L’ennesimo colpo di scena della campagna elettorale più anomala del secondo dopoguerra, quella tra Donald Trump e Joe Biden per la Casa Bianca, è stato forse il più clamoroso: la positività al Covid-19 del Presidente Donald Trump.
Non che fossero mancate le unicità, finora, in una campagna non solo condizionata ma sconvolta da una pandemia di proporzioni mondiali che proprio negli Stati Uniti ha avuto uno dei suoi epicentri incontrollati. Momenti solenni e rituali, come le convention dei partiti in cui avviene l’investitura ufficiale dei candidati o i comizi con i classici bagni di folla in giro per il paese, sono stati stravolti, sostituiti con attività prevalentemente online, o rimodulati per un numero limitato di persone. Anche gli stessi dibattiti televisivi, un altro classico che ha prodotto pagine memorabili della politica americana, sono stati modificati, così come sono state ridotte le più semplici cene di finanziamento o le attività di propaganda elettorale a contatto con le persone, soprattutto da parte del candidato democratico.
Il contagio di Trump diventa l’ultimo tassello che toglie ogni residua normalità a questa atipica battaglia elettorale, anzi ne complica ulteriormente il quadro nella fase finale, aprendo scenari ancora più imprevedibili per il voto.
Vertigo
In elezioni influenzate da un evento di portata storica così rilevante, il destino di Trump e della sua permanenza alla Casa Bianca per altri quattro anni si intreccia profondamente con la gestione della crisi sanitaria ed economica dovuta alla pandemia. Se dal lato economico è troppo presto per fare un bilancio della situazione di questi mesi, sicuramente si può fare una valutazione della gestione politico-sanitaria dell’amministrazione Trump.
Per farlo, non si può che partire dal dato oggettivo numerico più eclatante e impressionante: gli Stati Uniti sono il paese al mondo che ha registrato più contagi e morti da Covid-19, in termini assoluti. In proporzione alla popolazione, per numero di vittime, solo sette paesi al mondo registrano dati peggiori di quello americano. Gli States contano infatti più di 219mila morti riconducibili alla pandemia, ovvero più della metà dei morti che gli Stati Uniti ebbero durante la seconda guerra mondiale, quando al fronte persero la vita 407mila americani.
Per il candidato democratico Biden, così come per molti osservatori indipendenti, questi terribili numeri sono anche frutto delle decisioni del Presidente. Sia nella campagna elettorale, sia durante il primo rissoso e forse unico dibattito presidenziale fra i candidati, lo sfidante democratico ha incalzato Trump sulla sua persistente sottovalutazione dei rischi, sulle soluzioni azzardate proposte e sulle continue indicazioni contrastanti date, che sarebbero costate agli Stati Uniti molte più vite umane, rispetto ad altri paesi e che si sarebbero potute evitare con una direzione politica più chiara ed efficace.
Si tratta di accuse che un numero significativo di americani certamente condivide, stando ai sondaggi che in seguito alla notizia della positività di Trump hanno cominciato a registrare un aumento del vantaggio di Joe Biden nelle intenzioni di voto, come se il contagio del Presidente fosse una specie di muro psicologico, caduto il quale molti sostenitori si ritraggono delusi. Tanto che ormai più di qualcuno sospetta che, per recuperare, Trump potrebbe arrivare a giocare una carta ancora più clamorosa, cioè il lancio di un ipotetico vaccino pronto proprio qualche giorno prima delle elezioni – quasi a tentare un ultimo disperato colpo che possa da una parte ribaltare i sondaggi e illudere gli americani della fine dell’incubo Covid, e dall’altra inquinare ancora di più la battaglia elettorale con gravi risvolti.
“Trump and the Covid”
Il rapporto tra il coronavirus ed il presidente americano, che ha avuto un primo epilogo con il contagio di quest’ultimo nei giorni scorsi, merita una trattazione dettagliata poiché è indice non solo della personalità di Trump, ma ci fornisce uno spaccato della sua conduzione della Casa Bianca in questi anni e può essere un buon punto di partenza per verificare le relative accuse di ritardo e confusione nella risposta alla pandemia.
In una breve carrellata cronologica, a gennaio Trump parte minimizzando l’impatto umano ed economico del virus, derubricandolo ad una semplice influenza. A febbraio invece inizia ad affermare che il virus è un “prodotto cinese” e comunque che negli Stati Uniti era già stato sconfitto. Fino al 10 marzo ha continuato a sostenere che negli USA nessuno stava morendo per Covid-19 e che come tutte le influenze massimo per aprile, o con il caldo, in virus sarebbe scomparso.
