Il verbo arabo ḫabaza indica l’azione di fare il pane. Possedere una parola ad hoc che, a differenza dell’italiano “panificare”, è di uso frequente nella lingua quotidiana è già di per sé indicativo dell’importanza di questo alimento nella dieta dei Paesi arabi. Basti pensare che gli egiziani consumano tra i 180 e i 210 chilogrammi di pane pro capite, a fronte di una media globale pari a meno della metà. Che si tratti della produzione di pagnotte, baguette, farina o semolino per cuscus poco importa: i cereali sono questione di sicurezza nazionale nella parte di mondo compresa tra l’Atlante marocchino e l’Eufrate, tra le spiagge libanesi e i deserti omaniti.
I regimi arabi sono sempre molto attenti a dare rassicurazioni sull’accumulo di scorte adeguate a coprire il fabbisogno nazionale. Fasi di penuria o di aumento repentino e prolungato dei prezzi suscitano apprensione nelle capitali nordafricane e mediorientali perché, se il pane scarseggia o diventa troppo costoso, l’insofferenza e il malcontento aumentano e il vento delle rivolte, come già avvenuto nel 2011 e durante i tumulti per il pane degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, comincia a soffiare impetuoso. In questi mesi, la combinazione di siccità, cattiva gestione, inflazione e guerra in Ucraina sembra spingere il mondo arabo proprio in tale direzione.
Il peso dei cambiamenti climatici
La fascia costiera che va da Tangeri in Marocco a Biserta in Tunisia beneficia di un clima particolarmente adatto alle attività agricole, grazie all’umidità oceanica e del Mediterraneo, che favorisce accumuli pluviometrici simili a quelli della Provenza e dell’Italia meridionale. Inoltre, la geografia dell’immediato entroterra, dominata dalle vette della catena montuosa dell’Atlante, consente la formazione di discrete riserve idriche, indispensabili per le attività umane e per rifornire le città alle porte del Sahara. Tale sistema è sempre di più sotto pressione, a causa della riduzione delle precipitazioni, ma soprattutto in ragione della loro concentrazione in periodi molto brevi. La conseguenza è che fasi di siccità via via più lunghe sono inframmezzate da alluvioni distruttive, che devastano villaggi e raccolti.
Tra dicembre 2021 e febbraio di quest’anno, la pioggia che ha bagnato il Maghreb è stata pari a un terzo della media degli ultimi tre decenni. Precipitazioni così ridotte proprio nei mesi più importanti per la crescita del grano incidono sul raccolto, anche nel caso in cui la primavera dovesse rivelarsi sufficientemente piovosa. Il re del Marocco, Muhammad VI, ha dichiarato il 2022 un anno di siccità eccezionale e ha dato istruzioni al governo affinché predisponga un piano da 10 miliardi di dirham, equivalenti a circa un miliardo di dollari, per affrontare la situazione.
La vicina Algeria, dove le dighe a febbraio erano piene solo al 38 % della loro capacità, già importa tra 12 e 13 milioni di tonnellate di cereali ogni anno. Il 10 marzo scorso, le autorità hanno firmato contratti per l’acquisto di 700mila tonnellate di grano duro, a un prezzo di 485 dollari a tonnellata, cioè il doppio delle quotazioni di inizio 2021. Inoltre l’Algeria, pur di evitare carenze negli approvvigionamenti, ha ripreso l’acquisto di cereali dalla Francia, nonostante le forti tensioni diplomatiche che, nei mesi scorsi, hanno nuovamente avvelenato i rapporti con Parigi.
Le conseguenze dei cambiamenti climatici sono ancora più evidenti nel Levante e in Mesopotamia. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha recentemente pubblicato uno studio che conferma la tendenza della temperatura media dell’area ad aumentare a un ritmo maggiore rispetto al resto del mondo. Entro la fine di questo secolo, il Medio Oriente potrebbe essere più caldo di 4-6°C rispetto agli inizi dell’era industriale, divenendo in larga parte inabitabile. Gli effetti di tali fenomeni sono già evidenti. In Siria, ad esempio, il decennio che ha preceduto l’inizio della guerra civile nel 2011 ha visto milioni di persone abbandonare le campagne. La minore disponibilità idrica, il suolo sempre più degradato e l’avanzamento del deserto avevano indotto quei disperati a cercare fortuna nei centri urbani, alimentando la crescita senza controllo di insediamenti di fortuna alle porte delle città, dove il malcontento si è accumulato fino a esplodere.
