Giovani e vecchi dopo il lockdown

A differenza che nelle guerre tradizionali, nella guerra di oggi contro la pandemia le vittime sono principalmente i vecchi. A morire non sono i giovani, come morivano sui fronti delle guerre dei secoli scorsi. Gli obiettivi prescelti dal Coronavirus sono le persone dai 70 anni in su, specie con altre patologie preesistenti. E quanto più una società ha un profilo demografico sbilanciato verso la terza età – è il caso dell’Italia – tanto più rischia un alto numero di vittime.

Questa distinzione in categorie di età dovrebbe guidare il lockdown e soprattutto la fase post-lockdown: è la scelta che sta facendo Israele, illustrata dal suo Ministro della difesa, Naftali Bennett, in un messaggio video di sabato scorso.

Vediamo perché, partendo dall’ormai notissimo rapporto dell’Imperial College sull’impatto delle strategie di contrasto al Covid-19. Secondo la ricerca britannica, che ha apparentemente spinto Boris Johnson a modificare le sue posizioni iniziali, esistono essenzialmente due opzioni possibili: la “mitigazione” (misure più soft e più selettive di isolamento, ma con un alto numero di morti fino a quando non sia raggiunta nei mesi la cosiddetta “immunità di gregge”); la “soppressione” (chiusura delle scuole, confinamento nelle case, distanza sociale e riduzione drastica dei servizi non essenziali). Questa seconda è la scelta fatta dalla Cina a Wuhan e nella provincia di Hubei, adottata poi progressivamente dall’Italia e dal resto d’Europa e approdata infine, con modalità diverse, anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

Si tratta di due opzioni che hanno un rapporto inverso fra costi e benefici: la mitigazione non pregiudica le attività economiche di un paese ma ha un costo quasi insostenibile in termini di vite umane – e per questo nessun governo è in grado di reggerla (la conversione di Boris Johnson al lockdown lo ha dimostrato chiaramente); la soppressione, limitando i contagi, aiuta i sistemi sanitari a reggere l’emergenza ma è insostenibile sul piano economico.

Ragione per cui non potrà durare troppo a lungo, specie nelle democrazie occidentali, che non possono o non riescono ad imporre una via autoritaria – il modello cinese, appunto – al confinamento di larga parte della propria popolazione. In termini ancora più secchi: il lockdown è la risposta estrema all’emergenza sanitaria ma uccide l’economia (e temporaneamente la società liberale); la mitigazione ucciderà troppe persone anche ben dopo il “picco”. Oggi i governi europei sembrano tutti votati alla soppressione, quale che ne sia il costo economico e sociale. Ma se la ricetta non funzionerà in fretta, dovranno in qualche modo rivederla.

Diventa indispensabile, allora, concepire una strategia intermedia fra mitigazione e politiche di lockdown più mirate e più selettive. L’unica possibilità di farlo, moderando il trade-off fra numero di morti e danno economico, è probabilmente  quella di riuscire a “differenziare” la popolazione. Come?

Primo, attraverso strumenti di politica sanitaria, a partire da tamponi più diffusi e ripetuti, come ha dimostrato del resto la rapidità con cui la Corea del Sud (aiutata in questo dall’esperienza della SARS nel 2003) è riuscita a contenere il Coronavirus: solo identificando più chiaramente le persone infette asintomatiche e tracciando i loro contatti – così dicono oggi i virologi – sarà possibile limitare i contagi.

A questa prima scelta va aggiunta – sono sempre gli epidemiologi a parlare – l’introduzione su base massiccia di test del sangue che rivelino gli anticorpi, permettendo quindi di identificare la percentuale di popolazione ormai immune: una volta selezionata, questa quota di cittadini potrà tornare a lavorare liberamente, non costituendo più (per un certo numero di mesi almeno) fonte di contagio.

Se queste misure mirate consentiranno, come appunto in Corea del Sud o a Taiwan, di abbassare rapidamente la progressione della curva pandemica, la soppressione avrà funzionato e potrà diventare parziale. Ma se il lockdown dovrà invece continuare nel tempo – con decreti di chiusura successivi – la tenuta psicologica ed economica di un paese ne verrà radicalmente compromessa.

Per evitare un esito del genere, l’unica possibilità realistica e sostenibile nel tempo – combinata a un testing diffuso e alla rilevazione degli anticorpi –  sembra essere quella di continuare ad applicare un lockdown totale solo nei confronti della popolazione veramente a rischio (le fasce di età più anziane e le categorie vulnerabili, a cominciare da medici e infermieri). Nella quota di popolazione più giovane, rispetto a cui il Coronavirus ha una letalità estremamente ridotta, si svilupperà gradualmente l’immunità.

Potrebbe dimostrarsi, con il passare delle settimane, una scelta in qualche modo inevitabile per le democrazie occidentali, incluso il nostro paese. Per l’Italia, si tratterebbe anche di evitare che i costi economici e sociali di uno shock esterno ricadano (ancora una volta) sulle generazioni più giovani. La legittima protezione della quota più anziana della nostra popolazione non può insomma avvenire ad un costo che peserà inevitabilmente sulle generazioni successive.

Si è molto parlato, in queste settimane che sembrano non passare mai, della responsabilità che i giovani, con i loro comportamenti, devono dimostrare verso i vecchi; ma non c’è dubbio che esiste anche il problema opposto. E se ci si pone il problema opposto (dal “gap” educativo per bambini e ragazzi, ai tassi di disoccupazione che accompagneranno la recessione economica), una conclusione possibile è che i provvedimenti più restrittivi continuino a valere nel tempo solo per la terza età, tenendola al riparo e distanziata da qualunque forma di contagio generazionale.

Un accordo fra classi di età, di fronte a una pandemia che assomiglia a una guerra, è una delle condizioni per vincerla. Altrimenti, il Coronavirus finirà per dividere in modo violento anche la nostra società.

 

 

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