Dopo solo tre giorni da quelle dichiarazioni, però, il 13 marzo dichiara lo stato di emergenza nazionale e sospende i voli da quasi tutti i paesi dell’area Schengen, accusando l’Europa di non riuscire a bloccare il virus proveniente dalla Cina. Il 16 marzo è costretto ad ammettere che anche negli Stati Uniti la situazione non è più sotto controllo e per la prima e forse unica volta invita gli americani a rimanere a casa, evitare assembramenti e viaggi. A fine marzo annuncia che il Covid-19 è una pandemia, che lui l’aveva valutata in questo modo già da tanto tempo e che tutte le responsabilità sono in capo alla Cina che l’ha creata e sottaciuta insieme all’OMS che non ha vigilato i cinesi. Negli stessi giorni dichiara che della sua amministrazione si potrà dire che avrà fatto un buon lavoro, se il bilancio complessivo finale delle vittime negli USA non avesse superato la soglia dei 100 mila morti.
Ad aprile parte con un altro dei suoi cavalli di battaglia nella vicenda Covid, ossia il rifiuto di indossare la mascherina, andando addirittura contro le raccomandazioni della “task-force” sul coronavirus da lui stesso voluta e guidata dall’immunologo e medico Anthony Fauci.
A più riprese, Trump fa conoscere pubblicamente nei mesi successivi la sua contrarietà all’uso della mascherina, facendosi riprendere e fotografare innumerevoli volte senza protezioni facciali in luoghi affollati, e arrivando ad attaccare non solo il suo avversario Biden che l’ha sempre portata, ma anche a puntare il dito contro i giornalisti che la indossavano durante le conferenze stampa o le interviste alla Casa Bianca.
A questo si aggiunge che tra aprile e giugno, Trump ha azzardato veri e propri consigli medici sul tema, rivolti all’opinione pubblica, facendo passare messaggi pericolosi e confusionari come le indicazioni sull’uso delle iniezioni di candeggina e disinfettante nel sangue o sull’utilizzo dei farmaci antimalarici come soluzioni “scientifiche” utili contro il virus.
Il Presidente twitta sempre due volte
Sul lato politico strettamente interno invece merita ricordare che il Presidente Trump non solo si è sempre mostrato scettico rispetto a deicisioni come i lockdown, ma ha anche incitato platealmente le persone a rivolte contro i confinamenti locali decisi negli stati governati dai democratici. In un quadro che necessiterebbe una trattazione ancora molto lunga vista la smania comunicativa della presidenza Trump, va comunque rammentato che a luglio gli Stati Uniti hanno abbandonato l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Nazioni Unite a cui partecipano tutti i paesi del mondo, colpevole per Trump di essere un organismo in mano alla Cina; e che ad agosto il Presidente ha dichiarato tramite un tweet che gli elettori potrebbero contrarre il coronavirus inserendo la scheda elettorale nelle cassette postali. Il tweet è stato criticato e segnalato da Twitter che lo ha bollato in questo modo: “Affermazioni fuorvianti sulla salute che potrebbero potenzialmente dissuadere le persone dal recarsi alle urne”.
Del resto, proprio il voto postale è diventato una delle ossessione di Trump in questa campagna elettorale, accusato di essere lo strumento con cui i democratici vincerebbero le elezioni tramite brogli. Nello specifico, per cavalcare questo tema e per far aumentare ancora di più l’incertezza sul voto postale, il presidente in estate aveva bloccato il finanziamento di emergenza da 25 miliardi di dollari del disastrato Postal Service americano, disposto invece dalla Camera con ampia maggioranza. Inoltre, ha anche nominato Luis DeJoy, un suo fedelissimo e grande finanziatore della sua campagna elettorale a capo dell’USPS, con la precisa missione di “sanare le poste”, cosa che nel piano immediatamente applicato si traduce nel taglio delle paghe dei postini e dei loro straordinari, e nella riduzione delle aperture degli uffici.
Uno schema perfetto per ingolfare il sistema postale e ritardare la consegna delle schede agli elettori, con il concreto rischio di far perdere migliaia se non milioni di voti. Donald Trump teme che il servizio postale possa aumentare le possibilità di vittoria di Joe Biden, perché il voto postale favorisce una maggiore partecipazione elettorale proprio in quelle zone dove i seggi sono più lontani o scarsi, e dove gli elettori potrebbero non recarsi alle urne per paura del contagio (zone tendenzialmente più propense a votare democratico), e quindi una mobilitazione di elettorato a lui sfavorevole. Questa scelta infatti non sembra valere per la Florida, dove i politici locali repubblicani sotto l’ala protettiva del fido governatore Ron DeSantis si muovono invece per promuovere il voto per posta, consapevoli che una buona percentuale di elettori in quello stato-chiave sono anziani “repubblicani” che potrebbero appunto non andare fisicamente alle urne. Del resto, smentendosi platealmente, lo stesso Trump voterà per corrispondenza in Florida, stato dove ha trasferito la residenza un anno fa.