Un fenomeno simile è avvenuto in Iraq, dove la portata del Tigri e dell’Eufrate ha subito una progressiva riduzione negli anni. Al di là dei cambiamenti climatici, hanno inciso i prelievi di acqua e i numerosi sbarramenti realizzati in territorio turco per favorire l’agricoltura e la produzione idroelettrica nazionali.
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Inutili sono state le varie tornate di negoziati tra Ankara e Baghdad per cercare un compromesso. La parte irachena, molto più debole sul piano diplomatico, si è dovuta rassegnare a constatare l’accelerazione dei fenomeni di desertificazione e di aumento della salinità del suolo, soprattutto nella zona della Shatt al Arab. Qui, i progressi fatti dal 2006, quando erano stati avviati i progetti di ripristino delle aree umide prosciugate sotto il regime di Saddam Hussein, si scontrano con il problema delle infiltrazioni di acqua marina dal Golfo, che rende i campi inadatti alla coltivazione. Non è un caso che il sedicente Stato Islamico abbia trovato un bacino di reclutamento particolarmente promettente nelle masse di emarginati in fuga dalle campagne e delusi dalle condizioni di vita infernali nelle periferie abbandonate delle città.
Sussidi e arretratezza distorcono il mercato alimentare
Lo spopolamento delle aree rurali interessa anche altri Paesi arabi, come la Tunisia. Questa non riesce ad aumentare la sua produzione agricola anche in ragione della cattiva gestione delle risorse disponibili. Nelle regioni centro-occidentali, il 50 % dell’acqua immessa nella rete idrica si disperde a causa dell’obsolescenza delle infrastrutture. Pur disponendo di buone riserve di fosfato, concentrate nel governatorato di Gafsa e indispensabili per la produzione di fertilizzanti, la Tunisia non ha sviluppato un sistema industriale per la lavorazione della materia prima, che viene quasi tutta venduta all’estero. Nel 2019, il Paese ne ha estratto quasi 4 milioni di tonnellate, occupando il 5° posto tra i produttori mondiali, ma ancora continua a importare fertilizzanti prodotti in Europa occidentale e in Russia a costi sempre maggiori.
L’assenza di un piano adeguato di crescita industriale, funzionale alle esigenze del settore primario, è frutto del disinteresse della classe dirigente. Da questo punto di vista, ben poco è cambiato dopo la Rivoluzione dei gelsomini del dicembre 2010 e il crollo del regime ventennale di Zine al Abdine Ben Ali. L’instabilità politica peggiora l’endemica insicurezza alimentare del Paese. Dall’estate scorsa è in atto un braccio di ferro tra il parlamento e il presidente della Repubblica, Kais Saied, che ha recentemente sciolto l’assemblea dei rappresentanti del popolo, approfondendo una crisi istituzionale dall’esito incerto. Tale situazione non facilita i negoziati in corso con il FMI per ottenere un nuovo pacchetto di aiuti, tanto che il rischio di default tunisino entro un anno appare sempre più probabile. Tra l’altro, l’organizzazione di Washington, già da tempo, richiede la progressiva abolizione dei sussidi pubblici per l’acquisto di generi alimentari di base, che sono considerati distorsivi della concorrenza e un peso eccessivo sul bilancio statale.
La politica di calmierare i prezzi del pane, dell’olio e del carburante è molto diffusa nei Paesi arabi. I regimi dell’area vi fanno ricorso come strumento di consenso e per evitare che le masse ridotte alla fame sfoghino la rabbia in fiammate di violenza o in rivolte su larga scala. Proprio in Tunisia, il presidente Habib Bourguiba ricorse alla forza per sedare le ribellioni contro l’aumento del prezzo della baguette, seguito all’eliminazione dei sussidi su grano e semolino, decisa tra il 1983 e il 1984. Nel decennio precedente, era stata la volta dell’Egitto di Anwar Sadat, che aveva tentato di liberalizzare parzialmente il mercato del pane. Allora i morti furono quasi 200 e i feriti diverse migliaia.
