Che stiamo passando da un paradigma ad un altro, e nello specifico da quello fordista a quello digitale lo abbiamo ormai detto e ridetto, in moltissime sedi. Ora si tratta di capire quali sono le caratteristiche del nuovo paradigma nel quale stiamo entrando.
Certo resta sempre vero quello che diceva il grande Yogi Berra, il Trapattoni americano: “non c’è cosa più difficile che fare previsioni sul futuro”. Ma qui non si tratta di divinazione o di leggere il fegato degli animali o intrepretare il volo degli uccelli. Qui si tratta di mettere un piede davanti all’altro, saggiando il terremo e cambiando direzione quanto è troppo morbido.
So che i filosofi della scienza non saranno del tutto d’accordo (e hanno ragione), ma diciamo che un paradigma scientifico dice l’opposto di quello che lo ha preceduto. Ad esempio, il sistema tolemaico prevedeva che il sole girasse intorno alla terra, arriva Copernico e fa il contrario: fa girare la terra interno al sole. Prima che arrivasse Charles Darwin (uno dei più grandi pensatori della storia dell’umanità), i creazionisti credevano al “fiat” divino, poi arriva lui e dice che lo scimpanzé è nostro cugino.
Non solo dunque dicono cose diverse, ma il passaggio dall’uno all’altro, come insiste Thomas Kuhn è un passaggio tra incommensurabili.
Ora proviamo a ragionare su che cos’è il fordismo. Anzi, iniziamo dicendo cosa non è. Non è qualcosa che riguarda solo la fabbrica, non è quindi solo un modo di produzione.
Il fordismo è una soluzione logica per poter risolvere una serie di problemi. Il primo: come faccio, date le tecnologie esistenti, a ridurre i costi di trasporto e quelli di comunicazione? Semplice, concentro la produzione e il consumo di beni e servizi in un unico luogo. Ecco allora che hai la fabbrica fordista, le grandi città, i mega ospedali, i grandi complessi scolastici, i grandi magazzini, le grandi navi da crociera e i villaggi vacanze, gli stadi e i trasposti pubblici e per certi versi anche il fatto che si vota una volta ogni cinque anni, tutti nello stesso giorno. Tutto quello che prevede assembramenti per produrre o consumare un bene o un servizio è fordismo. E il coronavirus lo sa.
Problema numero due. Esiste un nesso fortissimo tra la vita e la morte. Detta così andiamo troppo sul filosofico e vorrei evitare. Che voglio dire? Voglio dire che se un paese mi chiede di imbracciare le armi per difenderlo, se vado bene per indossare l’armatura e se devo essere disposto a morire per il mio paese, allora devo anche poter decidere quando si va in guerra e quando no. Se la nazione decide della mia sorte, mandandomi in guerra, allora devo poter dire la mia sulla pace e sulla guerra e quindi sul governo della città.
Per dirla diversamente, gli eserciti di popolo, la coscrizione obbligatoria, la leva di massa conducono alla democrazia, o quanto meno ad un allargamento della partecipazione.
Dietro le riforme di Efialte, alla metà del V secolo a.C, ci sono gli opliti che premono, dietro l’istituzione del tribuno della plebe nel 471 a.C. e dell’apertura a Roma del cursus honorum a tutti, ci sono gli scioperi della plebe in armi sul Monte Sacro e sull’Aventino, dietro la fine del potere dei Grandi nei comuni italiani del XII e XIII secolo ci sono gli eserciti comunali (a Campaldino c’era anche Dante).
La stessa cosa accade nell’età moderna, a partire dalla nazione in armi di Napoleone (si ascolti la Marsigliese) le masse fanno la loro irruzione nella storia. Se è indubbio che c’è stata una nazionalizzazione delle masse (George Mosse), non è campato in aria dire che c’è stata anche una massificazione della nazione, della produzione, della cultura, di tutto. Anzi una ribellione delle masse nei confronti di una certa idea aristocratica (nel senso etimologico) della civiltà liberale ottocentesca (José Ortega y Gasset).
Nasce da qui il protagonismo delle masse. Se la nazione mi chiede di sacrificare la vita per la patria, allora io chiedo alla patria di poter lavorare, mangiare e vivere dignitosamente. Il che vuol dire che non solo vi è un nesso tra guerra e democrazia, ma che vi è anche un nesso tra eserciti di popolo e stato sociale.
Dunque produrre, mangiare e vivere dignitosamente. Ma come si fa a piegare il nuovo sistema di produzione che sta nascendo fatto da operai-ingegneri-inventori geniali, in un sistema che sia in grado di dare lavoro anche al più tonto dei contadini o dei pastori nomadi?
