Gli USA e il mondo: una nuova globalizzazione

 Al contrario di quanto molte analisi suggeriscono, la politica estera (e la stessa politica economica) degli Stati Uniti è il fulcro potenziale di una nuova fase di globalizzazione. Una fase con caratteri parzialmente diversi da quelli che conosciamo, senza che ciò implichi l’abbandono dei cardini dell’attuale sistema internazionale degli scambi.

 

Due recenti discorsi ufficiali, entrambi pronunciati a Washington, DC – presso centri studi di grande tradizione e prestigio come Johns Hopkins e Brookings – consentono una valutazione più puntuale del problema e della risposta che Washington sta fornendo.

Il più recente (27 aprile) è quello dell’Assistente alla Sicurezza Nazionale, Jake Sullivan, che ha illustrato le priorità dell’amministrazione Biden rispetto all’economia globale in chiave di politica industriale.

Invece di confidare nella “deep trade liberalization” come ricetta necessaria e sufficiente, si punta ora a una migliore qualità della crescita economica (una crescita “inclusiva”) che benefici soprattutto la classe media, in quanto pilastro di ogni società liberal-democratica. Massicci investimenti pubblici – si pensi all’Inflation Reduction Act ma non solo – sono parte integrante della nuova ricetta, sia per accrescere la competitività del sistema americano sia per fronteggiare la sfida strategica posta in particolare dalla Cina alla sicurezza internazionale (e, naturalmente, al ruolo di leadership degli USA). In alcuni settori critici, dai semiconduttori alle tecnologie per le fonti energetiche rinnovabili, l’intervento governativo è cresciuto e dovrà restare importante.

 

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In uno slogan, si potrebbe dire che la fiducia nelle virtù dell’interdipendenza – alla base della globalizzazione – è ora moderata dalla preoccupazione per quella che Sullivan ha definito “overdependence” (come quella europea dal gas russo o quella americana da alcuni prodotti cinesi di media tecnologia, o ancora quella di molti Paesi dalle famose terre rare di cui Pechino ha fatto incetta): la ricerca di un nuovo equilibrio è l’essenza della fase in corso.

L’approccio di Washington, pur partendo da un rinnovamento delle politiche industriali nazionali, non è soltanto arroccato sul perseguimento di interessi nazionali, né in alcun modo autarchico: Sullivan ha così parlato degli alleati e dei partner degli USA come fattori cruciali di una strategia più ampia. Anzitutto la UE, il Canada e gli alleati asiatici, ma anche un partner come l’India, sono indispensabili per sfruttare al meglio una vasta rete di scambi che potenzia le produttività e accelera l’innovazione. Ciò presuppone la stipula di nuovi accordi economici internazionali, basati su priorità in parte diverse dal passato, cioè che vadano oltre la globalizzazione degli anni ‘90:

“Creating diversified and resilient supply chains. Mobilizing public and private investment for a just clean energy transition and sustainable economic growth.  Creating good jobs along the way, family-supporting jobs. Ensuring trust, safety, and openness in our digital infrastructure.  Stopping a race-to-the-bottom in corporate taxation. Enhancing protections for labor and the environment. Tackling corruption.  That is a different set of fundamental priorities than simply bringing down tariffs.”

Come si vede, siamo di fronte a un programma di politica estera e di sicurezza che prefigura una forma aggiornata di globalizzazione – certo non la negazione di un meccanismo economico globale.

Lo conferma, peraltro, anche la rinnovata popolarità del concetto di diversificazione; l’opzione di diversificare (i fornitori, i mercati, gli investitori, le tecnologie) implica che esistono alternative, e che i mercati internazionali sono un grande strumento piuttosto duttile e perfino “creativo”, come del resto ci dicono la teoria economica dei vantaggi comparati e gli studi sull’innovazione. Se insomma si allarga lo sguardo per ricordare come realmente funziona la globalizzazione, si aprono molte possibilità forse inaspettate.

L’altro discorso degno di nota è quello pronunciato il 20 aprile dal Segretario al Tesoro, Janet Yellen, specificamente dedicato alle relazioni con la Cina, che può leggersi in “combinato disposto” con l’intervento di Sullivan. Ne emerge la conferma che Washington ha posto le considerazioni politiche (comprese quelle relative alla natura del regime cinese) e di sicurezza al centro delle proprie scelte anche economiche. E’ cioè in atto una “ricalibratura” delle priorità americane, che di per sé non rinnega affatto la fiducia nei grandi benefici della globalizzazione: Yellen ha infatti sottolineato l’importanza di una “sana competizione” economica per la stessa innovazione continua che è un fondamento del benessere. Alcuni passaggi del suo intervento sono deliberatamente finalizzati a prefigurare uno scenario diverso da quello minaccioso di una “nuova guerra fredda”: quello che Yellen definisce “heatlhy economic engagement” a livello bilaterale parte dalla consapevolezza che le due maggiori economie al mondo sono strettamente integrate tra loro. Ne deriva un obiettivo politico esplicito che ha un impatto sistemico bel oltre il rapporto bilaterale:

“China and the United States can manage our economic relationship responsibly. We can work toward a future in which both countries share in and drive global economic progress.”