L’Egitto, dove il 30 % degli oltre 100 milioni di abitanti vive al di sotto della soglia di povertà sulle coste e lungo il Nilo, mantiene il prezzo della pagnotta da 45 grammi fermo a 5 piastre dal 1988. Tale quotazione è sempre più difficile da sostenere per le finanze statali che, alla fine di quest’anno, potrebbero spendere il doppio del 2020 e ben più dei 45 miliardi di sterline egiziane (2,4 miliardi di euro) dell’anno scorso. Tra l’altro, il consumo di cereali è in aumento dal 2016, quando la liberalizzazione del tasso di cambio ha avviato spinte inflattive, erodendo il potere d’acquisto dei cittadini. Il Covid ha aggravato la situazione, comportando la riduzione delle rimesse dall’estero e la crisi del turismo che, nel 2019, contribuiva al 10% del PIL e al 15% dei ricavi in valuta straniera.
Il pane e, in parte, gli olii vegetali rappresentano da sempre le fonti principali di calorie della popolazione egiziana. Ma il fatto che il loro peso nell’alimentazione sia in crescita non è un buon segno, poiché questo significa che fasce via via più ampie della società non riescono ad accedere ad altri alimenti, come la carne, il pesce e la frutta. La politica dei sussidi, che in Egitto risale agli anni Quaranta del secolo scorso, non può permettersi di fagocitare altre risorse e il suo effetto di attenuazione delle tensioni sociali appare sempre meno incisivo. A poco serviranno le multe salate, volute dal presidente Abdel Fattah al Sisi per dissuadere le speculazioni sulla produzione di pane non sovvenzionata dallo Stato.
I prezzi calmierati dei generi alimentari sono ancora sostenibili solo negli emirati del Golfo e in Algeria, Paesi che beneficiano di entrate aumentate di parecchio negli ultimi mesi, grazie alle quotazioni sempre più alte del petrolio. Nel 2021, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno però posticipato ancora l’applicazione di piani predisposti prima della pandemia per ridurre tali sussidi e introdurre un’imposta sul valore aggiunto su alcuni alimenti non essenziali. Le tensioni sui mercati internazionali hanno indotto tali Paesi, insieme a Qatar, Oman e Kuwait, ad aumentare le importazioni di prodotti agricoli, soprattutto dagli Stati Uniti e dal Canada, per incrementare le scorte ed evitare problemi di sicurezza nell’approvvigionamento alimentare.
Misure simili sono state adottate, come già accennato, dall’Algeria. Le autorità hanno annunciato di congelare l’implementazione dei progetti finalizzati alla rimozione dei sussidi sull’olio, sulla farina e sul gas, costati 17 miliardi di dollari l’anno scorso. Le esportazioni dello Stato maghrebino, costituite quasi esclusivamente dagli idrocarburi, sono passate dai 20 miliardi di dollari nel 2020 a 34,5 miliardi dell’anno scorso, con un prezzo medio del barile di 71 dollari. In questi mesi, i ricavi saranno ancora più alti, consentendo di non far pesare direttamente sulle famiglie l’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, allontanando, almeno per il momento, la paura della fame.
La guerra civile e il conflitto in Ucraina aggravano il quadro
Questo lusso non possono permetterselo gli Stati che non hanno il paracadute del petrolio. In Yemen e in Siria, dove l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e fa i conti con la scarsità di cibo per via della guerra civile, la situazione è destinato a peggiorare. Il conflitto seguito all’invasione russa dell’Ucraina ha messo in evidenza la dipendenza di molti Paesi mediorientali dal grano proveniente dall’area del Mar Nero. Lo Yemen copre il 22% del suo fabbisogno con importazioni da Kiev, mentre in Siria, secondo il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, la metà della popolazione, pari a 12 milioni di persone, già si trova in condizioni di insicurezza alimentare acuta. I rifornimenti dalla Russia, nonostante le rassicurazioni fornite al regime amico di Bashar al Assad, potrebbero subire improvvise interruzioni, a causa delle difficoltà di trasporto.
