fine luglio 2022 solo il 61% degli over 80 risultava vaccinato – una cifra bassa, confrontata a quelle dei paesi più ricchi del mondo. Un ritorno alla normalità senza aver raggiunto l’immunità di gregge provocherebbe una strage, oltre al collasso delle strutture ospedaliere. Su questo i leader cinesi non hanno dubbi. Meno chiaro è come gestire sul lungo periodo gli effetti collaterali della lotta contro il virus. A partire dai costi.
Secondo i ricercatori della cinese Soochow Securities, solo tra aprile e giugno la Cina ha distribuito almeno 10,8 miliardi di tamponi per un valore di oltre 26 miliardi di dollari. Una cifra che supera il Pil annuale di paesi come la Cambogia o l’Islanda. Il conto si fa sentire soprattutto nelle città più piccole e le aree più sottosviluppate del paese. Proprio quelle che, secondo l’autorevole rivista finanziaria Caixin, ricorrono con maggiore solerzia ai test di massa e alle tecniche preventive della Zero Covid sapendo di non avere risorse sanitarie sufficienti per gestire una possibile impennata di casi gravi. Nella provincia centrale dello Henan, dove quest’estate si è registrato un picco di infezioni, “tamponare” circa 98 milioni di persone ogni tre giorni potrebbe costare almeno 40 miliardi di yuan (6 miliardi di dollari) all’anno. Una spesa pari grossomodo al 4% del bilancio pubblico dello scorso anno. Più del budget totale destinato all’istruzione nel 2021.
Chi paga? A luglio le autorità sanitarie nazionali hanno chiarito che i fondi dell’assicurazione medica non si toccano: i governi locali sono tenuti a utilizzare le entrate fiscali per pagare i costi dei test. La richiesta non potrebbe giungere in un periodo più infausto. La crisi del mercato immobiliare ha decurtato il bilancio delle amministrazioni provinciali, tradizionalmente dipendenti dalla vendita dei terreni ai costruttori. Per riprendere respiro, alcune città hanno optato per ridurre drasticamente i servizi pubblici e sospendere l’erogazione degli stipendi ai dipendenti statali. Altre, come Langzhong, nella provincia del Sichuan, hanno chiesto ai residenti di sostenere a proprie spese i tamponi settimanali obbligatori per accedere ai trasporti pubblici. Decisione che, se applicata su scala nazionale, rischia di creare ulteriore malumore tra una popolazione già messa a dura prova da quasi tre anni di Zero Covid.
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Mentre la strategia governativa gode ancora di un generale consenso, i due mesi di chiusura ermetica a Shanghai – dove a marzo i cittadini hanno perso l’accesso anche ai beni di prima necessità – hanno provocato una forte reazione di protesta attraverso i social network. Per la prima volta dallo scoppio dell’epidemia, la censura governativa ha faticato a tenere sotto controllo il web: l’insofferenza monta anche tra i più nazionalisti. A metà agosto un negozio Ikea di Shanghai è stato costretto a chiudere improvvisamente con tutti i clienti al suo interno a causa della presenza nel punto vendita di un contatto stretto di un positivo al covid.
La pressione si fa sentire anche sul personale medico e le strutture sanitarie. Concentrare le risorse contro il covid ha obbligato molti centri a interrompere le operazioni di diagnostica e altri servizi remunerativi. Tanto che, secondo il database di informazioni aziendali Tianyancha, quarantasei grandi ospedali privati hanno dichiarato bancarotta nel 2021, rispetto ai ventisei del 2020 e ai ventuno del 2019. Ventisei hanno avviato procedura formale di fallimento solo nei primi cinque mesi di quest’anno. Con l’approssimarsi dell’inverno, gli esperti temono che la guerra contro il virus distolga l’attenzione dalle consuete malattie stagionali.
LE RIPERCUSSIONI POLITICHE E IL FUTURO DI XI. Non sarà facile per il governo scendere a compromessi. Da un punto di vista politico, la chiusura del paese ha permesso a Pechino di proseguire speditamente lungo la strada del decoupling sul piano internazionale. Non tanto da un punto di vista economico, quanto piuttosto da una prospettiva ideologica e culturale. Visitando Wuhan lo scorso giugno, il presidente Xi Jinping ha ripudiato il concetto occidentale di “immunità di gregge”, affermando che le conseguenze di “restare passivi” davanti al virus sarebbero inimmaginabili per la Cina. “Anche se ci sono alcuni effetti temporanei sull’economia, non metteremo in pericolo la vita e la salute delle persone”, ha avvertito il leader, “le misure di risposta all’epidemia sono corrette ed efficaci e devono essere mantenute”.
Con queste premesse, fare marcia indietro è ormai quasi impossibile. Anzi. La dirigenza comunista cerca sempre più palesemente di sfilarsi da ogni responsabilità. Lo dimostra l’intensa produzione di studi scientifici cinesi (almeno 20 secondo la rivista Science) mirati a rintracciare l’origine del coronavirus all’estero anziché in Cina. Nella città meridionale di Xiamen la smania dei tamponi ha spinto le autorità a testare persino il pesce importato. Secondo Joerg Wuttke, presidente della Camera di commercio europea, la Zero Covid proseguirà almeno “fino alla fine del 2023”, ben oltre il xx Congresso.
Tenere il punto e temporeggiare fino a quando la campagna vaccinale non avrà raggiunto livelli soddisfacenti: sembra questo l’obiettivo di Xi. Ma anche nel paese del partito unico, dove il potere deriva dalla capacità di assicurare benefici materiali e stabilità sociale, disattendere le aspettative dei cittadini rischia di indebolire l’autorità dell’establishment. Oggi la situazione economica preoccupa più che ai tempi della quarantena di Wuhan. Non potrebbe essere altrimenti, considerando che i lockdown hanno raggiunto la Cina costiera e le province più produttive del paese.
