Gli USA e la nuova fiammata del conflitto israelo-palestinese

L’escalation di violenza in Israele e Gaza non è una buona notizia per gli Stati Uniti. Gli scontri di queste settimane sono dovuti al divieto di raduno alla porta di Damasco durante il Ramadan e, dopo che le restrizioni sono state attenuate, alle requisizioni di case a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme est. Il detonatore della reazione è però stato l’ingresso della polizia israeliana nella spianata della moschea di Al Aqsa, che ha sua volta a prodotto un ultimatum di Hamas, il lancio di missili e la reazione israeliana. Una nuova versione di un film già visto.

Gaza dopo uno degli attacchi israeliani, il 12 maggio

 

L’amministrazione Biden non aveva tra le priorità quella di avviare l’ennesimo processo negoziale con scarse probabilità di successo tra israeliani e palestinesi. Senza interlocutori degni di questo nome e vista l’assenza di volontà delle parti di fare dei passi l’una nella direzione dell’altra – e con i palestinesi più che divisi – la possibilità di ottenere risultati è pressoché nulla. L’impegno prioritario della politica estera americana nella regione è nella difficile trattativa con l’Iran, che questa crisi rischia di complicare e che già complicava abbastanza le relazioni con Israele.

Ma nel momento in cui la crisi di maggio è deflagrata, al Dipartimento di Stato non hanno potuto fare altro che tornare a occuparsene in maniera continua: troppi i rischi in una regione dove la diplomazia americana sta cambiando la propria direzione con una politica di piccoli ma significativi passi – come ad esempio il nuovo atteggiamento, più critico che in passato, nei confronti del reggente saudita Mohamed bin Salman.

In materia di politica israelo-palestinese Biden eredita dall’amministrazione Trump una situazione molto cambiata. Il presidente repubblicano, il suo inviato nella regione Jared Kushner e il Segretario di Stato Mike Pompeo hanno ricambiato l’amicizia del premier israeliano Benjamin Netanyahu con ogni tipo di concessioni. Negli anni di Trump abbiamo assistito al trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme e alla chiusura del consolato di Gerusalemme Est (ovvero la città simbolo delle religioni monoteiste è la capitale di Israele e non quella del non Stato palestinese), che dagli accordi di Oslo del 1993 fungeva da rappresentanza diplomatica presso i palestinesi, a un via libera de facto al lento processo dell’annessione israeliana di Gerusalemme Est e delle colonizzazioni in generale, il riconoscimento da parte di diversi Paesi nemici della regione e l’adozione di un “piano di pace” squilibrato verso Israele e non negoziato con i palestinesi. Il Segretario Pompeo ha compiuto la prima visita di un diplomatico americano in un insediamento colonico espropriato ai palestinesi il 19 novembre 2020, sedici giorni dopo aver perso le elezioni. Un ultimo regalo.

Donald Trump e Benjamin Netanyahu alla presentazione del “piano di pace”, nel gennaio 2020

 

È questo il contesto in cui si muove la diplomazia statunitense, che già nei giorni che hanno preceduto l’esplosione delle violenze aveva cominciato a farsi sentire, perché la situazione a Sheikh Jarrah e (il quartiere palestinese a Gerusalemme Est) i segnali sul terreno lasciavano presagire l’arrivo di una tempesta. Già il 7 maggio con un comunicato diffuso alle 10 di sera (fatto del tutto inusuale, come ha sottolineato il portavoce Ned Price) il Dipartimento di Stato condannava le violenze nominando in maniera esplicita la necessità di “Preservare lo status quo sull’Haram al-Sharif / Monte del Tempio – a parole e nella pratica”. Un implicito monito a Israele in vista delle celebrazioni per la fine del Ramadan. Il Dipartimento di Stato esprimeva preoccupazione anche per lo sfratto delle famiglie palestinesi nei quartieri Sheikh Jarrah e Silwan a Gerusalemme scrivendo: “molte di quelle persone vivono nelle loro case da generazioni”. Anche questo era un messaggio non particolarmente velato a Israele. Lo stesso consegnato dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, al suo omologo israeliano. Le scelte di cancellare le manifestazioni celebrative dei coloni e di rimandare la decisione della Corte suprema in materia di sgomberi delle case a Sheik Jarrah sono almeno in parte il prodotto delle pressioni americane.