Nei mesi a venire, deve essere messa in conto la riduzione della produzione e dell’esportazione, qualora i raccolti fossero danneggiati dalle operazioni militari o destinati a coprire il fabbisogno interno. La Russia e l’Ucraina sono infatti grandi esportatori di cereali. Insieme, producono poco più di 100 milioni di tonnellate di grano ogni anno e contribuiscono a circa un terzo dell’export globale, al 17% di quello di mais e alla metà del commercio mondiale di olio di semi di girasole.
Anche altri Paesi nordafricani e mediorientali dipendono dai rifornimenti provenienti dal Mar Nero. La Tunisia arriva al 42% del suo fabbisogno, ma è il Libano il primo cliente, con più della metà dei consumi cerealicoli coperta da acquisti in Russia e Ucraina. Il Paese dei cedri è in preda a una crisi politica, economica e sociale da molti mesi. I partiti sono impegnati a difendere i loro privilegi e le élite si concentrano su come mantenere inalterato il proprio status e i rispettivi sistemi clientelari in vista delle elezioni parlamentari del prossimo 15 maggio.
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Nel frattempo, i cittadini sono privati di tutto. Le elargizioni di cibo, carburante e medicine curate dalle forze politiche, anche attraverso l’impego di risorse attinte illegalmente dal bilancio pubblico, appaiono sempre più inefficaci. Sarà quindi più difficile evitare accumuli di rabbia, prima o poi desinati a sfociare in nuove violenze, acuite dalle divisioni confessionali che lacerano il Paese. La pandemia, l’instabilità e l’esplosione del porto di Beirut del 4 agosto 2020, che ha reso inservibile la principale porta di ingresso e uscita delle merci, hanno fatto precipitare il valore della lira libanese. Il tasso di cambio ufficiale tra il dollaro e la divisa nazionale è di 1 a 23.000 (era 1 a 16.000 un anno fa).
La conseguenza è l’inflazione galoppante, che ha polverizzato i risparmi e gli stipendi dei cittadini. Né sembra vicina un’intesa con il FMI per un prestito capace di dare un po’ di ossigeno all’economia locale. Le condizioni poste dall’organizzazione internazionale e dalla Francia, che guida il gruppo di Paesi pronti a sostenere il Libano, non trovano considerazione sufficiente nella classe politica corrotta e incapace. Il risultato è che la tensione è palpabile e basta poco affinché una deflagrazione più potente di quella del porto di Beirut scuota di nuovo le fondamenta del Paese.
Un Ramadan amaro
I cambiamenti climatici, le tensioni politiche e il conflitto russo-ucraino rischiano dunque di scatenare una crisi alimentare molto grave in Nord Africa e in Medio Oriente. L’aumento dei prezzi del grano, già in corso dalla metà del 2021, ha subito un’accelerazione per via della guerra e per la paura che essa interrompa le catene di approvvigionamento. Le sanzioni occidentali contro Mosca e il rifiuto delle grandi compagnie di navigazione di fare scalo nei porti russi rendono più probabile l’adozione di misure protezionistiche da parte di altri Paesi, preoccupati di riservare al mercato interno le eccedenze di produzione agricola.
In queste settimane di Ramadan, quando la domanda già in condizioni normali sale in maniera repentina, il rischio è che i prezzi dei generi alimentari crescano ancora di più. Tra l’altro, rispetto alle economie avanzate, dove la materia prima rappresenta una componente secondaria del prezzo finale dei beni, i Paesi più poveri sono molto esposti alle fluttuazioni delle quotazioni delle commodity. Ulteriori fiammate inflazionistiche renderanno un numero crescente di prodotti alimentari inaccessibile a fasce di popolazione via via più ampie nei Paesi arabi.
I rispettivi governi saranno sempre più in difficoltà a sostenere le spese per calmierare i prezzi del pane e degli altri prodotti di prima necessità e quando milioni di persone, già bloccate nella trappola dell’emarginazione economica e sociale, affrontano il dramma della fame, la rabbia accumulata negli anni si libera tutta insieme, con effetti imprevedibili. Così è stato nel 2011, quando le rivolte definite con troppo ottimismo “Primavere arabe” cominciarono al grido di “pane, lavoro e dignità”. Così potrebbe essere in questo già complicato 2022.