Gli intrecci geopolitici attorno al caso Venezuela

E’ difficile descrivere la situazione di un Paese come il Venezuela in cui l’inflazione cresce dell’80.000% l’anno – un numero di per sé arduo da immaginare e da ricondurre alla realtà dei fatti. Dove lo stato dell’economia viene misurato dalla salute del mercato nero, e dove l’informazione è soggetta alle più ferree logiche di fazione. Dopo le ultime settimane, però, qualcosa di certo si può affermare: il Venezuela si sta trasformando nel laboratorio della strategia con cui gli Stati Uniti fronteggiano i rivali di questa fase geopolitica: Russia e Cina.

Una manifestazione in Venezuela

 

Naturalmente, il fatto che il Venezuela sia il Paese del mondo con più riserve di petrolio è centrale nella questione – anche se non è l’unico elemento che spiega l’offensiva di Washington per sloggiare il presidente Nicolás Maduro. Il giovane presidente del parlamento, Juan Guaidó, nel suo annuncio giovedì 31 gennaio del “piano di ricostruzione nazionale” ha rivelato la necessità di portare in Venezuela enormi investimenti privati per riattivare la produzione, collassata dai 2,4 milioni di barili al giorno del 2013 ai 500.000 di metà 2018. “Servono 30 miliardi di dollari l’anno, per sette anni”, ha spiegato José Toro, l’economista esperto di risorse energetiche che ha collaborato alla stesura del piano di Guaidó. “E’ un capitale che è disponibile, ma non ce l’ha lo Stato. Sarà privato”.

In effetti, la gestione del petrolio venezuelano è nel caos, nelle mani dell’esercito – istituzione di cui Maduro si fida – con la collaborazione di gruppi ed entità tra il paramilitare e il criminale. “Recuperare la produzione sarà difficile come è stato in Iraq dopo l’invasione”, ha precisato l’ascoltata consulente Amy Myers Jaffe del Council on Foreign Relations di Washington. Un paragone rivelatore delle opzioni sul tavolo della Casa Bianca, data la minaccia di “mandare a Guantánamo” Maduro da parte di John Bolton, il Consigliere sulla Sicurezza Nazionale di Donald Trump che da aprile 2018 è tornato a ricoprire incarichi legati al governo americano come aveva già fatto durante il mandato di George W. Bush (nell’aprile 2002, all’epoca del tentato golpe contro Hugo Chávez, era tra i Sottosegretari agli Affari di Sicurezza Internazionale). Il discorso di Bolton (1° novembre 2018) tenuto alla “Freedom Tower” di Miami, che individuava nei governanti di Venezuela, Cuba e Nicaragua una “Troika della Tirannia” da sconfiggere, riecheggiava chiaramente l’idea dell’axis of evil, l'”asse del male” di cui era capofila Saddam Hussein, elaborata dopo l’11 Settembre. Infine, il 25 gennaio, la Casa Bianca ha ripescato come inviato speciale in Venezuela il diplomatico settantenne Elliott Abrams, che era pensionato nei centri-studi di Washington, dopo essere stato braccio armato negli anni ’80 della politica reaganiana di sostegno a colpi di stato e dittature in Guatemala, Nicaragua e El Salvador.

Visto che il Venezuela è distrutto dalla crisi economica, con che soldi il Paese gestisce il suo petrolio? Negli ultimi anni, la maggior parte degli investimenti nel settore hanno avuto provenienza russa o cinese. Pechino e Mosca hanno offerto al governo di Caracas grandi pacchetti di crediti bancari, in cambio di quote dei profitti. E’ piuttosto ovvio che gli investimenti russi e cinesi saranno sostituiti dal ritorno delle multinazionali che nel corso degli anni hanno abbandonato il Venezuela, se il piano di Guaidó funziona. Anche la compagnia nazionale PDVSA (che cerca, estrae, raffina e vende quasi tutto il petrolio) sarà privatizzata? Su questo, al momento, si possono solo fare delle ipotesi. Uno dei più importanti esponenti dell’opposizione, il deputato Elias Matta, ha comunque negato che ci siano dei piani pronti al riguardo.

Guaidó e i suoi hanno provato a convincere Cina e Russia che un nuovo governo e l’apertura ai privati del settore petrolifero beneficerà anche loro. Cina e Russia, tra l’altro, sono decisive al Consiglio di Sicurezza dell’ONU: il loro veto impedisce agli Stati Uniti di ottenere una mozione delle Nazioni Unite contro Maduro. Tuttavia, le due potenze continuano a rifiutare la strategia americana del riconoscimento di Guaidó e dell’embargo che si prepara per i prossimi mesi.

La Cina vedrebbe saltare il suo piano di 50 miliardi di dollari offerti al Venezuela in cambio della fornitura di greggio e della partecipazione alla costruzione di infrastrutture. Una joint venture tra la cinese CNPC e PDVSA, lo scorso anno, fu decisiva per incrementare del 50% la produzione. Allo stesso modo, la Russia teme la revisione di tutti i contratti petroliferi minacciata da Guaidó; nelle ultime settimane, decine di funzionari dell’azienda petrolifera di stato russa Rosneft, a cui il governo di Maduro deve 3 miliardi di dollari, come racconta Andy Robinson su La Vanguardia, hanno fatto check-in all’hotel Gran Meliá di Caracas.