Dal tramonto all’alba
Pare perciò che il vero obiettivo dell’attacco al voto postale sia quello di avere una base argomentativa per contestare i risultati elettorali, qualora non fossero quelli desiderati, paventando brogli e quindi ventilando l’ipotesi di non accettare o riconoscere l’esito delle urne. Questo, benché il voto postale sia uno strumento consolidato del sistema elettorale americano e siano rarissimi i casi di contestazione avuti. Non c’è solo la fine della carriera politica a muovere Trump, ma anche il prevedibile numero di indagini giudiziarie e parlamentari sul suo passato imprenditoriale pronte a partire in caso di sconfitta, di cui le ultime rivelazioni sulle dichiarazioni dei redditi, pubblicate sul New York Times il 27 settembre, non sarebbero che un antipasto.
Indipendentemente dallo strumentale attacco di Trump e dal rischio che la macchina postale americana possa davvero incepparsi e non reggere l’urto di milioni di voti postali visto il forte incremento a causa della pandemia, è la stessa normativa che potrebbe far configurare una nottata thriller senza risultato definitivo il primo martedì di novembre. Infatti, proprio per non diminuire la partecipazione, molti stati includono come valide le schede spedite entro il 3 novembre ed arrivate agli uffici elettorali anche giorni dopo (ad esempio tre giorni dopo in Pennsylvania), secondo una data stabilita da ciascuno stato. Ragion per cui in caso di scarto molto ridotto tra i due candidati nei classici battleground states, quegli stati dove la vittoria si deciderà per una manciata di voti, il nome del vincitore potrebbe non essere stabilito fino al completamento dello spoglio delle schede postali, giorni dopo.
L’eventualità che non si possa proclamare il presidente eletto la notte del 3 novembre potrebbe dunque aiutare l’eventuale tentativo di Trump di non accettare l’esito delle urne, o quanto meno di squalificarlo.
Delitto perfetto
C’è un terzo ed ultimo elemento che peserà come un macigno sul futuro del paese. La sostituzione della giudice della Corte Suprema Ruth Ginsburg, icona progressista, scomparsa a fine settembre. Trump e il partito Repubblicano, consapevoli dell’occasione storica di sbilanciare la Corte Suprema a destra per decenni dato che la nomina immediata permetterebbe una maggioranza conservatrice di 6 a 3 tra i componenti, ha subito indicato per la sostituzione della Ginsburg la giudice Amy Coney Barrett della Corte d’Appello di Chicago, di stampo ultraconservatrice e fervente cattolica.
Se si pensa che la Corte Suprema potrebbe avere un ruolo decisivo in caso di contestazioni elettorali, si comprende anche la fretta dei repubblicani per completare la nomina nei pochissimi giorni rimasti prima delle elezioni. Tra l’altro, nel 2016, quando Barack Obama nominò Merrick Garland ben 8 mesi prima delle elezioni, i repubblicani, che avevano la maggioranza al Senato, impedirono la ratifica con la scusa che non si poteva nominare un giudice della Corte Suprema nell’anno elettorale.
Ma non ci sono solo le elezioni: la Corte avrà in mano una serie di questioni vitali per il paese nei prossimi anni, come ambiente, lavoro, armi, diritti sindacali e civili. Si inizia il 10 novembre, una settimana dopo le elezioni, quando sarà subito chiamata a decidere sull’Obamacare con lo storico caso California vs. Texas. Una Corte con sei giudici conservatori potrebbe dare il colpo finale alla riforma sanitaria di Obama, con l’effetto di far precipitare ancora di più una situazione sociale già compromessa per effetto della pandemia.
Proprio per questo, nel momento più critico per gli Stati Uniti dalla fine della Seconda guerra mondiale, queste elezioni e tutto quello ne deriva in termini di assetto politico e istituzionale, si sono trasformate non nel normale avvicendamento alla testa dello Stato nel rispetto delle garanzie costituzionali, ma in un capitolo di una lunga e sorda guerra tra due “americhe”, che non sembrano nemmeno più in grado di parlare tra loro, e che hanno due visioni di società diametralmente opposte.