Ma gli inviti alla calma non sono serviti granché. Per certi versi Netanyahu e Hamas (come scriveva due anni fa Aaron David Miller) sono nemici con interessi in comune e questa crisi ne è l’ennesima riprova: il premier israeliano vede rinviare i negoziati politici per sostituirlo (è infatti premier soltanto ad interim, al momento attuale) e distrae dalle sue vicende giudiziarie; il partito islamico che controlla la Striscia di Gaza prova a intestarsi la resistenza, e a divenire la sponda politica di una protesta giovanile che, in realtà, non nasce tra le sue fila.

Agli Stati Uniti non resta dunque che usare tutti i canali diplomatici a disposizione per raffreddare la situazione. E così si inviano mediatori tra cui l’esperto vice Segretario di Stato Hady Amr nell’area, di concerto con l’Egitto – che parla con Hamas per sollecitare la de-escalation da entrambe le parti. I portavoce di Dipartimento di Stato, Casa Bianca e Consigliere per la sicurezza nazionale non fanno che ripetere “de-escalation”, “sforzo diplomatico” e “diritto di Israele a difendersi” ma hanno ridotto il livello di comunicazione pubblica sul tema al minimo. Segno che c’è un vero e articolato sforzo in atto.

Sul fronte pratico Biden ha già sbloccato milioni di aiuti all’Autorità Palestinese e anche all’UNRWA (Agenzia ONU che si occupa dei milioni di rifugiati palestinesi): l’arrivo di fondi e risorse potrebbe nel tempo raffreddare e migliorare la situazione a Gaza e nei Territori. Ma resta molto difficile prevedere quale sarà il punto di caduta per le parti in gioco, fino a dove vorranno e potranno spingersi, –e anche come evolverà quella parte del conflitto che vede come espressione le violenze urbane tra cittadini israeliani di origine diversa. Una nuova Intifada metterebbe tutte le parti in campo in una situazione differente dal recente passato: non è più e solo questione di fare pressione su Hamas, Fatah e Israele.

Una novità storica di questa nuova deflagrazione di violenza è il clima con cui viene accolta negli Stati Uniti. Secondo il Pew Research Center gli ebrei americani sono sempre meno religiosi, nel senso che tra gli under 30 il 41% è ebreo non religioso, il 54% tra gli ebrei americani non è mai stato in Israele, percentuale che cresce al 78% tra i non religiosi. Il dato più interessante riguarda l’attaccamento: il 47% dei democratici, il 51% dei giovani e il 41% del totale non sente attaccamento nei confronti di Israele. Quanto all’attitudine del pubblico americano in generale, tra 1978 e oggi l’opinione su Israele è divenuta molto più negativa e quella sulla Palestina è leggermente migliorata. Gli evangelici conservatori sono i più pro-Israele perché vedono nella creazione dello Stato ebraico un segnale che il ritorno di Gesù è più vicino.

I dati sull’opinione americana spiegano bene la difficoltà dell’amministrazione Biden così come le divisioni interne al suo partito, dove la spaccatura è sia tra moderati e sinistra, che tra fasce più giovani e generazioni per cui invece l’amicizia con Israele è parte del DNA politico. I nuovi orientamenti generano anche una pressione nuova da parte dei media: nelle sale stampa di Washington le domande sulle violenze contro i palestinesi, sulla condanna degli sgomberi a Sheikh Jarrah e la politica di colonizzazione in generale sono più frequenti e più nette che in passato. Mentre, in assenza di una politica, le risposte tendono a essere quelle del passato (il diritto di Israele a difendersi, la preoccupazione per le vite dei civili, etc.). A oggi la linea praticata sembra essere: pressione moderata su Israele, prossima nomina dell’ambasciatore, fondi ai palestinesi, coinvolgimento dei partner regionali per riportare le cose dove erano. Un po’ poco.

Anche perché, come ricordano Daniel Levy e Zaha Hassan su Foreign Policy, la “dottrina Biden” (per quanto emerso finora, in modo non del tutto formalizzato) è una in cui democrazia e diritti umani tronano a giocare un ruolo importante. E come si può essere netti su Hong Kong, Myanmar, Kiev o Mosca se non si dice nulla sulla cancellazione delle elezioni palestinesi o delle violazioni del diritto internazionale osservando e criticando blandamente gli sgomberi nei Territori? Fino a quando la situazione restava sotto traccia questa contraddizione era più facile da evitare; oggi è più complicato.

E chissà che, per l’ennesima volta, il Medio Oriente da cui gli Stati Uniti cercano di ritrarsi da Obama in poi, non torni a essere vitale per misurare quanta influenza rimanga alla diplomazia e alla politica estera americane.

 

 

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