Gli analisti concordano nel ritenere che il covid rischi di compromettere il ribilanciamento verso un modello economico basato sui consumi, anziché sul vecchio binomio export-investimenti infrastrutturali. Secondo Bloomberg, la proverbiale tendenza al risparmio dei cinesi ha raggiunto livelli superiori al 2008, l’anno della crisi finanziaria mondiale. E per spendere meno ci si sposa anche meno. Dalle autorità è giunta l’inusuale ammissione che le rigide misure di contenimento pandemico hanno causato “danni profondi e durevoli” alla propensione dei giovani ad avere figli. Una decisione personale con conseguenze di portata nazionale. Per quest’anno, gli esperti prevedono un crollo delle nascite in Cina sotto la soglia di 10 milioni, un livello inferiore dell’11,5% a quello del 2020. Sul lungo termine, l’invecchiamento della popolazione rischia di accelerare l’esaurimento del cosiddetto dividendo demografico, che ha rappresentato quasi il 20% della crescita economica potenziale del gigante asiatico dal 1981 al 2010.
LE PROSPETTIVE ECONOMICHE IN CHIAROSCURO. Anche nel futuro più prossimo, le prospettive non sono entusiasmanti. Il Fondo monetario internazionale prevede che il prodotto interno lordo cinese crescerà solo del 3,3% quest’anno, in calo rispetto all’8,1% del 2021 e ben al di sotto dell’obiettivo del 5,5% inizialmente programmato dai policy maker cinesi. A giudicare dai comunicati rilasciati a luglio non è escluso che il partito comunista decida in via eccezionale di chiudere tutti e due gli occhi in caso non venga centrato il bersaglio. Escludendo l’impiego di “stimoli eccessivi”, il premier Li Keqiang si è limitato a dire che la leadership farà il possibile per ottenere “buoni risultati”. Segno che, valutato il contesto internazionale, Pechino potrebbe accontentarsi anche di tassi di crescita molto meno ambiziosi.
A preoccupare è soprattutto la grave situazione lavorativa: la disoccupazione giovanile è lievitata quasi al 20% minacciando la stabilità sociale. Il peggio potrebbe ancora arrivare. Dopo la devastante chiusura di Shanghai e dintorni, diverse aziende – straniere ma anche cinesi – hanno cominciato a dirottare gli investimenti in altre parti dell’Asia per evitare interruzioni nella supply chain. A guardare oltreconfine non è solo l’industria tessile, come in passato. Nei mesi scorsi, Apple e Samsung hanno annunciato di voler spostare in Vietnam parte della produzione di iPad e semiconduttori. Secondo dati del governo cinese, a luglio la produzione cinese di circuiti integrati è scesa del 16,6% su base annua dopo che una nuova ondata di casi covid ha ostacolato la produzione e danneggiato la domanda.
Se i danni causati dalla strategia sanitaria cinese saranno di lunga durata è però ancora da vedere. Complessivamente, il mix tra Zero Covid e tensioni politiche non pare avere reso meno appetibile il mercato cinese. Nella prima metà del 2022, nonostante l’isolamento di Shanghai e la neutralità filorussa di Pechino in Ucraina, gli investimenti dell’Unione Europea in Cina sono aumentati del 15% su base annua. Illustrando l’inaspettato trend, la società di ricerca indipendente Rhodium Group ha dichiarato che “almeno le aziende europee, soprattutto i player più grandi che hanno già interessi significativi in Cina, stanno continuando i loro investimenti pianificati, anche se con alcuni ritardi” a causa dei lockdown. Seguendo una “strategia di localizzazione”, sono sempre di più le corporation a costruire catene di approvvigionamento e partnership locali per contenere i rischi geopolitici. Come in altri periodi di crisi, l’unicità della filiera cinese trattiene molti dal fare i bagagli.
Non sembrano esserci rallentamenti nemmeno sul versante commerciale. Tutt’altro. La Cina, nel biennio pandemico, è riuscita persino a consolidare la sua posizione nel settore manifatturiero. Secondo i dati della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo, a livello mondiale la quota cinese delle esportazioni di beni in valore è aumentata dal 13% del 2019 al 15% di fine 2021. L’espansione ha interessato anche prodotti ad alto valore aggiunto, un tempo prerogativa dei giganti europei: lo share globale dell’export cinese di elettronica, ad esempio, è passato dal 38% di tre anni fa al 42%, laddove la posizione di Germania, Giappone e Stati Uniti è contestualmente diminuita.
Pechino conta sul fatto che il mondo ha bisogno della Cina più di quanto la Cina non abbia bisogno del mondo. Per ora si è dimostrata una scommessa vincente. Come sottolineato da diversi economisti, tuttavia, l’aumento delle esportazioni e della produzione industriale non è necessariamente sinonimo di buona salute. Non potendo contare sulla spesa interna, la leadership cinese non ha altre leve se non quella di continuare a pompare il surplus commerciale e investire nelle infrastrutture.
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Insomma, a Pechino non resta che puntare ancora su quel paradigma di sviluppo che negli ultimi vent’anni ha permesso alla Cina di crescere rapidamente, lasciando tuttavia sotto il tappeto una serie di distorsioni esplosive: pile di debiti da ripianare e una bolla immobiliare ormai difficile da gestire. Il covid ne potrebbe diventare l’innesco.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 98 di Aspenia