Gli obiettivi e i limiti della spinta turca nei Balcani occidentali

Nei Balcani occidentali, certe (ex-)superpotenze fanno giri immensi e poi ritornano. È il caso, per esempio, della Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan. Tra Ankara e le capitali balcaniche esistono legami di natura storica e culturale che risalgono alla dominazione ottomana della penisola, il cui nome turco – secondo alcune interpretazioni – consoliderebbe il connubio ossimorico degli stereotipi sulla regione: Balkan, cioè miele e sangue.

Quella turca, tuttavia, è un’influenza che si rifà al passato ottomano più per edulcorare la sostanza dei rapporti con Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo e Serbia che per ripristinare un approccio imperiale alla regione. E i rapporti si strutturano lungo due direttrici. Innanzitutto, quella commerciale: negli ultimi dieci anni, in virtù di accordi di libero scambio, la Turchia ha notevolmente intensificato la propria influenza economica in tutti i paesi balcanici. La seconda direttrice è di carattere politico e diplomatico: la Turchia di Erdogan prova infatti a ritagliarsi uno spazio nel vuoto creato da altri attori globali, in primis l’Unione Europea, la cui credibilità nella regione è stata a lungo messa in discussione.

 

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Ma si tratta di un rapporto monodirezionale, ad interesse quasi esclusivo di Ankara e del presidente turco. Dalla sua ascesa politica, Erdogan cerca di ergersi a guida delle comunità musulmane a livello globale, e lo stesso accade in Bosnia e nella regione serba del Sangiaccato. Le ricadute di tale approccio, però, sono dirette per lo più alla politica interna: l’obbiettivo è quello di presentarsi all’elettorato turco come un leader di carisma internazionale in grado di tutelare gli interessi del paese in una sua storica area d’influenza.

Una rievocazione del passato Ottomano in Bosnia

 

Un neo-ottomanesimo?

La politica turca nei Balcani è rimasta pressoché invariata negli ultimi trent’anni. Quello che è cambiato con l’arrivo di Erdogan è piuttosto la metodologia: se i suoi predecessori prediligevano un approccio multilaterale alla regione – che dagli anni Duemila ha cominciato il proprio avvicinamento alla NATO – l’attuale presidente ha preferito piuttosto rapporti bilaterali coi singoli Paesi.

Il termine neo-ottomanesimo, però, si riferisce più all’apparenza che ai contenuti dei rapporti nella regione e, come detto, funge da strumento per la propaganda interna prima ancora che per le comunità sunnite locali. Guardando alcuni dati, infatti, la Turchia di Erdogan ha intensificato i propri rapporti commerciali in misura maggiore in alcuni di quei Paesi in cui il passato ottomano viene letto come un periodo di repressione dell’identità nazionale, come la Serbia. Il volume delle esportazioni verso Belgrado è non solo il più consistente nella regione ma anche quello con il trend di crescita maggiore, specie se rapportato a quelli verso Bosnia-Erzegovina o Albania, dove la popolazione di fede islamica è maggioritaria.

Quello di Erdogan, quindi, più che sul cosiddetto neo-ottomanesimo è un approccio improntato sul pragmatismo, dal momento che la Serbia rappresenta un partner strategico per salvaguardare gli interessi turchi. La Serbia è inoltre un tassello fondamentale del gasdotto russo-turco TurkStream, il cui segmento balcanico, che collega due Paesi membri dell’UE (Bulgaria e Ungheria), è stato inaugurato lo scorso anno. Ed è anche per questo che Ankara a fine 2021 venne indirettamente intesa come mediatore nella crisi istituzionale della Bosnia-Erzegovina, dove le autorità dell’entità a maggioranza serba da un anno stanno minando le istituzioni dello stato centrale bosniaco. Per la Turchia, infatti, la stabilità geopolitica dei Balcani è innanzitutto una garanzia a salvaguardia dei propri interessi nella regione.