Semplice, prendo una produzione complessa che prima solo un Tesla, un Ford o un Westinghouse erano in grado di immaginare e la spezzetto in una serie di azioni frammentate e ripetitive. Non serve più dominare il processo di produzione, conoscere tutti i passaggi per arrivare al prodotto finale, è sufficiente saper dare una martellata, avvitare un bullone e il resto non conta.
Nasce da qui il fordismo della catena di montaggio e la civiltà dell’iper-specializzazione, dove si deve studiare per decenni per diventare un super esperto di chiavi a brugola: “la trasformazione taylorista-fordista scalza il ricorso al talento artigiano, a vantaggio di una nuova classe di operai specializzati per i quali si ritiene importante solo saper manovrare le macchine svolgendo ‘piccole operazioni’. A questa classe non si richiede una particolare competenza, ma la capacità di saper svolgere lavori di routine, preferibilmente senza comprendere la complessità delle nuove macchine, per evitare di ‘essere distratti dal disegno di insieme’”.
Sulla catena di montaggio e sulla iper-specializzazione abbiamo dunque costruito un mondo intero, con le sue logiche e le sue perversioni: si pensi ai settori disciplinari concepiti a compartimenti stagni dove se qualcuno ne sa di un altro settore disciplinare lo nasconde, per non passare per uno studioso poco serio (per Karl Popper i settori disciplinari non esistono, sono solo degli strumenti per fare l’unica cosa che conta e cioè risolvere problemi).
Ora, la produzione di massa, conduce al prodotto di massa, che è il contrario della personalizzazione. Dunque fordismo significa anche catena di montaggio, quindi parcellizzazione del processo produttivo in ogni ambito e produzione di massa di prodotti e servizi standardizzati.
Eppure, lo si diceva prima, il fordismo non è solo un modo di produzione. È un intero ordine sociale.
Immaginate il percorso di studi che un bambino fa dalla prima alla quinta elementare. Passa di stadio in stadio come su un rullo e a ogni passaggio c’è un operatore (l’insegnante) che aggiunge dei pezzi (di sapere), finché non si arriva alla fine del ciclo, con il controllo di qualità (esami) prima di essere immessi nel mercato.
Il che porterebbe a fare una serie di considerazioni, come il fatto che c’è qualcuno che detiene il sapere, che è un dato, e lo trasferisce a qualcuno che ne è privo. Che è l’esatto contrario dell’idea di un sapere che va inventato e scoperto. Per dirla diversamente, il sapere è qualcosa di vecchio che si tramanda, non qualcosa di nuovo che si deve inventare. Questa idea, pertanto, implica una autorità, che sa, è un pubblico che non sa, e il cui unico compito è quello di recepire passivamente. È un caso che in classe si stia implotonati, allineati e coperti come al militare?
Stesso discorso vale anche per la salute. Che cosa sono gli ospedali se non delle grandi officine dove si ripara quella macchia sui generis che è il corpo umano (sarebbe interessante ragionare su come l’idea della macchina abbia plasmato il nostro intero immaginario collettivo). Anche là, negli ospedali intendo, c’è una produzione parcellizzata del bene salute, fatta da specialisti e anche là ci sono i reparti come in fabbrica.
Ora, chi scrive ritiene che il Covid sia un elemento che accelera il passaggio da un paradigma all’altro dal giorno uno. Ma c’è anche un’altra riflessione da fare. Se il fordismo è un paradigma dominante che ha funzionato sino ad ora, il Covid è l’elemento nuovo che mette in crisi il vecchio paradigma, che apre una fase di scienza nuova, rivoluzionaria (per usare le categorie di Kuhn non certo quelle di Lenin), che deve costruire il nuovo paradigma. In sintesi, il Covid è la falsificazione popperiana che dimostra che il vecchio paradigma non funziona più.
Se così stanno le cose, allora tutto ciò che sulle logiche fordiste era stato costruito svanirà nel giro di qualche anno, ci si ricorderà delle domeniche alla stadio come dei grandi comizi di piazza, gli specialisti della chiave a brugola faranno la fine delle tigri dai denti a sciabola, dei grandi centri commerciali leggeremo nei libri di storia come delle grandi fiere della Champagne, nei grandi ospedali si ricaveranno dei loft come con i grandi complessi industriali urbani, e le lunghe ore in fila sulla tangenziale o la calca sul 60 Express sulla Via Nomentana la mattina, appariranno a tutti quello che sono, cioè non un pezzo di modernità ma una follia.
Sarà un passo in avanti, dunque. Ma un problema c’è ed è la velocità del cambiamento, che non ha dato alla maggioranza delle persone né il tempo di capire, né quello di provare ad orientarsi, di qui la nostalgia per il mondo di ieri, quell’illusione che tutto potrà ritornare come prima, che di fatto fa di tanti di noi degli orfani del fordismo.