A questo punto, due teorie confliggono. Secondo gli analisti di Washington fautori del regime change a Caracas, la Cina ha una strategia di penetrazione in Sud America che è pericolosa per gli equilibri globali, e che dunque dev’essere fermata. Secondo l’altro punto di vista, gli Stati Uniti vogliono cambiare il governo del Venezuela per perseguire la propria strategia, sia disfacendosi del capo di stato dell’ultimo grande paese latinoamericano che non accetta la dottrina economica e politica di Washington, sia usando la vicenda di Maduro come un “esempio” di ciò che accade a chi, nel conflitto geopolitico appena scoppiato tra gli USA e la Cina, si avvicina troppo a Pechino.

Potrebbe sembrare cinico parlare di strategie occulte e di giochi di potere internazionali: le motivazioni addotte all’azione americana – il piano è stato elaborato da Washington già all’indomani delle presidenziali del maggio 2018 vinte da Maduro ma non riconosciute dagli Stati Uniti né dai principali paesi del continente – sono quelle di risolvere la crisi umanitaria che spinge centinaia di migliaia di venezuelani a fuggire dal paese. Nessuno dubita infatti della gravità della mancanza di beni primari, che da anni rende un calvario la vita di milioni di persone in Venezuela. Il Paese non produce nulla se non il petrolio, e per tutto dipende da importazioni che devono essere pagate con i proventi della vendita del greggio: il crollo dell’export di petrolio, del valore di 100 miliardi di dollari nel nel 2012 ma solo di 32 nel 2017, si traduce in mancanza di cibo e medicine.

Ma è proprio questo il punto cruciale che spinge a mettere in dubbio le mosse della Casa Bianca. Le sanzioni approvate da Donald Trump sull’export di petrolio venezuelano il 28 gennaio ridurranno a zero gli 11 milioni di barili che il Venezuela vende ogni anno agli Stati Uniti, ma potrebbero trasformarsi in un insperato “regalo” a Maduro. Sia perché il presidente del Venezuela sarà ancora più propenso a rivolgersi ai compratori in Russia e Cina; ma anche per gli effetti di questo nuovo embargo sulla situazione umanitaria del Paese.

Infatti, secondo i calcoli dell’economista Francisco Rodríguez, un tempo vicino a Hugo Chávez e in seguito analista per Merrill Lynch e Bank of America, le nuove sanzioni faranno scendere il PIL del 26%, la produzione nazionale di petrolio del 56% e l’export del 50%. I mancati guadagni faranno diminuire gli acquisti di beni dall’estero del 40%: molti di questi beni sono appunto cibo e medicine. Considerando che in Venezuela addirittura i prodotti che si distribuiscono nei centri di carità e di assistenza di base (centri che in questo momento proteggono dalla fame milioni di persone) sono beni importati, la conseguenza delle nuove sanzioni sarà una catastrofe umanitaria. E’ uno scenario prefigurato anche dalle Nazioni Unite, che non rafforzerebbe certo l’immagine degli USA nel Paese.

Se Maduro sta forse calcolando che un simile terribile scenario gli potrebbe giovare, è lecito dubitare però della sua consapevolezza dei processi geopolitici in corso. Maduro potrebbe infatti aver sopravvalutato il suo proprio valore agli occhi di Russia e Cina: gli ultimi anni hanno visto sì la conferma di un mondo multipolare in cui Mosca e Pechino sono attori importanti, ma allo stesso tempo si sta consolidando una tendenza alla regionalizzazione delle sfere di influenza delle grandi potenze del mondo. L’Europa sul suo continente, la Russia in Medio Oriente, la Cina nel Sud-Est asiatico. Il Sud America e la regione caraibica risultano molto lontani da Mosca e Pechino, ma molto vicini a Miami, Los Angeles e Washington: le infrastrutture, i flussi commerciali e le tendenze economiche dell’inizio di questo secolo – dalle potenzialità ancora poco sfruttate nel grande continente americano, come dimostra la mappa in basso – mettono il Venezuela sulla strada degli Stati Uniti.

Quota del commercio di beni che resta all’interno della regione

 

Va comunque precisato che Maduro non ha ancora rifiutato del tutto l’idea di indire nuove elezioni presidenziali, come chiede l’opposizione, benché siano scaduti i termini di otto giorni del cosiddetto “ultimatum” emesso dall’Unione Europea in questo senso.

Cina e Russia “appoggiano regimi corrotti e antidemocratici” in America Latina, sentenzia un’analisi del Center for Strategic and International Studies, think tank conservatore di Washington, pubblicata prima del summit di Lima del 2018 (riassunto qui), e quello di Maduro è un “narcoregime che Pechino usa come grimaldello per penetrare nella regione”. Se questa sembra una sintesi corretta della posizione ufficiale americana sul Venezuela, resta piuttosto sorprendente, visto il clima di apparente isolamento di Donald Trump sul piano internazionale,  che la maggior parte dei paesi dell’America Latina e dell’Europa sono corsi ad allinearsi senza distinguersi sulla visione della Casa Bianca.

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