Poche settimane prima di essere colpito dalle sanzioni statunitensi per le sue minacce alla pace e alla stabilità della Bosnia-Erzegovina, il membro serbo della presidenza tripartita, Milorad Dodik, aveva incontrato Erdogan ad Ankara. L’incontro, tenutosi a inizio novembre 2021, aveva portato molti a pensare che il presidente turco avrebbe mediato tra le parti. “Credo che Erdogan sia naturalmente interessato a supportare ed aiutare i bosgnacchi, ma sono anche convinto dai diversi contatti che ho avuto con lui che non farebbe nulla alle spese degli altri popoli della Bosnia-Erzegovina”, disse Dodik alla vigilia dell’incontro. E aveva ragione. Sebbene il presidente turco sia molto popolare tra i musulmani bosniaci – come dimostra il comizio che tenne a Sarajevo prima delle ultime elezioni generali nel 2018 – anche serbi e croati di Bosnia potrebbero beneficiare degli aiuti allo sviluppo e dei progetti finanziati da Ankara. Uno di questi è senz’altro l’autostrada Belgrado-Sarajevo, definita dallo stesso Erdogan “un progetto di pace”.

Rispetto ad altri attori globali attivi nella regione, la Turchia ha risorse limitate, un sistema finanziario precario e un’economia in crisi. Anche nelle iniziative diplomatiche, quindi, il pragmatismo bilaterale di Erdogan mira a preservare i propri interessi, attraverso il mantenimento di un ordine di pace a livello locale. Infine, merita menzione il fatto che la Turchia ha sfruttato la propria presenza economica per pressare i governi locali affinché chiudessero gli istituti ritenuti vicini a Fetullah Gulen, che il regime turco accusa di essere l’organizzatore del tentato golpe del 2016, nonché richiedendo di estradare i suoi sospetti attivisti.

 

Una competizione geopolitica?

La partnership commerciale tra la Turchia e i Balcani non può essere rapportata con quella di altri attori globali, come l’UE, la Cina o la Russia, ma ciò che la contraddistingue è la sua crescita. Un trend che accomuna tutti gli attori mediorientali che negli ultimi dieci anni hanno iniziato ad investire nei Balcani.

 

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Per Ankara, quindi, i Balcani rappresentano anche il terreno su cui confrontarsi con alcuni suoi storici rivali regionali. La rivalità che contrappone due blocchi distinti nel quadrante mediorientale, con Arabia Saudita (e Israele) da un lato e Turchia e Qatar (e gli altri sostenitori della Fratellanza Musulmana) dall’altro, si riflette proporzionalmente anche nella regione balcanica.

L’obiettivo finale di entrambi gli schieramenti è guadagnarsi il supporto delle comunità sunnite locali. Provando a semplificare, si potrebbe dire che, al momento, la Turchia è più popolare in Bosnia-Erzegovina, mentre nel Sangiaccato, con la complicità dei leader politici locali, i sauditi hanno maggiore presa tra la popolazione. La differenza è di carattere culturale ed è il risultato di due distinte interpretazioni dell’Islam: quello più moderato – e contaminato dalle culture occidentali – della Turchia, in contrapposizione al conservatorismo wahabita dell’Arabia Saudita. Il primo è senz’altro dominante, più vicino alla tradizione religiosa dei musulmani dei Balcani, ma il secondo è in crescita, e sostenuto da un paese economicamente più forte. La competizione nei Balcani si concretizza, quindi, innanzitutto nella sfera religiosa: i finanziamenti per ricostruire moschee distrutte durante la guerra, l’apertura di centri culturali, istituti religiosi e madrase dimostrano come la fede islamica, in alcune comunità, sia un efficace strumento di soft power.

In conclusione, la Turchia non sta “tornando” nei Balcani: più semplicemente, non se n’è mai andata. Quello di Recep Tayyip Erdogan non è neo-ottomanesimo, ma una diplomazia pragmatica, capace di fare leva retoricamente sul passato ottomano, che cerca di salvare gli interessi turchi all’estero in un momento di gravi difficoltà economiche e finanziarie. I Balcani, infine, offrono la possibilità di competere con partner regionali attraverso un’influenza religiosa riconducibile alla strategia globale di Erdogan di erigersi a guida politica e punto di riferimento per tutti i musulmani sunniti.

 

 

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