La visione presentata dal Segretario al Tesoro include espressamente questioni di interesse comune e multilaterale, come la gestione dei cambiamenti climatici e il debito pubblico dei Paesi più poveri, lasciando intendere che, dopotutto, gli USA non hanno abbandonato ogni speranza di trasformare la Cina in un “responsible stakeholder”.

Pur scontando, per così dire, la dimensione retorica dei discorsi ufficiali di esponenti governativi, rimane una coerenza di fondo tra queste dichiarazioni e i comportamenti fin qui adottati dalla presidenza Biden: non c’è stato alcun precipitoso ricorso alla chiusura economica, e le varie misure protezionistiche o sanzionatorie introdotte dalla precedente amministrazione verso numerosi partner commerciali sono state razionalizzate e inserite in un contesto assai più dialogante da quella attuale – perfino nei confronti della Cina. Il punto di fondo è che la globalizzazione non è una dinamica a somma zero, e consente dunque a molti dei partecipanti (se non a tutti) di migliorare la propria condizione complessiva; non si tratta di un miracolo, né di un trucco o di una fake news. Perché il meccanismo si autoalimenti, però, è necessario che non sia distorto o perfino bloccato dalla logica (questa sì, a somma zero) del puro confronto militare e di potenza.

 

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Torniamo così al nodo problematico che ha valenza davvero strategica: il ruolo della Cina nel sistema globale, tenendo conto non soltanto degli interessi economici ma anche dell’interferenza di scelte politiche, dettate da ambizione, paura di accerchiamento, e nazionalismo. Vanno qui ricordati due dati perfino elementari, ma troppo spesso sottovalutati. Il primo è che il sistema politico cinese non è mai stato democratico ma ha certo vissuto una netta involuzione autoritaria dal consolidamento al vertice del potere di Xi Jinping, che ha coinciso con un atteggiamento ben più assertivo, ideologico e talvolta bellicoso in politica estera.

Il secondo dato riguarda la traiettoria economica: l’economia cinese, gradualmente dagli anni ’80 e poi con grande slancio nell’ultimo ventennio, si è agganciata al treno della globalizzazione dei mercati e ne è diventata perfino un traino; tuttavia, il modello di crescita che le ha consentito di diventare una superpotenza commerciale ha ora raggiunto il suo limite (come mostra la traiettoria del PIL e ancor più la qualità dello sviluppo per gli stessi cittadini cinesi), necessitando di profondi cambiamenti. Non è insomma il modello americano (e degli altri Paesi OCSE, nelle diverse varianti) a doversi radicalmente reinventare: è quello della Repubblica Popolare. In estrema sintesi, se Pechino intende sfidare sul piano politico-militare gli Stati Uniti, deve accettare il rischio di vedersi ridurre l’accesso ad almeno alcuni vantaggi dei mercati internazionali. Non basta infatti annunciare una sorta di “declino terminale” americano per renderlo reale; è necessario fare una forzatura se si vogliono introdurre regole del gioco diverse per sostituire quelle attuali – certo imperfette e spesso violate, ma comunque percepite come una camicia di forza da Xi Jinping, dunque evidentemente di qualche rilevanza. C’è qui una contraddizione interna alle rivendicazioni cinesi, che sembrano considerare la leadership americana al tempo stesso asfissiante, aggressiva, superflua, inefficiente, declinante. Qualcosa non torna in questo quadro.

E’ proprio su tale sfondo che vanno allora interpretate le prospettive future della globalizzazione.

Può la globalizzazione fare a meno della Cina? Nella sua forma attuale no (è il motivo per cui, prudentemente, sia USA che UE cercano di evitare un netto “decoupling”), ma in altre forme certamente sì. Il commercio internazionale di beni e servizi può crescere anche senza il contributo cinese, soprattutto alla luce dell’enorme potenziale di Paesi come l’India, del ruolo consolidato dell’ASEAN, e delle prospettive di economie come quella brasiliana e di alcune aree del continente africano. E’ chiaro che sottrarre la Cina dall’equazione globale implicherebbe un vero stravolgimento economico, ma è anche vero che le società democratico-liberali di mercato hanno raggiunto alti livelli di reddito senza aver bisogno della Cina Popolare – mentre il Partito Comunista Cinese ha conosciuto una sola fase di crescita accelerata, proprio grazie ai mercati e alle tecnologie occidentali. Difficile valutare chi stia rischiando di più, in un eventuale scenario “deglobalizzato”.

In estrema sintesi, se la globalizzazione non ci fosse, si dovrebbe inventarla. Per fortuna, c’è già, e si potrà adattarla a nuove circostanze. L’amministrazione Biden sembra aver ben compreso lo snodo importante della fase storica in cui ci troviamo.

 

 

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